Progetto Italia Federale

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a cura di Francesco Paolo Forti
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 Ultimo aggiornamento: Agosto 2000
 
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1. Il federalismo in America
2. Il federalismo e le nazionalità
2)
3. Il federalismo e la questione italiana
4. Il federalismo e l'Europa
5. Il federalismo e la crisi della statualità
6. Conclusione

Da alcuni anni la teoria federalista si è imposta prepotentemente sulla scena: in Italia e non soltanto in Italia. Ma l'espressione federalismo è di significato tutt'altro che univoco e rinvia a questioni che devono essere chiarite in via preliminare, se non si vuole fraintendere il senso di talune trasformazioni politiche che stanno profilandosi all'orizzonte delle democrazie occidentali.

"Federalismo" è parola che viene dal latino foedus, che significa patto. Una federazione, allora, è un'istituzione che vive in virtù di un contratto che tiene più o meno stabilmente assieme alcuni Stati dotati di una larga autonomia. Di tipo federale, in senso lato, erano le relazioni che collegavano tra loro le tribù di Israele, ma analogo discorso può essere fatto per le poleis greche, per le comunità degli Etruschi e per quelle dei Celti. Vi sono, quindi, due elementi: da un lato la separatezza dei soggetti che decidono, autonomamente, di partecipare alla federazione; dall'altro la nuova relazione istituzionale che questi soggetti sovrani instaurano nel momento stesso in cui si alleano.

Non deve stupire, allora, che vi siano orientamenti del pensiero federalista che insistono maggiormente sul primo elemento (l'autonomia delle entità politiche locali) o sul secondo (l'unione che le entità politiche realizzano nel momento in cui si federano). Non vi è però alcun dubbio che il ritorno del tema federalista nella politica e nella riflessione culturale del nostro tempo è più nel senso della lotta anticentralista che non in quello dell'unionismo, è più sulla linea di Jefferson che non su quella di Hamilton (tanto per richiamare due personalità molto rappresentative della storia politica e costituzionale statunitense). In Italia, in particolare, la teoria federale si è imposta all'attenzione generale quale strumento utile a contrastare l'inefficienza e il carattere illiberale del sistema politico centralizzato.

A tale riguardo è importante evidenziare come il neofederalismo - tanto in Italia come negli Stati Uniti (come pure nei dibattiti intellettuali delle altre democrazie liberali) - si presenta quale componente fondamentale di orientamenti volti a liberare la società civile dal dominio dei politici, dei partiti, delle burocrazie. Non cogliere questo aspetto significa porsi nella condizione di non poter capire alcuni aspetti originali delle trasformazioni profonde che la politica contemporanea sta conoscendo.

Quello a cui si assiste è la convergenza del federalismo localista (o jeffersoniano) e del liberalismo, intendendo qui per liberalismo anche quell'insieme di teorie che in un modo o nell'altro si rifanno alla tradizione di Locke e di Smith. Il federalismo contemporaneo tende insomma ad essere favorevole al mercato e contrario alla redistribuzione autoritaria delle risorse, mentre il liberalismo (se vuole essere consequenziale) è costretto ad assumere, sul piano istituzionale, la logica che è propria del federalismo autonomista. Federalismo e libertà, insomma, finiscono per dare vita ad un binomio indissolubile.

Tanto per il neofederalismo come per il liberalismo, d'altra parte, la vera origine della sovranità è da riconoscere nell'individuo: la persona umana, in altri termini, gode di diritti naturali inviolabili e nessun potere può lederli o annullarli. In questo senso, il pensiero federalista moderno e contemporaneo si ricollega a quanto vi è di meglio nella grande tradizione filosofica anti-assolutista: da Althusius a Locke. Coerentemente con tutto ciò, per i federalisti autentici è necessario affermare una nuova concezione della città e dello Stato, dove la prima è una federazione di uomini liberi ed una comunità costituita su base volontaria, mentre lo Stato è da pensare come federazione di città, ovvero quale federazione di federazioni.

Certamente sarebbe fondata l'obiezione di chi sottolineasse che nella storia non vi è mai stato un solo ordinamento politico che abbia rispettato sino in fondo tali requisiti, ma la politica ha proprio il compito di indicare una meta ideale degna di essere perseguita. Alla base di ogni evoluzione in senso liberale e neofederalista, insomma, deve esserci la progressiva maturazione di una concezione che rifugga ogni autoritarismo, anche "moderato" o "democratico", e affermi l'esigenza di avviare una più o meno rapida liberalizzazione della società.

Nel nostro tempo, lo Stato concepisce se stesso - ed è per questo che è in grave difficoltà - quale realtà giuridica dotata di poteri che prescindono dalla libera adesione degli individui e trovano la propria legittimità in un'obbligazione politica che trascende le opzioni dei singoli e la loro effettiva intenzione di condividere le "regole del gioco". Lo Stato, in questo senso, si appella sempre - in modo più o meno esplicito - al principio gerarchico, e non certo a concezioni pattizie o contrattuali.

Per di più esso mira a comprimere o addirittura a cancellare ogni possibilità di concorrenza istituzionale tra i cantoni e tra i comuni. Mentre nella società federale i governi locali competono tra loro nell'offrire servizi sempre migliori a prezzi sempre più bassi, lo Stato moderno e centralista tende ad uniformare e burocratizzare tutto, soffocando ogni vocazione innovativa e ostacolando ogni attitudine imprenditoriale. Per questo motivo ogni società dinamica e desiderosa di avere maggiori spazi di iniziativa è destinata ad entrare in conflitto con uno Stato invadente, oppressivo e intimamente autoritario.


1. Il federalismo in America

Per cogliere il senso e le ragioni del pensiero federale (oltre che delle sue concrete realizzazioni istituzionali) è comunque indispensabile muovere dalla prima importante esperienza storica ed è quindi necessario avere presente quanto avvenne in America all'indomani della vittoriosa lotta per l'indipendenza che era stata intrapresa dalle tredici colonie guidate da George Washington.

La lotta condotta dai coloni, che riuscirono a liberarsi dal dominio britannico, favorì, prima, la realizzazione di un accordo confederale (gli Articles of Confederation) e, in un secondo momento, di uno Stato federale i cui obiettivi furono definiti con queste parole da Alexander Hamilton, uno tra i più accesi sostenitori della soluzione unitaria: "Gli scopi principali che un'Unione è chiamata ad assolvere sono i seguenti: la comune difesa dei suoi membri, il mantenimento della pace pubblica, sia nei riguardi di attacchi esterni, sia nei riguardi di possibile rivolte interne, la regolamentazione del commercio con gli altri paesi ed anche tra Stato e Stato, il controllo generale di tutte le nostre relazioni politiche e commerciali con paesi stranieri".

Ma questa soluzione emergerà, come abbiamo detto, in un secondo momento. Dal 1781 al 1787, infatti, gli americani vivono all'interno di istituzioni molto più elastiche e in assenza di un forte potere centrale.

Gli Articoli di Confederazione, in effetti, rappresentavano una serie di accordi volti ad evitare tensioni commerciali, soluzioni autarchiche (interstate commerce) e leggi statali che minassero la libertà di movimento delle persone, dei beni e dei servizi. In particolare, l'articolo 4 stabiliva che "i liberi cittadini di ognuno di questi stati ... avranno diritto a tutti i privilegi e le immunità dei liberi cittadini degli altri stati...". Inoltre, "la popolazione di ogni stato avrà libertà di ingresso e di uscita per ogni altro stato, e godrà dunque di tutti i privilegi di scambio e di commercio, soggetta agli stessi doveri, imposizioni e restrizioni degli abitanti dei rispettivi stati...". Ma anche tali restrizioni furono limitate dalla disposizione "che queste restrizioni non dovranno ... ostacolare il trasferimento della proprietà e l'importazione verso ogni altro stato di cui il proprietario sia cittadino...".

Non veniva neppure lasciata facoltà ai singoli stati, "senza il consenso degli Stati Uniti ... di spedire alcuna ambasciata, o ricevere alcuna ambasciata, o entrare in conferenze, accordi, alleanze o trattati con re, principi o stati...". Anche i patti "tra due o più stati" esigevano un'approvazione del Congresso. Gli sforzi degli stati per radunare forze armate "in tempo di pace" o per fare guerra, fatta eccezione per le emergenze, erano limitati ugualmente da una richiesta di approvazione da parte del Congresso.

L'art.9 degli Articoli di Confederazione enumerava i poteri del Congresso, come fa oggi il primo articolo della Costituzione Federale americana. Il Congresso poteva fare trattati, dichiarare la guerra, stabilire la pace ed orientare le relazioni internazionali, ma non poteva trattenere gli stati "dall'imporre agli stranieri dazi o tasse del tipo a cui sono soggetti i propri cittadini, né proibire l'esportazione o l'importazione di ogni specie di bene o qualsiasi altra merce". Il Congresso era anche "l'ultima risorsa a cui fare appello in tutte le dispute e le contrapposizioni ... che ... possano insorgere tra due o più stati a proposito di confini, giurisdizioni o qualsivoglia altra causa...".

L'art.9 assegnava al Congresso pure "l'unico ed esclusivo diritto e potere di fissare la lega ed il valore della moneta battuta, sulla base della propria autorità o di quella dei rispettivi stati (escludendo la cartamoneta)". Similmente, il Congresso aveva il potere di "fissare lo standard dei pesi e delle misure negli Stati Uniti; regolare il commercio e gestire tutti gli affari con gli Indiani non membri di alcuno tra gli stati; garantito ad ogni Stato - all'interno dei propri confini - il diritto legislativo di non essere calpestato o violato ...", il Congresso godeva anche del diritto di "stabilire e regolare gli uffici postali da uno Stato all'altro attraverso gli Stati Uniti ...; nominare tutti gli ufficiali delle forze di terra in servizio degli Stati Uniti, eccetto gli ufficiali di reggimento; nominare tutti gli ufficiali delle forze navali ed incaricare tutti gli ufficiali di altro tipo al servizio degli Stati Uniti; fissare le regole per il governo e la regolamentazione delle forze dette di mare e di terra, e per la direzione delle loro operazioni".

Tutti questi importanti poteri del Congresso rimasero quasi immutati nella Costituzione Federale del 1789. Ma secondo gli Articoli di Confederazione l'esercizio di ogni potere richiedeva l'assenso di nove dei tredici stati, sebbene le questioni di procedura legislativa di contenuto più prosaico richiedessero soltanto un voto di maggioranza. Gli Articoli, inoltre, non stabilivano un esecutivo o una magistratura nazionali. Gli Articoli si rivelano, quindi, più come un tentativo di limitare la crescita del potere del governo nazionale e meno come la volontà di modellare un'unione politica.

Gli Articoli di Confederazione, in altre parole, si preoccupavano soltanto di garantire una rete per il più ampio commercio ed un patto di difesa coordinata tra le colonie originarie. I suoi trasferimenti di poteri locali al Congresso, incluse le clausole per la creazione di uffici postali, pesi e misure standardizzate, conii, ecc., riflettono le preoccupazioni commerciali di ridurre i costi di transazione tra stati. I suoi trasferimenti di poteri nazionali, sebbene limitati, nondimeno affrontavano il problema di un coordinamento delle politiche estere e militari tra i vari stati.

Anche se sono stati spesso criticati e anche se in molte occasioni viene detto che il loro superamento fu una scelta obbligata, gli Articles of Confederation operarono molto bene e garantirono anni di pace e sviluppo alla popolazione delle tredici ex-colonie. ""In realtà"", disse un cittadino della South Carolina, "sebbene non ci sia mai stato un periodo in cui si sia tanto parlato di disastri e calamità, non credo che neppure ci sia mai stata un'epoca nella quale essi furono così poco sperimentati dalla gente... Se siamo rovinati, siamo la nazione più splendidamente rovinata dell'universo"".

Sotto la costante pressione del partito dei federalisti, però, il 21 febbraio 1787 il Congresso convocò una convenzione con l'unico ed esplicito proposito di rivedere gli Articoli di Confederazione e riferire al Congresso ed alle varie assemblee legislative quelle modifiche e quelle clausole necessarie per rendere la Costituzione Federale (quando saranno accettate dal Congresso e confermate dagli stati) adeguata alle esigenze di governo e al mantenimento dell'Unione. Ma come ha sottolineato Peter Aranson, "quello che la Convenzione in realtà fece, comunque, consistette nell'eccedere rispetto al proprio mandato, al punto da alterare radicalmente la natura del governo e da allinearlo alla visione dei federalisti".

La nascita della federazione fu allora il frutto di una dura lotta tra gli unitaristi del Federalist - oltre a Hamilton, John Jay e James Madison - e quegli autori detti antifederalisti che si schierarono a difesa dei diritti degli Stati e per una soluzione volta a contenere il più possibile il potere della Capitale. Facevano parte di questo gruppo, tra gli altri, alcuni uomini di grande valore e prestigio: da Patrick Henry a George Mason, da Richard Henry Lee a Samuel Adams. Lo stesso Thomas Jefferson, quando rientrò in America dall'Europa, finì per collocarsi sulle posizioni di questo gruppo e in un certo senso ne assunse la guida.

In questo senso, va sottolineato come lo storico Thomas J. Fleming abbia ricordato come Jefferson definisse il proprio federalismo quale "system of yards" (un'organizzazione di rioni) ed avesse in mente "un progetto di governo che dava la possibilità ai singoli quartieri di regolare le proprie questioni. Poi la città avrebbe controllato i rapporti tra i quartieri, la contea quelli tra le città, lo Stato quelli tra le contee e, infine, il governo nazionale quelli tra gli Stati". Entro tale prospettiva, il federalismo non era visto soltanto e soprattutto come un modo per unire, ma soprattutto per tenere distinti e preservare liberi, anche a tutela dell'autonomia di quegli ambiti familiari, comunitari e locali che le istituzioni politiche moderne (volte a non concepire nulla tra lo Stato e il singolo cittadino) hanno ripetutamente ignorato e calpestato.

Sotto vari punti di vista la Costituzione di Filadelfia nacque proprio dall'incontro tra i principi dell'unità (che stavano a cuore ai federalisti) e quelli del pluralismo (particolarmente difesi dagli antifederalisti). Al di là delle stesse controversie dottrinali e dei conflitti tra federalisti e antifederalisti, la scommessa americana si basava comunque sul tentativo di far coesistere un governo centrale e numerosi governi locali, liberi e indipendenti, assicurando una piena sicurezza e la massima libertà d'autogovernarsi.

Quelle che emerse a Filadelfia fu un compromesso che scontentò più gli unitaristi che non i difensori dei diritti degli stati: tanto che Hamilton abbandonò la Convenzione prima della conclusione dei lavori. Ma a medio e a lungo termine, in realtà, la lettura della Costituzione che prevalse e s'impose era certo più vicina alle tesi hamiltoniane che non a quelle di Jefferson.

A riprova di questo vi è il fatto che è ormai un luogo comune ritenere che all'origine del federalismo americano vi sia il Federalist ben più che Jefferson e la Dichiarazione d'Indipendenza. Il successo militare di Abraham Lincoln sulla confederazione degli stati del Sud (ottenuto nel 1865), d'altra parte, ha imposto una lettura sempre più unitarista della patto federale, confermata da un processo di centralizzazione che - in diverso modo e con diverse velocità - negli ultimi due secoli ha visto progressivamente crescere il potere di Washington, mentre declinava la capacità degli stati di autogovernarsi.

Eppure, a dispetto di tutto ciò, la federazione ha sempre rappresentato (e continua a rappresentare tuttora) un ottimo esempio di organizzazione politica pluralizzata: rispettosa delle realtà locali e in grado di resistere dinanzi alle pretese del potere centrale. Agli occhi di un osservatore ammirato quale fu Alexis de Tocqueville, l'America aveva il merito di saper coniugare le poche ragioni comuni dei membri della federazione con i molti ed importantissimi interessi che accomunavano i membri dello stesso stato e, ancora più, della stessa piccola comunità. Limitato il potere centrale, era così possibile veder crescere un'autentica solidarietà tra vicini e, al tempo stesso, una vera libertà d'azione: "Lo spirito pubblico dell'Unione è in certo modo il riassunto del patriottismo provinciale. Ogni cittadino degli Stati Uniti porta, per così dire, l'interesse ispiratogli dalla sua piccola repubblica nell'amore della patria comune. Difendendo l'Unione, egli difende la prosperità crescente del suo cantone, il diritto di dirigerne gli affari, e la speranza di farvi prevalere piani di miglioramento che arricchiscano anche lui; tutte cose che, ordinariamente, toccano gli uomini più che gli interessi generali del paese e la gloria della nazione".

La resistenza condotta da Jefferson e dagli antifederalisti, fieri avversari del progetto centralizzatore di Hamilton e degli altri politici unitaristi, non era insomma stata inutile. Sebbene degeneratesi nel corso degli anni e sebbene siano state fortemente minate dalla soluzione costituzionale ambigua che uscì dalla Convenzione di Filadelfia, le libertà americane hanno continuato a rappresentare un'alternativa forte alle logiche centraliste e sempre più nazionaliste che - nel corso del XIX e del XX secolo - si sono imposte in Europa e che hanno aperto la strada ad ogni sorta di collettivismo e totalitarismo.



2. Il federalismo e le nazionalità

Durante l'Ottocento anche l'Europa, in realtà, conosce importanti dibattiti sul federalismo e molti autori tra i più significativi (oltre al già citato Tocqueville, basta ricordare Pierre-Joseph Proudhon) si sono apertamente espressi a favore di istituzioni pattizie e contrattuali, rispettose del diritto dei popoli ad autogovernarsi. Nel Vecchio Continente, però, i movimenti federalisti vanno incontro soltanto ad insuccessi.

La ragione principale di tutto ciò va probabilmente ricercata nell'affermazione, durante tutto il XIX secolo, di teorie nazionalistiche e - più in generale - di una concezione organicistica della società. L'obiettivo perseguito dai movimenti irredentistici, infatti, è l'unificazione di piccole realtà tradizionalmente autonome (ed è questo il caso, sotto molti aspetti, degli staterelli di cui si compongono l'Italia e la Germania) o l'uscita da istituzioni politiche più ampie e sovranazionali (come nel caso della Grecia dominata dall'Impero turco e dell'Ungheria governata dagli Asburgo).

Ecco per quale motivo, in un'Europa dominata da ogni sorta di nazionalismi, la teoria federale faticò a trovare accoglienza e fu quasi sempre rigettato. Soltanto nella federazione svizzera, le cui più origini risalivano al tredicesimo secolo, l'esperienza costituzionale americana servì da modello e da paradigma nel momento in cui il conflitto tra i cantoni cattolici e quelli protestanti impose una ridefinizione dei rapporti istituzionali.

Nel resto d'Europa, ad ogni modo, durante l'epoca romantica vengono messe in incubazione teorie politiche apertamente aggressive, da cui scaturiranno guerre spaventose. Ma è ugualmente molto difficile non vedere il nesso che collega la nazionalizzazione delle masse al trionfo del romanticismo politico: prima comunista e poi nazista. Il XIX secolo è stato il secolo delle guerre per l'unità e del trionfo del principio a partire dal quale ogni popolo, globalmente inteso, deve essere governato da uno Stato distinto: anche se per popolo non viene qui intesa una comunità di persone che decidono liberamente di vivere insieme, ma un'entità definita dall'esterno sulla base di (arbitrari) criteri di ordine linguistico, storico, etnico, ecc. Il tutto in ossequio ad una cultura sempre più indifferente alle ragioni e ai diritti dei singoli, dei gruppi e delle comunità.

Per le classi politiche ed intellettuali nazionaliste che dominano la scena, i popoli chiedono insomma di essere indipendenti e uniti, sulla base di una concezione etnico-linguistica della nazione che spesso è accompagnata da una visione etica dello Stato.

Esaminando il dibattito politico della prima metà dell'Ottocento dobbiamo infatti rilevare che esso fu segnato da due temi fondamentali: la richiesta di Costituzioni (volte a limitare il potere dei governi) e la battaglia per l'unificazione nazionale. Ma se i primi moti liberali miravano essenzialmente ad ottenere quelle modifiche istituzionali che meglio avrebbero potuto tutelare i diritti della persona, con l'affermarsi della questione nazionale i temi più propriamente liberali hanno lasciato il posto a spinte rivoluzionarie che hanno messo al centro una visione etnico-linguistica della nazione e hanno aperto la strada ad un'interpretazione organicista e statalista della società.

Chi voglia oggi riflettere sulla situazione presente e sulle origini storiche dei problemi che dobbiamo affrontare non può non fare i conti con il declino del costituzionalismo liberale di primo Ottocento e con il fallimento dei progetti federalisti.

Nella cultura filosofica dell'idealismo tedesco, d'altra parte, la libertà veniva intesa in termini del tutto astratti e la nazione era pensata secondo criteri che prescindevano del tutto dalle volontà dei singoli, dalle loro opinioni, dalle loro aspirazioni. In Fichte e in Hegel, per giunta, la parola Freiheit ha un significato del tutto diverso da quello che i termini freedom e liberty assumono nei pensatori della tradizione politica inglese, scozzese o americana. Essa non rinvia affatto alla scelta personale e all'opzione del singolo di fronte a due o più possibilità, ma ad una condizione metafisica di superamento di quella stessa finitudine che è propria dell'individuo mortale. Ad un concetto propriamente politico, quello di libertà, viene attribuito un valore che va ben al di là del suo senso tradizionale e che preannuncia il trionfo di quelle ideologie politiche (basta pensare al marxismo) che per lungo tempo hanno promesso agli uomini la cancellazione di tutte le loro infermità.

Non si può trascurare, a questo proposito, che la nascita della filosofia romantica avviene entro uno scenario ben preciso: nel momento in cui dal giacobinismo rivoluzionario (strano intreccio di temi caratteristici del nazionalismo francese e dell'universalismo razionalista) emerge la figura di Napoleone Bonaparte, protagonista di una vera e propria guerra all'Europa. Dopo essere stati in vario modo affascinati dal generale corso e dopo aver subito amare disillusioni, gli intellettuali tedeschi elaboreranno - per la prima volta - quell'idea di Volksgeist che in breve tempo spazzerà via quasi ogni traccia della tradizione illuminista e liberale tedesca, facendo venir meno ogni attenzione ai diritti e alle libertà del singolo.

Con Johannes Gottfried Herder, ad esempio, la cultura romantica tedesca elabora una nuova concezione - totalmente storicistica - del linguaggio. Se per Kant esistevano ancora categorie universali che stavano all'origine della lingua e della possibilità per gli uomini di comunicare e di intendersi, per Herder "chi conosce anche soltanto un paio di lingue non potrà credere che sussista un legame sostanziale tra il linguaggio e il pensiero e tra il linguaggio e le cose". Questa rinuncia all'eredità kantiana e all'idea illuministica di ragione implica già una nazionalizzazione della lingua e della cultura, e in questo modo apre la strada alla collettivizzazione dell'intera società e alla calpestazione dei diritti dei singoli.

Nel mondo culturale e politico tedesco dell'Ottocento, diviso in tante piccole realtà, il pluralismo istituzionale proprio dei regimi politici federali e liberali verrà allora avvertito quale debolezza e arretratezza, quale origine di innumerevoli frustrazioni. E questo favorirà quella rapida trasformazione, a cui si è già fatto cenno, del concetto di libertà: riferito sempre meno agli individui e sempre più alle nazioni storiche. Da un lato, così, viene proclamata l'esistenza di collettività unite sulla base di argomenti storici, linguistici, etnici, ecc.; e dall'altro lato si attribuisce solo a tali realtà la facoltà di autodeterminarsi e di decidere del proprio futuro.

L'epoca risorgimentale, tanto ricca di richiami retorici al tema dell'indipendenza e tanto povera di pratiche liberali, appare quindi quale risultato di un equivoco incontro tra questa idea di nazione e questa idea (più collettiva che individuale) di libertà. In tale quadro culturale e politico è del tutto chiaro che non vi può essere alcuno spazio per le soluzioni federali e per il maturare di una sincera attenzione al diritto delle comunità ad autogovernarsi.

Una ben precisa testimonianza dell'attitudine illiberale dello spirito risorgimentale può essere rinvenuta in Giuseppe Mazzini, un uomo del tutto incapace di comprendere - ad esempio - il valore delle istituzioni federali svizzere e che di fronte a quella che egli giudicava la ristrettezza di spirito delle libere comunità elvetiche giunse perfino ad auspicare una guerra nazionale. Cercando una soluzione per quella società che gli appariva priva di ideali, in quanto refrattaria al romanticismo nazionalista, egli auspicò un vero e proprio conflitto tra le diverse entità federate: "La fusione si realizza presto nel cuore delle battaglie. Le grandi crisi fanno grandi nazioni. La fraternità germoglia sotto il fuoco del fucile e il battesimo della vittoria, come quello del martirio, hanno il potere di cancellare le meschine vanità locali, come pure i piccoli interessi individuali". Come ha scritto Luc Monnier, d'altra parte, Mazzini era un "partigiano intransigente dell'unità e della centralizzazione" ed un "detrattore non meno appassionato del federalismo", che ai suoi occhi era "sinonimo non solo di debolezza, d'impotenza e d'anarchia, ma anche d'aristocraticismo, d'individualismo e d'egoismo".

Non si può certo ignorare, inoltre, come l'adozione della teoria nazionalista da parte dello Stato moderno (e perfino da parte di dinastie cosmopolite...) sia anche da interpretare come l'ennesima astuzia di classi politiche molto abili nell'utilizzare a proprio vantaggio, e secondo i rigidi schemi della Realpolitik, sentimenti identitari i quali furono poi ulteriormente radicati nella coscienza popolare da potenti strumenti di persuasione: istruzione pubblica, mezzi di comunicazione di Stato, ecc. Se diamo uno sguardo alla storia della penisola italiana del XVIII e XIX secolo, ad esempio, non possiamo non rilevare come lo Stato piemontese, prima, e quello italiano, in seguito, abbiano sottratto alla Chiesa cattolica alcuni tra i principali strumenti di socializzazione, sapendo poi fare leva in modo efficace su quell'aspirazione al conformismo e all'unità che gioca un ruolo importante in ogni animo umano. Ma chi osserva la storia della Prussia e della sua conquista dell'unità tedesca (un'unità territoriale e non solo: basti pensare al Kulturkampf...) ritrova dinamiche molto simili, proprie di tutti i gruppi di potere volti ad allargare la propria sfera di dominio.

Il tentativo di coniugare lo spirito nazionalista con la tradizione liberale classica, antistatalista e anticentralista, era così destinato a fallire. Sul piano intellettuale, infatti, la pretesa di tenere in equilibrio le ragioni della libertà e quelle della nazione (intesa quest'ultima secondo rigidi schemi collettivisti) venne meno del tutto nel momento in cui la Germania, a conclusione del conflitto del 1870, si annesse l'Alsazia e la Lorena: terre di lingua e cultura tedesche che alla fine del secolo precedente erano state perfino le vittime dell'intolleranza repubblicana e omologante dei giacobini, ma che in quel momento - per molte e differenti ragioni - aspiravano a rimanere (o a tornare ad essere) francesi.

Nel noto giuramento di Bordeaux, i rappresentanti alsaziani e lorenesi si ribellarono con veemenza all'occupazione tedesca e alla sua ratifica da parte dell'Assemblea nazionale francese, pretendendo che venisse riconosciuto alle popolazioni il diritto a decidere in merito al proprio futuro: "Nous déclarons encore une fois nul et non avenu le pacte qui dispose de nous sans notre consentement". E nel commentare questa difesa del carattere volontario e contrattuale della nazione (correttamente intesa) Alain Finkielkraut afferma: "Questo irredentismo, in una regione che nella notte di Natale canta spontaneamente O Tannebaum!, fornisce la prova evidente che l'idioma, la costituzione ereditaria o la tradizione non esercitano sugli individui quel dominio assoluto che le scienze umane tendono a conferire loro".

L'importante conferenza tenuta alla Sorbona nel 1882 da Ernest Renan, al pari degli scritti di Numa-Denys Fustel de Coulanges, proviene da questa amara esperienza storica e matura proprio all'indomani dell'occupazione tedesca dell'Alsazia-Lorena. Non bisogna sorprendersi, allora, se per coloro che ancora difendono la concezione ottocentesca dello stato e della nazione le pagine di Renan continuano a presentare temi pericolosi. L'idea che una nazione non possa essere definita una volta per sempre e sulla base di criteri oggettivi (storia, lingua, etnia, ecc.), infatti, mette costantemente in discussione gli assetti istituzionali, poiché il diritto a decidere del proprio futuro - quando viene reclamato da una parte della comunità politica - apre la strada ad una piena legittimazione del diritto di associarsi con chi si vuole e se lo si vuole.

A tale proposito è significativo che Gian Enrico Rusconi ritenga che la celebre espressione di Renan secondo cui la nazione è "un plebiscito di tutti i giorni" (spesso "citata a sostegno della natura essenzialmente politica ed elettiva della nazione in contrapposizione ad una concezione etnicistica e naturalista") non debba essere sottratta al suo contesto. Rusconi afferma, infatti, che tale affermazione "si trova al culmine di una appassionata perorazione della nazione come somma di glorie, emozioni, ricordi, amnesie collettive, come comunanza di destini". Ed aggiunge: "Questo non significa, beninteso, affidarsi acriticamente alla nazione storica come destino, ignorando gli errori e i costi umani terribili richiesti e dati per la sua costruzione. Ma per risarcire quei costi, per instaurare un nuovo solidarismo non basta contrapporre il principio universalistico della cittadinanza democratica a quello storico della appartenenza ad una nazione".

Il fatto è che Renan, di fronte all'alternativa tra nazionalismo e liberalismo, sceglie il secondo; e in questo modo egli pone le premesse per una reinterpretazione non coercitiva del concetto di nazione. Egli sa bene come gli elementi identitari siano importanti per definire una comunanza nazionale e non ignora che la nazione è "una grande solidarietà", la quale "presuppone un passato". Subito aggiunge, però, che essa "si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme".

A Renan sembra del tutto evidente che ogni libera e volontaria adesione ad un'identità e/o ad un'istituzione si giustifichi, storicamente, sulla base di affinità, di legami e di altre relazioni oggettivamente rilevabili a partire dalle tradizioni, dalla cultura, dalla religione e da altri fatti, ma ugualmente gli appare chiaro che questi ultimi non possono essere più o meno arbitrariamente usati per calpestare la libertà di chi intende costruire il futuro seguendo le proprie inclinazioni e le proprie aspirazioni. In altre parole: è ragionevole pensare che persone accomunate dalla storia vogliano vivere assieme, e che lo decidano se sono in condizione di farlo. Ma devono essere esse stesse a stabilirlo, senza che qualcuno pretenda di sostitursi alla loro autonoma scelta sulla base di presunti appelli alla storia o ad altro.

Lo storico francese, insomma, opta per gli individui: per la loro mutevole volontà e per il pluralismo che essa comporta. Ben consapevole che tale approccio liberale è destinato a minare le fondamenta dello Stato moderno, in quanto Stato nazionale centralizzato, e ad aprire un'epoca di rivendicazioni e lotte per l'indipendenza. Dinanzi ai teorici dell'etno-linguismo tedesco, di fronte a storici come Mommsen e Strauss (i quali pretendevano di anteporre il parere di taluni studiosi tedeschi alle concrete opinioni degli abitanti di Metz e di Strasbourg), Renan si appella alle decisioni dei singoli e al fatto che le istituzioni politiche non possono trascendere le loro opinioni.

Egli chiarisce: "Abbiamo scacciato dalla politica le astrazioni metafisiche e teologiche. Cosa restano, dopo? Restano l'uomo, i suoi desideri, i suoi bisogni". Vi è, in queste parole, una grande onestà intellettuale, dal momento che Renan ha qui la forza di prendere atto che una società la quale abbia rinunciato a credere nell'origine divina del potere regale (tanto da ghigliottinare il proprio monarca) non può certo aderire a quella sorta di nuova religione civile propagandata dal patriottismo nazionalista. La fine della teologia politica tradizionale porta con sé anche l'eclisse di ogni altra sacralizzazione della politica, la quale diventa il luogo d'incontro di uomini liberi e padroni del proprio destino.

Renan riparte da qui, convinto che questa nuova situazione - che ha liberato la politica dalle astrazioni metafisiche - comporti una disgregazione delle istituzioni pubbliche: "La secessione, mi direte, e, alla lunga, la frammentazione delle nazioni sono la conseguenza di un sistema che mette questi vecchi organismi alla mercé di volontà spesso poco illuminate". Per poi aggiungere: "È chiaro che in una materia come questa nessun principio deve essere spinto all'eccesso. Le verità di questo genere sono applicabili solo nel loro insieme e in modo molto generale. Le volontà umane cambiano; ma cosa c'è che non cambia quaggiù? Le nazioni non sono qualcosa di eterno. Esse hanno avuto un inizio, avranno una fine".



Segue .......

3. Il federalismo e la questione italiana

4. Il federalismo e l'Europa

5. Il federalismo e la crisi della statualità

6. Conclusione



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