Progetto Italia Federalea cura di Francesco Paolo Forti |
dell'idea federale (2) |
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3. Il federalismo e la questione italiana I grandi federalisti dell'Ottocento, d'altra parte, sono tutti fieri nemici del nazionalismo. Un cattolico liberale e federalista quale Lord Acton è quanto mai diffidente, ad esempio, verso ogni sorta di irredentismo, mentre ammira di tutto cuore il federalismo statunitense. La sua opinione è che il liberalismo ha il proprio cuore nella teoria dei limiti del potere: è liberale insomma quell'azione politica che si sforza di impedire la crescita del controllo politico sulla società. Il liberalismo, allora, è necessariamente anche federalismo, in quanto soltanto in virtù di istituzioni federali è possibile opporre al potere centrale tutta una serie di contropoteri. A giudizio di Acton, la teoria federale oppone i governi locali allo strapotere della capitale e abitua i cittadini all'autonomia e all'indipendenza. La sua tesi è che "il vero naturale freno per una democrazia assoluta è il sistema federale, che limita il governo centrale attraverso poteri decentrati, e i poteri statali attraverso i poteri che essi hanno ceduto". Anche Acton, come Tocqueville, ha visitato l'America e ne è rimasto colpito, convinto che un popolo che si dà istituzioni democratiche di tipo federale è un popolo che rifiuta la peggiore passione politica, il nazionalismo, e non vuole assolutamente inseguire la cancellazione delle diversità. Secondo Acton, a questo proposito, "l'ineguaglianza delle condizioni, mentre è una necessaria conseguenza della libertà, è, nello stesso tempo, indispensabile per il progresso". Il federalismo è una concezione che accetta positivamente le diversità ed è insomma un antidoto ai moderni miti ugualitari, allo statalismo, al nazionalismo. In questo senso lo storico inglese ammira lo Stato multietnico austriaco e, per la stessa ragione, esprime parole di elogio per la federazione svizzera: "La nazionalità formata dallo Stato è (...) l'unica verso la quale abbiamo dei doveri politici. Dal punto di vista etnico, gli Svizzeri sono Francesi, Italiani o Tedeschi, ma nessuna nazionalità accampa la minima pretesa su di essi, all'infuori della nazionalità esclusivamente politica della Svizzera". La mera nazionalità politica, infatti, è il risultato di un patto civile tra individui e gruppi liberi, e niente di più; mentre la nazionalità etnica che punta a divenire istituzione - in ragione della logica nazionalistica - presuppone una sorta di metafisica collettivistica ed ipotizza un ente che sovrasta le persone e le annulla. A questo proposito è molto interessante quanto afferma un altro federalista cristiano dell'Ottocento, Costantin Franz, che fu nemico di Bismarck e si batté per realizzare una Confederazione tedesca all'interno dell'area mitteleuropea. Il suo liberalismo nutrito di fede privilegiava la società rispetto allo Stato, contrastava ogni idea di istruzione statizzata (nella persuasione che le scuole dovessero essere gestite dalle Chiese e dagli enti locali) e negava ogni identificazione pagana tra Stato e nazione: "Sul terreno di una stessa nazione possono sorgere diversi Stati, come d'altra parte un solo Stato può abbracciare diverse nazionalità o parti di nazionalità". Da sincero credente, egli comprende perfettamente che le istituzioni politiche stanno ambiscono ormai a sostituirsi alla religione e che le nuove ideologie secolari investono sempre di più la nazione di significati metafisici. Egli evidenzia che "se le nazionalità sono soltanto formazioni storiche, che nascono e muoiono nel corso della storia, esse non dovrebbero pretendere di essere qualcosa di santo o di divino". Questa decisa critica del nazionalismo, accompagnata ad una netta apertura per le soluzioni federali, è riconoscibile anche all'interno della culturale federalista italiana. Autori come Gioberti e Rosmini, per limitarsi ai maggiori, hanno proposto soluzioni che tenessero in considerazione non soltanto la complessità della realtà italiana (caratterizzata dalla presenza del Papa), ma anche la diversificazione delle tradizioni e delle mentalità. Nel pensiero di Rosmini, in particolare, la netta opposizione al perfettismo si sposa con una proposta istituzionale nutrita di realismo e di saggezza liberale. La sua idea era di garantire ad ogni Stato componente la federazione una propria Camera legislativa, con il compito di garantire la giustizia e tutelare le libertà private, mentre la pace e la concordia tra le diverse istituzioni italiane sarebbero state assicurate da una Dieta presieduta dal Papa e a cui Rosmini pensava di affidare pochi ed essenziali compiti. Proprio a questo riguardo Pietro Piovani ha giustamente rilevato che "c'è un federalismo di Rosmini che è, prima di ogni altra cosa, opposizione ad una concezione fittiziamente unitaria della società e dello Stato". Nel pensiero federalista dell'età risorgimentale, allora, vi erano tutte le premesse per una soluzione liberale e federalista: rispettosa dei diritti dei singoli e delle comunità. Se lo Stato che nacque dall'unificazione dell'Italia fu illiberale e accentrato, allora, le cause sono in primo luogo da rinvenirsi nel successo di un Risorgimento che fu nazionalista invece che federale, e quindi incapace di elaborare istituzioni flessibili e tolleranti. Carlo Cattaneo, il più intelligente (e isolato) dei grandi protagonisti del dibattito ideologico ottocentesco, riconobbe immediatamente tutto ciò: la sconfitta del suo progetto segnalò proprio l'involuzione delle speranze di libertà che l'Italia aveva visto emergere durante la prima età del secolo. Per tutti i federalisti dell'Ottocento (italiani e stranieri, cattolici e laici) soltanto una struttura federale avrebbe potuto permettere all'Italia - la cui storia fu sempre segnata da divisioni, e che ancora presentava notevoli diversità nell'economia e nella cultura - di garantire ad ogni comunità una vera libertà ed un'autentica democrazia. Questa esigenza era particolarmente avvertita da Cattaneo, appunto, per il quale sia Cavour che Mazzini erano esponenti di un centralismo da cui lui era lontanissimo. Illuminista ed allievo di Romagnosi, fervente ammiratore della civiltà anglosassone, egli era del tutto persuaso che la costruzione di un'Italia monarchia (o anche repubblicana) accentrata avrebbe ostacolato ogni sviluppo civile e avrebbe umiliato le legittime aspirazioni liberali delle diverse popolazioni. Nel ricostruire la storia della sua Lombardia, d'altra parte, Cattaneo aveva evidenziato come molte delle popolazioni che in vario modo avevano caratterizzato la storia e l'evoluzione di questa terra vivevano all'interno di istituzioni autonome, rispettandosi e collaborando. Contrappone, ad esempio, gli Etruschi ai Romani, mostrando una netta preferenza per i primi: "Il principio etrusco era diverso dal romano, perché federativo e molteplice poteva ammansire la barbarie senza estinguere l'indipendenza; e non tendeva ad ingigantire un'unica città, che il suo stesso incremento doveva snaturare, e render sede materiale di un dominio senza nazionalità". Egli parla di borghi, campagne e vallate, perfettamente consapevole che anche la stessa Lombardia contiene universi culturali ed economici che esigono cure appropriate ed una diretta conoscenza dei problemi. Un'Italia che dalla capitale pretendesse di affrontare i problemi della Sicilia orientale e della Liguria, della Sardegna e della Valtellina, gli pareva non solo irrazionale, ma destinata a trasformarsi in una tirannia. Benché eletto deputato, egli si rifiutò quindi di partecipare alla vita politica italiana e di riconoscere la legittimità della conquista regia (da repubblicano convinto, non accetta che la Casa Savoia domini la penisola). Dalla Svizzera in cui si è ritirato egli avversa la centralizzazione decisa dalla Destra storica e la conseguente cancellazione di ogni autonomia. Già nel 1848, d'altra parte, era stato molto esplicito nel definire quali fossero le sue speranze: "ognuno abbia d'ora in poi la sua lingua, e secondo la lingua abbia la sua bandiera, abbia la sua milizia". Queste parole egli le riferiva alle nazionalità che componevano l'Impero, ma per lui avevano un valore universale e dovevano valere allo stesso modo anche all'interno della monarchia sabauda. Lo Stato federale, in questo senso, sarebbe dovuto essere l'esatto contrario dello Stato centralista, erede dell'assolutismo e del giacobinismo rivoluzionario, teso a utilizzare i propri poteri per uniformare il territorio e la popolazione, ma anche predisposto ad allargare sempre di più il proprio controllo sull'economia, sulla cultura e sull'istruzione: con l'inevitabile conseguenza di soffocare ogni spirito di iniziativa e opprimere ogni identità e tradizione. Solo una federazione, insomma, avrebbe garantito ad ogni popolo italiano il diritto di autogovernarsi e di essere padrone a casa propria. Di fronte ad un'Italia che fu unita senza che fosse prestata la minima attenzione alla sua complessità e all'opinione dei cittadini, esprime analoghe opinioni Pierre-Joseph Proudhon. Questi giudica folle l'idea di unificare alla francese una realtà sociale quale è quella italiana e chiede proprio che siano valorizzate le diversità, rinunciando a quel mito dell'indivisibilità della sovranità che già tanti danni aveva causato in Francia e in altri paesi: "Qui l'unità è cosa fittizia, arbitraria, pura invenzione della politica, combinazione monarchica o dittatoriale che non ha niente in comune con la libertà. Prima di questi ultimi anni, la critica dei liberali, ostili alla Casa di Napoli, faceva notare che i Siciliani non hanno mai potuto soffrire i Napoletani: perché ora si vuole che sopportino i Piemontesi?". Proudhon sottolinea quanto siano differenti (per economia, storia e mentalità) le popolazioni che compongono l'Italia: "che cosa ha in comune questo bacino con quello del Tevere che taglia obliquamente la penisola nel mezzo; con tutta la parte sudorientale, dalle Paludi Pontine fino a Reggio e a Taranto? Tutta questa penisola, a partire dal grande bacino del Po, che si chiamava un tempo Gallia Cisalpina, e che non era neppure considerata come facente parte dell’Italia, forma una specie di budello, diviso del senso della lunghezza dalla catena degli Appennini, dalle cime dei quali partono, a sinistra e a destra, come gradini, una serie di valli indipendenti che finiscono tutte al mare". Fin dalla sua nascita, però, l'Italia si costituì quale Stato fortemente accentrato, che esprimeva una totale sfiducia verso le diverse comunità di cui esso si componeva e che ha costantemente temuto e avversato le aspirazioni all'autogoverno che di volta in volta sono emerse: un tempo nel Mezzogiorno e oggi nel Nord. Unificata dall'esercito di Casa Savoia e ideologicamente compattata da un nazionalismo nutrito di patriottismo conservatore e di generiche aspirazioni mazziniane, l'Italia del 1861 contiene già in sé molte premesse della propria successiva evoluzione e l'origine di molti problemi con cui dovrà fare i conta. In tutta Europa, d'altra parte, il XIX secolo ha visto la nascita e lo sviluppo non solo del collettivismo socialista e dell'ideologia marxista, ma anche il successo di uno spirito giacobino volto ad annientare ogni spirito di autonomia e ogni diritto individuale. Se la Francia conobbe l'autoritarismo del Secondo Impero e la Germania dovette subire il dispotismo guglielmino e l'intolleranza retriva del cancelliere Bismarck, l'Italia passò dalla Destra storica al Trasformismo, dal colonialismo crispino al generale Bava Beccaris, dalla corruzione giolittiana alla dittatura mussoliniana. Ma un'Italia costruita a partire da modelli costituzionali e amministrativi di scuola francese non poteva essere un'Italia liberale. E questo perché la cultura nazionale e sociale di Giuseppe Mazzini, con il suo mito dell'unità organica del popolo italiano, ha avuto la meglio sul pragmatismo, sulla tolleranza liberale e sull'ispirazione federalista di Carlo Cattaneo. Il liberalismo nazionale uscito dal Risorgimento non comprese insomma e anzi apertamente rigettò la lezione e gli ammonimenti dei federalisti, illudendosi di poter garantire la libertà dell'individuo anche in presenza di istituzioni accentrate. Nell'Italia unificata, allora, ogni opposizione politica e sociale fu trasformata in un problema di ordine pubblico (basta pensare alla lotta al banditismo del Sud, ma anche alla successiva persecuzione dei militanti socialisti e anarchici). L'Italia è stata per lungo tempo alla spasmodica ricerca di un ordine legale: ed è proprio in questo senso che il controllo sociale esercitato dai prefetti, veri e propri "luogotenenti" del potere centrale, ha guidato un processo di nazionalizzazione del Paese che sarà poi esaltato dal regime fascista. Ma il fascismo non fu altro, per usare le parole di Piero Gobetti, che l'autobiografia della nazione: punto di arrivo di una storia che ebbe i propri padri fondatori nei protagonisti dell'Unità. L'Italia federale che era nei sogni di Cattaneo e Ferrari, di Gioberti e Rosmini (ma che avrebbero voluto veder nascere anche Proudhon e Lord Acton), non scompare del tutto con la morte di questi autori. Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, infatti, si ha una rinascita dell'idea federalista: per merito, in particolare, del socialista Gaetano Salvemini, del cattolico Luigi Sturzo e del liberale Luigi Einaudi. Meridionale e convinto assertore che il Sud possa risorgere solo grazie a proprie istituzioni (capaci di responsabilizzarlo e accrescerne la maturità democratica), Salvemini riprende in forma originale la lezione di Cattaneo. A suo giudizio il federalismo permette una migliore e più efficiente democrazia: "il governo federale (...) affida agli uffici centrali le sole funzioni politiche d'interesse nazionale, e così riduce al minimo la burocrazia della capitale, e permette su di essa un reale controllo del parlamento centrale; conserva alle amministrazioni locali, più vicine agli interessati, tutta la direzione della vita locale, e permette così che tutti gli affari locali siano definiti direttamente dagli organi locali elettivi". La sua convinzione è che soltanto la sconfitta di una concezione centralista del potere può permettere di sconfiggere le nuove burocrazie parassitarie, dispotiche e inefficienti. Non distante è la posizione di Sturzo, che fin dall'inizio del secolo rivendica una maggiore libertà d'azione per le assemblee e gli amministratoti del Mezzogiorno, sottolineando il nesso che collega l'accentramento del potere a Roma e il degrado della vita civile meridionale: "la corruzione, la sopraffazione dei politicastri interessati, delle sanguisughe dei municipi, dei manutengoli della mafia e della camorra". Come in Salvemini, anche vi è in Sturzo la convinzione che non si debba più ridurre più la società meridionale "a essere serva, terra di conquista, regione da sfruttare e da piemontizzare, come dicevasi un tempo". E questo non soltanto perché esistono differenze storico-culturali che vanno rispettate, ma soprattutto in ragione del fatto che a suo giudizio solo una vero federalismo può porre le basi per il riscatto civile ed economico del Sud. Ecco cosa afferma: "Io sono unitario, ma federalista impenitente. Lasciate che noi del Meridione possiamo amministrarci da noi, da noi designare il nostro indirizzo finanziario, distribuire i nostri tributi, assumere la responsabilità delle nostre opere, trovare l'iniziativa dei rimedi ai nostri mali;... non siamo pupilli, non abbiamo bisogno della tutela interessata del Nord; e uniti nell'affetto di fratelli e nell'unità di regime, non nell'uniformità dell'amministrazione, seguiremo ognuno la nostra via economica, amministrativa e morale nell'esplicazione della nostra vita". Molti decenni dopo taluni di questi temi riemergeranno in alcuni articoli di Einaudi, che dalla Svizzera del suo esilio volontario invitava a cancellare l'istituto napoleonico dei prefetti e riconosceva l'importanza di guardare all'autonomismo cantonale per ritrovarvi ispirazione ed insegnamenti. A contatto con la vita pubblica elvetica, caratterizzata da una decisa localizzazione del potere (oltre che da un frequente ricorso alla democrazia diretta) l'economista torinese colse chiaramente il carattere liberale ed anti-centralistico delle istituzioni federali. La sua indicazione, però, è stata del tutto ignorata per molti decenni. Nell'infuriare della seconda guerra mondiale sarà però Luigi Einaudi a riattualizzare le polemiche salveminiane e sturziane contro il centralismo prefettizio. Già preoccupato di veder nascere, a guerra conclusa, un'Italia diversamente articolata e più rispettosa delle libertà dei singoli e delle comunità, Einaudi sferra un attacco ferocissimo al centralismo italiano e al potere dei prefetti, veri proconsoli alle dipendenze del ministro degli Interni. Egli scrive che una classe politica locale non si può formare "se l'eletto ad amministrare le cose municipali o provinciali o regionali non è pienamente responsabile per l'opera propria. Se qualcuno ha il potere di dare a lui ordini o di annullare il suo operato, l'eletto non è responsabile e non impara ad amministrare. Impara ad ubbidire, ad intrigare, a raccomandare, a cercare appoggio. Dove non esiste il governo di se stessi e delle cose proprie, in che consiste la democrazia?". E conclude: "Finché esisterà in Italia il prefetto, la deliberazione e l'attuazione non spetteranno al consiglio municipale ed al sindaco, al consiglio provinciale ed al presidente; ma sempre e soltanto al governo centrale, a Roma". All'Assemblea costituente, purtroppo, i fautori di una soluzione autenticamente federale furono pochissimi e i nuovi nazionalisti (ancora una volta timorosi di dover confrontarsi con spinte autonomiste o indipendentiste) riprodussero, con qualche marginale modifica, quell'impianto istituzionale centralizzato che già tanti problemi aveva causato alla società italiana. Ed una volta conclusosi il lavoro dei costituenti, di federalismo - in Italia - per molti decenni non se ne parlò più.
4. Il federalismo e l'Europa Se nel dopoguerra si è parlato di federalismo, infatti, il più delle volte ciò è avvenuto in rapporto al processo di unificazione dell'Europa. Nel momento in cui, dopo due terribili conflitti mondiali, si è trattato di assicurare la pace tra le nazioni europee e si è voluto assicurare la massima unificazione dei mercati, l'idea federale è tornata d'attualità. Il federalismo europeo, però, è stato quasi sempre inteso quale strategia istituzionale volta a costruire uno Stato su scala continentale. Come già si è visto, per tutta la tradizione hamiltoniana il federalismo è un sistema per unire: una forma di unionismo che non mette in discussione il primato dello Stato sulla società e che rifiuta ogni discorso in merito ai diritti individuali naturali. È per questo che all'interno di tale filone è possibile immaginare un'Europa federale quale semplice somma di Stati centralisti. In Europa, allora, il federalismo si afferma con l'obiettivo di sviluppare relazioni stabili e coordinate tra le istituzioni nazionali europee, al fine di eliminare per sempre ogni possibilità di conflitto. Se Kant aveva difeso l'idea che in vista della pace perpetua "il diritto internazionale deve fondarsi sopra una federazione di liberi Stati", questa stessa tesi viene ripresa nel momento in cui le popolazioni europee avvertono quanto sia stata disastrosa l'affermazione dei nazionalismi. Di fronte ai guasti del socialismo e del fascismo, le classi dirigenti europee s'incamminano verso la costruzione di istituzioni unitarie continentali. Come sostenne anche Hobsbawn, dopo la sconfitta di Hitler si afferma la convinzione che "la via migliore per evitare che ciascuno Stato produca il suo nazionalismo sia di fonderli tutti in una federazione generale, oppure di avere una forma di organizzazione socio-politica del tutto differente da quella territoriale centralizzata che caratterizza lo Stato moderno". Il cammino verso la creazione di istituzioni politiche ed economiche comuni sarà difficile e irto di ostacoli, ma la direzione appare chiaramente segnata fin dai primi anni del dopoguerra. Come dimostrerà la pubblicazione del Memorandum Monnet (rimasto segreto per vent'anni), già nel 1950 molti politici europei erano persuasi che "per la pace futura la creazione di una Europa dinamica è indispensabile. Una associazione di popoli "liberi", alla quale parteciperanno gli Usa, non esclude affatto la creazione di una Europa". Per Monnet, infatti, era assolutamente necessario "abbandonare le forme del passato ed entrare in una via di trasformazione sia con la creazione di comuni condizioni economiche di base, sia nel contempo con l'instaurazione di nuove autorità accettate dalle sovranità nazionali". Questo federalismo volto ad unire l'Europa e a dare sempre più forza alle istituzioni comuni guadagnerà terreno con il passare degli anni. Contro di esso, d'altro canto, troverà soltanto le resistenze dei vecchi sciovinismi nazionali, mentre saranno piuttosto isolate quelle voci liberali che cercheranno di mettere in guardia di fronte ai rischi connessi alla creazione di un unico Stato europeo. In questa situazione il potere comunitario ha potuto dilatarsi senza quasi trovare ostacoli, facendosi talora ancora più minaccioso ed illegittimo dei vecchi poteri nazionali e sviluppando al proprio interno una burocrazia del tutto irresponsabile. Come è stato autorevolmente sottolineato, "la Comunità Europea è un vero dinosauro politico, neanche sfiorata dai dubbi sull'indiscutibile bontà del paradigma redistributivo; dubbi che ormai circolano in quasi tutti i paesi del mondo. Assolutamente libera dal controllo politico dei cittadini, intrattenendo rapporti di mera cortesia nei confronti del Parlamento di Strasburgo la burocrazia europea, come si sa, vive in una sorta di esilio dorato dalla politica". L'Europa delle istituzioni comunitarie, insomma, si è affermata quale macchina politico-burocratica volta ad armonizzare, oltre che a redistribuire risorse. Lo stesso trattato di Maastricht, nel momento in cui introduce la moneta unica europea, apre la strada ad altre unificazioni. Non possiamo infatti dimenticare che nello scenario contemporaneo dietro ad ogni moneta c'è uno Stato. E se l'Europa non è ancora uno Stato a pieno titolo, quando essa si dota dell'euro pone le premesse per la costruzione di solide istituzioni politiche continentali. Appare quanto mai irragionevole, però, l'idea che il continente in cui viviamo, tanto differenziato, possa trarre giovamento dal fatto di essere subordinato ad un solo governo e ad un solo sistema giuridico; soprattutto in un'epoca come quella attuale, tanto orientata a valorizzare le autonomie locali. Diversamente dagli Stati Uniti, spesso citati come esempio paradigmatico di un'area molto vasta in cui è utilizzata una sola valuta, l'Europa non conosce alcuna unità linguistica, dato che nel nostro continente l'inglese è compreso solo da una minoranza; per di più i cittadini europei non hanno quella propensione a trasferirsi che caratterizza invece gli americani. Una politica monetaria europea, allora, è destinata a creare scompensi economici ed occupazionali che molto difficilmente (e comunque a prezzi umani elevatissimi) potranno essere risolti dalla mobilità dei lavoratori. La nostra situazione, insomma, non è neppure lontanamente paragonabile agli Stati Uniti, dove invece è forte la disponibilità a spostarsi verso i distretti in cui c'è più lavoro. È quindi facile prevedere che la moneta comune potrebbe essere all'origine di terribili tensioni tra i paesi dell'Unione: poiché alcuni vorranno politiche monetarie rigorose, mentre altri si batteranno per far prevalere soluzioni opposte. L'unificazione monetaria diventerà un fattore di forte disunione tra le nazionalità: come è già successo, in passato, a cauda del dirigismo europeo in ambito agricolo o siderurgico. È dunque più che probabile che trovi ulteriore conferma quell'antico adagio liberale che vede nel mercato uno strumento di collaborazione e nella politica una fonte inesauribile di opposizioni e conflitti. Con il dilatarsi delle competenze europee, inoltre, i politici dei vari paesi saranno poi spinti a rafforzare sempre di più le loro attitudini lobbistiche e a percorreranno in lungo e in largo i palazzi del potere di Bruxelles nella speranza di ottenere aiuti e comprensione da un'eurocrazia che tende a diventare onnipotente. L'Europa rischia insomma di essere costruita seguendo i canoni della vecchia statualità ormai in crisi e di riprodurne tutti i difetti. Le classi politiche, d'altra parte, tentano sempre di costituire "cartelli" monopolisti e di impedire ai cittadini di sfuggire al loro controllo trasferendosi (o anche solo spostando i propri capitali) da un'area all'altra. Il progetto di un'Europa unita, armonizzata e sempre più sottoposta ad una pianificazione centralizzata risponde proprio alle speranze e agli interessi dei ceti politici e burocratici del continente. L'Unione che sta per nascere, insomma, ha tutti i tratti di una costruzione voluta dagli Stati e decisa da loro. Anche se questo appare un poco desolante, dopo anni e anni di discussioni sull'Europa dei popoli, dei mercati e delle comunità locali. Nulla assicura, per fortuna, che questa Europa interventista e armonizzatrice veda davvero la luce. L'epoca contemporanea, d'altra parte, è caratterizzata dall'emergere di un'economia sempre più interdipendente che sta rapidamente svuotando di ogni significato liberale il vecchio progetto europeista, il quale pure giocò a favore di un'estensione delle libertà quando era necessario far saltare le barriere doganali che dividevano la Francia e l'Italia, la Germania e l'Olanda. Molti anni fa la nota sentenza sul cassis de Dijon - che impedì una volta per tutte ogni sorta di barriera tecnica alla circolazione dei beni - ha sicuramente agevolato una graduale liberalizzazione dell'economia: l'Europa, in quel momento, ha operato contro i poteri nazionali e a favore dei diritti dei singoli. Ma è assurdo pensare di sfuggire ad un padrone di media grandezza (lo Stato nazionale) conferendo immensi poteri ad un padrone di dimensioni spropositate (lo Stato continentale), che sta copiando nel peggiore dei modi tutti i vizi dell'Italia o della Francia. Tanto più che oggi vi sono settori dell'economia catalana, bavarese, toscana o alsaziana che hanno meno interesse per il resto dell'Europa di quanto non ne abbiano per il Nord America o il Giappone. Quello che è in gioco è un po' il modello di convivenza che si intende immaginare per i decenni a venire. E in questo senso il venir meno della concorrenza tra valute non può essere salutata positivamente dalle forze liberali dell'Europa, che continuano a sognare il moltiplicarsi e il loro localizzarsi dei poteri, e non già il loro crescente concentrarsi a Strasburgo o a Bruxelles. In termini di competitività, già adesso i paesi europei stanno già pagando molto caro il fatto di essere ingessati entro regolamenti che limitano in vario modo l'iniziativa imprenditoriale. Un'Europa che si spingesse ulteriormente lungo questa strada si troverebbe sempre più lontana dalle aree maggiormente dinamiche dell'economia mondiale. E in questa situazione possiamo solo augurarci che i cittadini europei comprendano la lezione di Hans-Hermann Hoppe, il quale sostiene che una società è tanto più libera quanto più gli Stati sono di piccole dimensioni e tali quindi da favorire la massima concorrenza tra istituzioni: unica vera garanzia di non dovere restare in eterno entro la vecchia gabbia di istituzioni oppressive e autoritarie. Proprio alla luce di quanto sta succedendo a seguito del trattato di Maastricht e dell'adozione di una moneta comune, allo scopo di rinvenire una diversa concezione dell'Europa - davvero federale - può essere utile recuperare la lezione di Denis de Rougemont, uno dei pochi europeisti del dopoguerra che ebbe sempre il coraggio e l'intelligenza di denunciare i rischi di una soluzione neo-centralista. Convinto assertore di una teoria federale che non si limitasse ad unire l'Europa ma che favorisse pure il rafforzamento e l'autonomia degli enti locali (comuni, cantoni, ecc.), de Rougemont riteneva che la scommessa dei veri europeisti consistesse nel riuscire ad elvetizzare l'Europa, trasferendo a livello continentale quella capacità di collaborare e di rispettare le autonomie che è propria - nella sostanza - del sistema istituzionale svizzero. È del tutto evidente, d'altra parte, che se si è federalisti alla maniera di Jefferson, si deve allora ritenere che una vera federazione europea esige che vengano trasferite al centro soltanto quelle competenze che le comunità locali giudicano necessario gestire in comune. Sono particolarmente interessanti, a questo proposito, i sei principi cardine che già nel 1947 - in occasione del Congresso di Montreux dell'Unione Europea dei Federalisti - Denis de Rougemont indicava come essenziali per un'Europa che fosse davvero federale e non la semplice somma di dodici centralismi a cui aggiungere un super-centralismo continentale. Secondo de Rougemont, il primo principio è che "la federazione non può nascere se non dalla rinuncia ad ogni idea di egemonia organizzatrice, esercitata da una delle nazioni che comporrebbero la federazione". Il secondo principio afferma poi che "il federalismo non può nascere che dalla rinuncia ad ogni spirito di sistema". Il terzo principio, inoltre, vuole che il federalismo non conosca "problemi di minoranze". Per la cultura dell'autonomismo le identità non si contano e non si contrappongono: non vi è maggioranza né minoranza, ogni persona essendo rispettata nella propria realtà specifica e lasciata libera di organizzarsi come meglio crede assieme a coloro che ne condividono i tratti fondamentali (linguistici, religiosi, ecc.). Il quarto principio affermato da de Rougemont è che "la federazione non ha l'obiettivo di cancellare le diversità e di fondere tutte le nazioni in un solo blocco, ma al contrario di salvaguardare le loro qualità proprie". Il quinto principio vuole che il federalismo riposi "sull'amore della complessità, per contrasto con il semplicismo brutale (armonizzatore ed ugualitario, magari in nome della solidarietà) che caratterizza lo spirito totalitario". Il sesto principio, infine, si basa sull'idea che "una federazione si forma da vicino a vicino, per il tramite di persone e di gruppi, e non a partire da un centro o tramite i governi". Il principale insegnamento di questo pensatore svizzero, allora, è
che l'Europa non è un problema di uomini politici, ministri e ambasciatori,
non è un problema di trattati e di accordi internazionali: o quanto
meno non è principalmente questo. L'Europa è innanzi tutto
un problema di libertà da acquisire e di spazi aperti da creare,
per poter costruire sempre nuovi legami e sempre nuove parentele tra i
cittadini dei vari Stati.
5. Il federalismo e la crisi della statualità In Italia, in Europa e nel mondo quello che sembra entrare in crisi, ad ogni modo, è proprio lo Stato moderno: assediato dal libero mercato, dalla concorrenza internazionale tra gli Stati, dalle pretese delle comunità locali, dalla superiore legittimità delle libere associazioni culturali, professionali o religiose. Negli ultimi decenni - grazie ad autori come Daniel J. Elazar e Gianfranco Miglio - si sta quindi assistendo ad una rinascita del vero federalismo, quale risposta alla crisi della statualità. Per Elazar, in particolare, non c'è libertà federale se la possibilità di autodeterminazione locale è una mera concessione del potere centrale, il quale rimane tale e si limita a cedere benignamente una parte delle proprie competenze. La libertà del federalismo è la negazione stessa del rapporto centro-periferia, come di quello sovrano-suddito. Il federalismo vive di rapporti orizzontali e pattizi, analogamente all'universo del mercato e a quello delle associazioni. Secondo Elazar, il federalismo è da intendersi quale autogoverno e quale collegamento stabile tra entità politiche, ma al tempo stesso la comunità è concepita quale "unione volontaria di esseri umani come eguali per costituire corpi politici, in modo che tutti riaffermino la propria uguaglianza di fondo e conservino i propri principi fondamentali". Vi è l'idea, insomma, che il federalismo permette di superare molte impasse della politica quale noi la conosciamo e quale si è formata negli ultimi secoli: "lo Stato nazionale moderno, la reificazione dello Stato che si opera in esso, e la sua crisi come aspetto della più generale crisi dei paradigmi filosofici e politici della modernità". La federazione, in quanto accordo volontariamente pattuito, è sempre relazione tra persone che liberamente contrattano e in questo modo danno vita ad un'istituzione perennemente bisognosa di definirsi e legittimarsi. In virtù del patto federale i rapporti tra i partecipanti della vita pubblica si istituzionalizzano, ma senza che venga meno la costante esigenza di ottenere conferma e consenso da parte dei soggetti contraenti il patto. Questa vocazione al dialogo e alla transazione segna la vita delle società federali anche al di fuori dell'ambito politico: "il federalismo implica un atteggiamento e un modo di comportarsi nelle relazioni sociali, oltre che politiche, che porta a interazioni umane fondate sulla cooperazione negoziata, sulla condivisione fra le parti e sul coordinamento, piuttosto che sulla relazione gerarchica tra superiore e subordinato". Come è stato rilevato, Exploring Federalism ha mostrato "l'abisso di teoria politica che separa il modello gerarchico dello stato reificato dalla non centralizzazione tipica dei sistemi federali". L'umanesimo che si trova al fondo del federalismo, questo rigetto della sovranità politica in quanto sacralità statuale, si sposa allora ad un ripensamento della radice teologica e giudaico-cristiana della politica. Come si è detto, la parità degli attori istituzionali che caratterizza i modelli a matrice è essenziale perché ci si trovi di fronte ad un ordinamento veramente federale e, quindi, rispettoso dei diritti delle comunità. Per il neofederalismo, d'altro canto, il potere statale è un potere delegato e basato sul consenso. Le istituzioni nascono a seguito di una libera associazione di individui liberi e sovrani, i quali non cedono la propria libertà, non si assoggettano ad un tiranno né si riducono volontariamente in condizione di schiavitù, ma semplicemente affidano ad un'istituzione una parte dei propri poteri ed accettano una serie di leggi: tra cui anche una legge fondamentale di livello istituzionale in virtù della quale è possibile introdurre norme nuove ed adeguate alle situazioni mutevoli. In un quadro teorico autenticamente liberale, ogni Stato è un'associazione o - meglio ancora - un'associazione di associazioni, un'alleanza di città libere e sovrane. È facile obiettare che quasi nessuno Stato della storia, quasi nessuna realtà istituzionale pubblica, del presente come del passato, ha mai conosciuto una forma di questo tipo. Ma la filosofia politica (come la filosofia morale) non è descrizione di ciò che è, bensì una riflessione su ciò che dovrebbe essere. E questo non perché i filosofi amino, come il Socrate di Aristofane, discutere di cose astratte dall'alto delle nuvole della teoria. Al contrario: ogni uomo pratico - ogni cittadino che nei propri rapporti quotidiani entra in contatto con le istituzioni ed ogni politico calato nelle proprie cospirazioni e strategie - possiede principi ed ideali (più o meno nobili, più o meno condivisibili). La ragionevole consapevolezza che essi non sono facilmente e direttamente trascrivibili nella realtà storica, non ci deve far rinunciare ad investigarli e farsene portatori, consapevoli dell'esigenza di essere prudenti, rispettosi dei principi altrui, coscienti dei rischi terribili connessi all'ideologismo giacobino ed alla furia rivoluzionaria di chi pretendere di rifare il mondo ad immagine delle proprie utopie. Eppure la filosofia politica ha una grande utilità proprio nell'indicare la stella polare verso cui, più o meno lentamente, più o meno velocemente, è doveroso (eticamente doveroso) dirigersi. In merito a questo tema delicato e fondamentale del rapporto tra la realtà e la filosofia, tra le ragioni della legalità storica e quelle della legittimità morale, va poi evidenziato che uno tra i paesi più pragmatici ed alieni da ogni sorta di astrattezza, la Svizzera, non ha rinunciato - pur accettando tutte le imperfezioni di ogni condizione umana storicamente determinata - a rifarsi a filosofie politiche davvero rispettose della dignità individuale. Come ha affermato con un linguaggio da utopista lo scrittore elvetico Eugène Rambert, la "Svizzera non esiste che per una sola ragione: la vogliono gli svizzeri". Niente ragion di Stato, dunque, ma piuttosto l'appello ad una legittimità che deriva dal consenso dei singoli uomini. Sulla base della limitata fiscalità, delle autonomie cantonali e comunali, come pure di tutte le altre soluzioni giuridiche, economiche ed istituzionali che hanno fatto della Svizzera una realtà giustamente celebrata, nessuno può immaginare di vedere nel sistema sociale elvetico il concretizzarsi di un modello liberista puro che, in quanto tale, non potrà mai essere compiutamente tradotto in realtà: anche le istituzioni svizzere, insomma, sono un qualcosa di imperfetto e da correggere, migliorare, perfezionare. Ma certamente non sarebbero tanto ammirate ed efficaci se i cittadini della Svizzera non coltivassero - esplicitamente o implicitamente - una filosofia politica della libertà, del federalismo, dell'autonomia e se - come Rambert - non vi si richiamassero costantemente. Proprio a questo proposito, Gianfranco Morra ha evidenziato che "la secessione, in fondo, è come il divorzio". Ma il problema sta proprio nel comprendere in che modo sia possibile far sì che gli obblighi politici divengano relazioni contrattuali e consensuali. Nelle società dell'Occidente le legislazioni permettono ovunque la fine del rapporto matrimoniale, mentre rendono spesso difficilissima l'interruzione dei rapporti di lavoro (il licenziamento) o di quelli di locazione (lo sfratto), proibendo del tutto la secessione di un gruppo di associati o anche di un singolo che voglia ispirarsi alle idee di Thoreau. Con la sola eccezione del rapporto matrimoniale, lo Stato moderno e centralista avversa il libero contratto ed infatti cerca di interferire e regolamentare ogni ambito di questo genere. Il giorno in cui i membri della società civile potessero scegliere, autonomamente ed in virtù di liberi accordi, in quale modo organizzare le proprie relazioni nel lavoro ed in altri ambiti, senza subire imposizioni dall'alto, diverrebbe molto difficile per lo Stato riuscire a preservare del tutto la propria diversità di istituzione che gode di un potere indipendente da ogni assenso dei cittadini. Ai quali è semplicemente lasciato il compito, in larga misura rituale e poco incisivo, di cambiare il volto di chi comanda ed esercita quei poteri che quasi nessuno contesta o si propone di ridurre. Se il neofederalismo contemporaneo è liberale ed antistatalista, allora, è perché nasce dalla consapevolezza che non soltanto i giocatori della vita politica devono essere selezionati dai cittadini, ma che a questi ultimi spetta il diritto di scegliere le medesime regole dei gioco e - per di più - gli stessi tavoli su cui si devono disputare le partite. Come ha rilevato Gianfranco Miglio, oggi il federalismo non è più guardato come uno strumento atto ad unire, ma quale strategia per "tutelare e gestire le diversità". È questo un concetto fondamentale, anche se troppo spesso sottovalutato, che obbliga ad introdurre un'altra considerazione ad esso strettamente collegata. L'autentico federalismo che è oggi da pensare, allora, quale occasione storica per incamminarci verso società più liberali, che riconducano progressivamente l'obbligazione politica alla sua natura eticamente condivisibile di patto tra uomini decisi a condividere qualcosa e ad instaurare relazioni contrattuali. Nel declino dello Stato moderno e dell'autoritarismo disumano che lo ha segnato (nelle sue derive totalitarie ed assistenziali, tecnocratiche e paternalistiche: dal comunismo al nazismo, dal welfare state occidentale ai mille peronismi del Terzo Mondo), l'antica tradizione liberale dei contratti privati sottoscritti da liberi proprietari e quella federalista dei patti di alleanza che uniscono tra loro città indipendenti possono rappresentare due riferimenti importanti per individuare linee di evoluzione in grado di assicurare maggiore autonomia alla società civile, una più sicura tutela dei diritti dell'individuo e nuovi spazi di innovazione politica e civile. Dal punto di vista culturale, il neofederalismo si colloca quindi all'interno di un quadro generale che vede il declino dello statalismo, nelle sue varie forme, e l'affermarsi di una nuova cultura tesa ad affrancare la società dal dominio dei pianificatori, dall'irrazionalità costruttivista dei legislatori, dall'oppressione di una fiscalità che è divenuta - ormai - esproprio generalizzato. Liberalismo e federalismo si incontrano e si intrecciano nel momento in cui si scoprono ugualmente anti-statalisti ed anti-centralisti. La filosofia politica che li sottende proclama l'inviolabilità della persona umana e dei suoi diritti e, di conseguenza, il pieno diritto a decidere del proprio futuro (fermo restando l'obbligo di non ledere i corrispettivi diritti altrui). Nel nostro tempo, lo Stato continua a concepirsi - ed è per questo che è in grave difficoltà - quale realtà giuridica dotata di poteri che prescindono dalla libera adesione degli individui e trovano la propria legittimità in un'obbligazione politica che trascende le opzioni dei singoli e la loro effettiva intenzione di condividere le "regole del gioco". Un cittadino britannico o francese è tale indipendentemente dalla sua volontà: che gli piaccia o meno, egli deve sottostare a tutta una serie di obblighi e regolamenti. Come nel rapporto tra l'individuo e lo Stato, singoli e gruppi costituiti su base volontaria sono oggi sottoposti alla "tutela" dell'ente pubblico, che può limitare e in qualche caso perfino annullare le loro prerogative. Il diritto di proprietà, in particolare, non è affatto riconosciuto come tale, ma subordinato a tutta una serie di pretese esigenze "sociali" che autorizzano lo Stato e le sue articolazioni ad avviare procedure di esproprio o altre forme di limitazione di tale diritto. Ma la fragilità e la precarietà delle libertà individuali sono la diretta conseguenza del fatto che lo Stato moderno, detentore del monopolio della legge, gode di una sorta di proprietà virtuale di tutti i beni privati ed in questo modo può minacciare ogni individuo ed ogni comunità, può ricattarli e coartarli. Ma questo stesso Stato moderno sta oggi conoscendo una crisi profonda, connessa al fatto che le "classi politiche" non sono più in grado di reperire "formule" (ovvero teorie legittimanti) che possano preservare e difendere il loro potere dalle critiche e dalle contestazioni. Nel passato, durante la lunga - ed ora declinante - epoca moderna, i governanti hanno difeso lo Stato e quindi i loro stessi personali poteri appellandosi alla trascendenza della Nazione, della Classe, della Razza o della Scienza nel nome delle quali essi dicevano di comandare. Eliminata e contestata l'origine divina del potere politico, si sono creati surrogati semi-religiosi che hanno sacralizzato il potere ed in virtù dei quali si è pretesa l'obbedienza dei cittadini. Oggi, però, la situazione è mutata. Se pochi contestano che il metodo democratico sia quello più adatto a gestire le questioni politiche (a dispetto del fatto che esso tende a sacrificare i diritti delle minoranze e soprattutto i diritti di quella che è la minoranza per eccellenza, l'individuo singolo), da più parti però si avanzano critiche in due direzioni. In primo luogo si vuole sottrarre allo Stato, e quindi al gioco democratico, una larga parte delle competenze: quando si parla di privatizzazioni e di deregolamentazione, in definitiva, si chiede che l'economia, l'istruzione o il commercio divengano questioni di non pertinenza per i poteri pubblici. In secondo luogo, si mette in contestazione l'ambito geografico del gioco democratico, il numero dei partecipanti e l'area d'azione. Chiedere autonomia fiscale e di bilancio, insomma, significa pretendere che il gioco democratico che si disputa a Milano, a Padova o a Napoli goda di una libertà di movimento che attualmente non ha, dato che quasi tutto si decide a Roma o a Bruxelles, e comunque su un tavolo da gioco più ampio: elezioni per la Camera ed il Senato, Governo nazionale, Commissioni parlamentari, ecc. Un modo più liberale di intendere il rapporto tra lo Stato ed i comuni, e tra i comuni ed i cittadini, esige allora che si cominci a concepire i Municipi quali sedi di semplici istituzioni condominiali, e quindi di associazioni costituitesi su base spontanea e prive della possibilità di interferire con i diritti di proprietà che si trovano all'esterno dei beni strettamente condominiali o che comunque sono liberi da ogni forma di servitù. Per la teoria federalista più avanzata, oggi il Comune deve progressivamente perdere i propri caratteri pubblici per acquisire quelli di un'istituzione privata. Questo processo può essere favorito dal ricupero di taluni elementi della concezione tradizionale che era propria dell'antico Comune rurale: il quale veniva inteso - fino al termine del XVIII secolo - non già quale "contratto sociale" in miniatura o, peggio ancora, quale emanazione di un contratto sociale nazionale ancora più anonimo e lontano, bensì quale contratto effettivo sottoscritto da soggetti privati interessati a mettere in comune alcuni beni difficilmente amministrabili in forma separata o, più frequentemente, ad affidare ad un ente superiore taluni diritti in merito all'utilizzo di beni mai posseduti da singoli proprietari e tradizionalmente considerati proprietà indivisa di un gruppo di famiglie. Sulla base di un patto sottoscritto e quindi di uno statuto (in cui si riprendevano, per lo più, vecchie norme del diritto consuetudinario), i liberi cittadini che costituivano il Comune rurale medievale non perdevano in alcun modo la propria libertà nel momento in cui si associavano e consorziavano. Il contesto entro il quale, ai giorni nostri, il federalismo torna d'attualità è dunque questo. Il liberalismo e l'antistatalismo di cui esso è intessuto non devono difendersi soltanto dalle accuse del vecchio conservatorismo nazionalista, storicista o positivista, più o meno retorico ed invecchiato. La più strenua ed agguerrita difesa dello Stato centralista e del concetto di nazione che lo sottende viene dall'area culturale progressista e da chi difende il solidarismo pubblico e il welfare state. Lo Stato moderno, in effetti, ha dichiarato guerra ad ogni forma di autonomia sociale e agli stessi diritti naturali individuali: ma esso non è mai riuscito ad imporsi compiutamente fino a quando non ha utilizzato l'appello alla nazione quale instrumentum regni. Sotto taluni aspetti la cultura liberal-nazionale del XIX secolo ha dunque rappresentato un (infelice) compromesso tra il principio della libertà e quello della nazione, dove a prevalere - a conti fatti - fu il secondo. Nel commentare l'importante scritto di Renan sulle comunità volontarie, Ludwig von Mises mise in evidenza come una nazione "esibisce giornalmente la sua esistenza manifestando la propria volontà di cooperazione politica all'interno del medesimo Stato (...). Una nazione, perciò, non ha alcun diritto di dire ad una provincia: m'appartieni; ti voglio annettere. Una provincia consiste dei suoi abitanti. Se, in questo caso, qualcuno ha un diritto ad essere sentito sono questi abitanti". Sono gli individui, allora, a chiedere libertà d'azione e a rivendicare spazi d'azione. Non vi è alcun dubbio che le lotte per l'indipendenza o per l'autonomia che attraversano la nostra epoca e che vedono protagoniste tante piccole patrie coinvolgono anche, e forse soprattutto, popoli definibili tali secondo i criteri più tradizionali. Ma è ugualmente vero che stiamo pure assistendo all'emergere di concetti del tutto nuovi, che prescindono dal riferimento a quei tratti sulla base dei quali, tradizionalmente, vengono definiti i popoli. Quella che sta profilandosi, insomma, è una teoria postmoderna della nazionalità e del federalismo, la quale è fortemente condizionata da alcune importanti esperienze storiche e dalle rielaborazioni a cui sono state sottoposte. D'altra parte, se poniamo mente a quella che fu l'Europa continentale durante l'epoca dei nazionalismi aggressivi e centralizzatori, dobbiamo subito riconoscere che due furono le principali realtà istituzionali che - seppure in modo molto diverso - seppero resistere ai patriottismi risorgimentali o che comunque meglio si sforzarono di contrastarli: la federazione elvetica e l'impero asburgico. Costituitesi fin dall'origine quali realtà sovranazionali e pluraliste, queste due istituzioni centro-europee rappresentano (anche simbolicamente) la matrice ed anche il modello di alcune nuove attitudini dinanzi al problema della nazione e dell'indipendenza. Entro quelle istituzioni, infatti, la tutela della specificità culturale non proveniva certo da una celebrazione nazionalistica di specifiche etnie oggettivamente definibili, ma da un'interpretazione quanto mai empirica ed imperfetta della teoria soggettiva. Quando volgiamo la nostra attenzione verso la realtà svizzera, in particolare, non possiamo non riconoscere che, pur con le sue ovvie manchevolezze, essa rappresenta ancora oggi - all'interno dell'Europa - il migliore esempio di istituzione federale: in senso liberale e anticentralista. E non c'è affatto da stupirsi se nelle sue elaborazioni intellettuali il neofederalismo contemporaneo guardi alla Confœderatio Helvetica come al luogo in cui meglio si è espressa la resistenza delle comunità politiche di fronte alla vocazione armonizzatrice, omologante e predatoria del potere centrale. In Svizzera, popoli che hanno identità differenti (sul piano linguistico, religioso, storico, ecc.) convivono positivamente in ragione del loro voler stare assieme e del carattere in qualche misura contrattuale, poiché federale, del patto istituzionale che li collega. È certamente vero che anche in Svizzera i singoli cittadini non possono scegliere di essere protetti da questo o da quel governo così come scelgono di assicurare la propria abitazione con questa o quella assicurazione, ma è pure vero che l'origine essenzialmente privatistica degli antichi comuni e cantoni (e dell'obbligazione che unisce i cittadini alle loro istituzioni) continua a garantire a quelle popolazioni condizioni quanto mai favorevoli: in termini di pressione fiscale, centralizzazione dei potere, rispetto dei diritti individuali, ecc. La riflessione teorica sulla dottrina neofederale conferma come all'interno del dibattito politico contemporaneo il tema della comunità politica stia per essere progressivamente riformulato mettendo da parte le concezioni gerarchiche e collettivistiche che sono proprie dell'età moderna. L'obbligazione politica è destinata a lasciare posto alla delega privata, il contratto sociale cede spazio di fronte al contratto tout court.
Oggi il dinamismo e la libertà che sono propri dei sistemi federali vengono apprezzati e valorizzati anche in società tradizionalmente estranee alla cultura federalista, né è casuale che si faccia un grande parlare - sebbene non sempre in modo appropriato - del principio di sussidiarietà. Quella che si afferma, pur tra qualche equivoco, è l'idea che la società sia preminente rispetto allo Stato e che quest'ultimo sia possa intervenire solo se e quando la società non è in grado di risolvere autonomamente i propri problemi. È per questo che nel clima di generale ripensamento del rapporto tra le istituzioni pubbliche e il mercato, tra l'ordinamento legale e comunità, viene prestata una nuova attenzione alle esperienze maturate negli Stati Uniti, ma ai sette secoli di storia federale elvetica. Pur con tutte le sue particolarità ed imperfezioni, il modello svizzero rappresenta, infatti, un esempio ammirevole di struttura istituzionale capace di valorizzare il pluralismo e di sfruttare in senso liberale le differenziazioni giuridiche e fiscali che esistono tra i 26 cantoni e semi-cantoni di cui essa si compone. La lezione elvetica è quella di una federazione largamente decentrata per poteri e competenze, territorialmente frazionata ed in cui le decisioni sono il più possibile affidate ad unità politiche piccole, che incidono su un numero di persone limitato: taluni cantoni, infatti, non superano le poche decine di migliaia di abitanti... È ugualmente importante rilevare come Berna dimostri che quello federale è un ordinamento che non esige affatto un potere centrale forte; o, quanto meno, non è così all'interno di una prospettiva liberale. Al contrario, uno Stato federale che assegni al governo federale molti poteri e la cui Costituzione, ad esempio, legittimi in modo energico i poteri nazionali, mette costantemente in pericolo le autonomie locali. Come insegna una semplice comparazione tra l'esperienza storica elvetica e quella statunitense, le autonomie federali hanno retto meglio all'affermazione dello statalismo moderno ed all'assalto alle autonomie locali là dove, come in Svizzera, non vi era un governo centrale fortemente legittimato. Le istituzioni federali vengono apprezzate perché offrono ai cittadini un migliore controllo sulle decisioni politiche (costringendo i "decisori" a tenere comportamenti maggiormente corretti), una stretta correlazione tra i contributi versati e i benefici ricavati da una stessa città, una competizione giuridica e fiscale collegata all'opportunità di "votare con i piedi" (trasferendosi in un cantone o in una città meglio amministrati e meno costosi dal punto di vista fiscale). Nelle società in cui massima è l'autonomia politica, inoltre, sono garantite al più alto livello sia la possibilità di innovazione - poiché i costi sono minimi (l'area su cui incide l'esperimento è ristretta ed è facile tornare sui propri passi) - che il rispetto delle tradizioni locali e della volontà dei singoli cittadini, i quali possono esprimere efficacemente la propria opinione e porre un freno ad iniziative politiche non condivise dalla maggior parte della cittadinanza. Quando si prende in esame la questione della concorrenza istituzionale tra cantoni ci si rende nuovamente conto, e in modo particolarmente evidente, del nesso che si è instaurato - tanto a livello teorico come a livello pratico - tra federalismo e liberalismo. Interessante, ad esempio, quanto teorizzato dall'economista statunitense Dwight Lee, per il quale un sistema neofederale dovrebbe affidare per intero l'autorità fiscale ai comuni, fermo restando un patto costituzionale che li vincoli a versare una quota percentuale fissa (ad esempio il 30%) al Governo centrale, un'altra allo Stato o alla Regione, un'altra alla Contea o alla Provincia. In questo modo si otterrebbe due vantaggi. Il primo vantaggio è che si avrebbe la massima concorrenza tra comuni o anche tra consorzi di comuni liberamente collegati, tutti motivati ad offrire servizi di qualità, ma soprattutto a fissare tributi poco onerosi e ad adottare metodi di prelievo semplici (al fine di attirare il maggior numero di clienti-contribuenti: le imprese, in primo luogo). L'altro vantaggio verrebbe dal fatto che questo fisco federale rappresenterebbe un ulteriore disincentivo ad alzare le imposte dato che per ogni 1.000 lire che sono sottratte al cittadino dal Comune soltanto una quota (quella decisa dal patto costituzionale) resterebbe in loco, mentre la restante parte prende la via del capoluogo di provincia, di regione o della capitale. Gli enti locali più assistenzialisti ed interventisti in economia, insomma, sarebbero spinti ad assumere comportamenti maggiormente rispettosi dei contribuenti, dato che la loro azione li porterebbe a versare somme notevoli ai bilanci sovra-comunali (regione, Stato, ecc.). Appare abbastanza chiaro, d'altra parte, che la battaglia dei prossimi anni vedrà i proprietari, ovvero sia gli individui (dato che ogni uomo è, quanto meno, il legittimo proprietario del proprio corpo), rivendicare il titolo di soggetti politici a pieno titolo. Nel loro ribellarsi all'esproprio di libertà e di beni praticato dallo Stato moderno essi mostrano come la contrapposizione territoriale sia, nella sua essenza, una contestazione del collettivismo organicista. È per questo motivo che il federalismo, quale libera alleanza di individui proprietari, viene adottato da quelle rivolte locali che stanno mettendo in ginocchio molte istituzioni moderne: al di qua e al di là dell'Atlantico. La territorializzazione dei conflitti politici si colloca poi in un contesto multiculturale che in parte risulta dal carattere multirazziale della nostra società, ma che - in realtà - ha ragioni molto più profonde. I cittadini del nostro tempo, infatti, sono cattolici, valdesi, ebrei, atei, agnostici, cultori della New Age, musulmani, buddisti, testimoni di Geova, neopagani, dianetici, ecc. E la complessità delle credenze religiose è solo una delle numerose complessità che possiamo individuare. La nazione è sempre più pensata e vissuta in termini soggettivi: dato che è scozzese, ad esempio, chi lo vuole essere e poco importa da dove provenga o dove abiti.... L'eterogeneità delle culture obbliga a pensare, allora, ad istituzioni il più possibile flessibili, aperte, concorrenziali e consensuali. La territorializzazione della lotta politica, insomma, sembra già ora poter mettere in discussione se stessa e pare annunciare la propria crisi. O, meglio, la fine di quell'illusione politica (imperiale) quanto mai nefasta che avrebbe voluto garantire un perenne controllo monopolistico da parte dello Stato moderno sui singoli individui che vivono entro un determinato territorio e sulle realtà (imprese, comunità, associazioni, ecc.) a cui essi danno vita. Non c'è da stupirsi se, in una prima fase, molti protagonisti delle lotte contro le capitali e contro gli Stati nazionali abbiano immaginato la nascita di nuove realtà del tutto analoghe a quelle che combattevano. Ancora oggi per molte persone non è facile comprendere come lo Stato unitario e sovrano stia declinando proprio sotto la pressione congiunta dei localismi e della globalizzazione. Ma il pluralismo delle etnie e delle culture favorisce, in maniera molto naturale, lo svilupparsi del mercato e della sua mutevole complessità. Una società liberale, infatti, non propone assolutamente omologazione e uniformità, ma vive proprio della concorrenza tra ciò che è diverso, capace di rispondere gusti differenti, a opinioni anche discordanti. A dispetto di quanto è affermato dalle culture autoritarie (di vecchia o nuova destra, come di vecchia o nuova sinistra), l'ordine spontaneo che emerge dall'incontro di produttori e consumatori offre spazio ad ogni specificità: nella speranza che vi sia chi l'apprezzerà e opterà per essa. Ed è anche per questa ragione che il neofederalismo contemporaneo è impensabile senza il liberalismo di mercato e ne rappresenta uno dei tratti più caratteristici.
Nel testo sono stati liberamente utilizzati brani e idee tratti dai seguenti scritti: * P. H. Aranson, "La Comunità Economica Europea: lezioni dall'America", Federalismo & Società, anno II, n.4, 1995, pp.89-122. * L. M. Bassani - W. Stewart - A. Vitale, I concetti del federalismo, Milano, Giuffrè, 1995. * L. M. Bassani, "Presentazione" a Idee e forme del federalismo, Milano, Edizioni di Comunità, 1995 (1987), pp.VII-XVII. * C. Lottieri, "L'utopia federale e l'equivoco liberaldemocratico", Federalismo & Società, anno III, n.1, 1996, pp.207-229. * C. Lottieri, "Le illusioni europeiste e la realtà del mercato", Federalismo & Libertà, anno V, n.2, 1998, pp.25-30. * G. Miglio (a cura di), Federalismi falsi e degenerati, Milano, Sperling & Kupfer, 1997. * E. Renan - M. N. Rothbard, Nazione, cos'è, a cura di N. Iannello e C. Lottieri, Treviglio, Leonardo Facco Editore, 1996. |