Terzo Rapporto sulle politiche della cronicità

 
CAP. 1° : UN ANNO DI FEDERALISMO PRESUNTO
CAP. 2° : LA SITUAZIONE

Il Rapporto è stato redatto da Stefano A. Inglese, con la collaborazione di L. Bartorelli,, F. Diomede, I. Donatio, G. Farinelli, M.A. Franchi, A. Ketmaier, M.C. Luchetti, N. Melchioni, C. Scattolon, F. Tempesta, M. Zammataro.
 


CAP. 1°

UN ANNO DI FEDERALISMO PRESUNTO


 


Questo nuovo Rapporto1 sulle politiche della cronicità, il terzo, viene pubblicato nel bel mezzo di una delle transizioni di maggior rilievo attraversate dal nostro servizio sanitario nel corso degli ultimi decenni.

La stagione attuale è cominciata nel mese di agosto dello scorso anno, con la firma del patto di stabilità tra Stato e Regioni. Quel patto, e i decreti che ne sono derivati, a cominciare dal cosiddetto decreto taglia-spesa del novembre 2001, sono il frutto di un vero e proprio scambio. Il Governo concedeva maggiori poteri decisionali alle Regioni in cambio della assicurazione, da parte di queste, che si sarebbero messi in ordine i conti.

Le Regioni, almeno in una prima fase, hanno dimostrato di gradire un accordo di questo genere, concentrando la loro attenzione sui vantaggi legati alla gestione diretta delle risorse finanziarie. Ma ben presto si sono rese conto della difficoltà materiale di tenere in ordine i conti con le risorse limitate messe a loro disposizione. Ciò si deve, indubbiamente, anche a inadeguatezze strutturali di carattere gestionale, alle quali possono essere ricondotte, in larga misura, anche le differenze nei risultati ottenuti. Il che avrebbe reso necessaria una interpretazione assai diversa del momento attuale, con un attenzione, nella fase di transizione, agli investimenti più che ai tagli. Ma sappiamo tutti che non è andata così e che la congiuntura attuale non orienta certamente il sistema in quella direzione.

Fanno parte di quel patto, tra l’altro, una serie di misure che sono state tradotte ben presto in atti di governo concreti:

• la fissazione di un tetto per la spesa farmaceutica al 13% della spesa sanitaria;

• il taglio e la riduzione del 50% delle multiprescrizioni per i malati cronici;

• la reintroduzione della classe B, con ticket regionali dal 20 al 50%;

• la possibilità per le singole regioni di spostare farmaci dalla classe A, totalmente gratuita, alla C, totalmente a carico dei cittadini, utilizzando due elenchi appositamente predisposti dalla Commissione Unica del Farmaco;

• il rinvio di un anno delle riduzioni previste dalla finanziaria del 2000 per i ticket sulla diagnostica (riduzioni successivamente cancellate dalla finanziaria attualmente all’esame del Parlamento);

• la possibilità per le regioni di imporre addizionali Irpef e ticket;

• l’indicazione di 4 posti letto per acuti ogni 1.000 abitanti e 1 posto letto per lungodegenti e di riabilitazione ogni 1.000 abitanti come standard da rispettare in ambito regionale.

L’anno che ci lasciamo alle spalle è stato caratterizzato, in gran parte, da una serie continua di manovre sulla farmaceutica, che hanno puntato dapprima sulla fissazione di tetti di spesa e delisting, poi su sconti sui prezzi di listino imposti alle aziende farmaceutiche, reiterati anche all’interno della legge di bilancio attualmente in discussione alla Camera, infine sulla ristrutturazione del prontuario farmaceutico.

In queste manovre c’è anche la descrizione, per sommi capi, della filosofia che ha guidato il Governo in questo primo anno di federalismo presunto. All’inizio si è avuta la sensazione che si preferisse prendere atto delle modifiche della Costituzione e, in qualche modo, accelerarne talune implicazioni pratiche, provando ad utilizzare la ridefinizione in senso federalista della architettura dello Stato per risolvere le questioni di sostenibilità economica del welfare, a partire dalla sanità che è, come è noto, tanta parte della spesa pubblica al livello regionale.

Ma il presunto respiro federalista dei primi mesi di governo ha avuto vita breve e ha lasciato, ben presto, il posto ad iniziative che hanno il sapore di un ritorno al passato. In questo il paese sconta da una parte una evidente mancanza di maturazione del dibattito sull’assetto federalista, che procede a scatti e senza manifestare alcun segno di continuità, convinzione e coerenza logica, dall’altra la presenza di interessi che finiscono per convergere, pur muovendo da motivazioni e punti di partenza assai diversi e lontani tra loro. Per esempio gli interessi di quelle regioni che caratterizzandosi per bilanci piuttosto dissestati e, comunque, difficilmente in grado di produrre risultati virtuosi come quelli che sono richiesti in questo momento per far quadrare i bilanci della sanità, preferiscono che talune decisioni e scelte siano compiute dal livello di governo centrale, ciò che consente loro di scaricarne gli eventuali oneri in termini di impopolarità.

Al di là delle dichiarazioni di principio in favore di forme di devoluzione più o meno spinta, compreso il progetto di legge prossimamente all’esame delle Camere, è difficile resistere alla tentazione di concludere che, in questo momento, l’attenzione nei confronti dell’approccio federalista da parte del livello di governo centrale sia, in ambito sanitario, piuttosto in disarmo. La finanziaria in discussione è un esempio concreto di ciò, con una serie di interventi di chiara impostazione centralista, a cominciare da quelli che limitano la possibilità di regioni ed enti locali di prevedere addizionali per il prossimo anno.

Dunque, in assenza di una strategia di implementazione delle modifiche della Costituzione in senso federalista si procede a strappi o, se si preferisce, con la politica dell’elastico, oscillando tra i due estremi, sia pure in maniera sempre assai poco dichiarata e esplicita. Ad un estremo ci sono le interpretazioni più radicali di autonomia di stampo federalista, all’altro il ritorno a logiche centraliste. Una via di mezzo basata sulla implementazione graduale del federalismo, prevedendo leggi e strumenti federali che garantiscano continuità ed unitarietà alla tutela dei diritti, tanto in ambito sanitario che sociale, ancorché assai più complessa da mettere in cantiere e gestire, appare al momento piuttosto irrealistica e, comunque, non a portata di mano. Evidentemente il bisogno di realizzare risultati immediatamente produttivi e spendibili sul piano economico, costringe in qualche modo il sistema a sottostare alla egemonia delle paradigma economico-finanziario, con tutto ciò che ne consegue.

I riverberi di questa situazione si evidenziano, peraltro, anche in una dialettica tra i diversi livelli di governo, primi fra tutti quello centrale e regionale, che tende a scaricare di volta in volta le responsabilità di ciò che è sicuramente meno gradito ai cittadini, per cui può capitare che il Governo centrale individui nelle Regioni le responsabili di un determinato comportamento considerato dannoso per i cittadini e che le Regioni, al contrario, o almeno talune di esse, scarichino completamente la responsabilità della congiuntura attuale sul Ministero della salute. E’ evidente che comportamenti siffatti non giovano a nessuno, meno che meno al paese, che avrebbe bisogno di scelte ispirate ad un maggior grado di consapevolezza della importanza e delicatezza del momento e di trasmettere, piuttosto, una immagine più unitaria, almeno negli intenti, indipendentemente dalle differenti valutazioni e opinioni su singoli provvedimenti.

In questo contesto sono maturati, di mese in mese, una serie di provvedimenti che hanno cambiato, di fatto, il rapporto tra cittadini e servizi sanitari e hanno suggerito l’idea che si stesse procedendo per aggiustamenti successivi, sulla base del raggiungimento o meno degli obiettivi di controllo della spesa prefissati e, comunque, necessari. Così, nell’arco di qualche mese, una serie di Regioni ha introdotti varie forme di addizionali e, successivamente, ticket sulla farmaceutica o sulle prestazioni di pronto soccorso, non avendo neanche cura di seguire politiche comuni riguardo alle forme di esenzione. Così si è assistito alla individuazione ed approvazione dei Livelli essenziali di assistenza (Lea), trasformatisi da livelli uniformi ed essenziali di assistenza in lista minima delle prestazioni da garantire al livello regionale. E’ vero che sulla introduzione dei Lea, da parte di qualcuno, sono state avanzate ipotesi interpretative assai diverse, che si sono concentrate anche sul loro valore di lista positiva di prestazioni che il servizio pubblico si impegna a garantire su tutto il territorio nazionale. Ma è altrettanto vero che le evidenti preoccupazioni di carattere economico delle Regioni e lo sbilanciamento evidente in questa direzione, a partire dai tagli introdotti per talune prestazioni, hanno comunicato alla opinione pubblica una immagine assai più legata alla necessità di ridimensionare l’offerta e realizzare risparmi di spesa.

In questo contesto è maturata anche la bozza del nuovo Piano sanitario nazionale che ha il suo limite maggiore non tanto nelle scelte individuate come strategiche per i prossimi anni, quanto piuttosto nel totale distacco dalla realtà per quanto attiene alla diponibilità di risorse finanziarie apposite che ne consentano la sua attuazione pratica.

E sempre in questo contesto è maturata una sorta di disattenzione continua e progressiva nei confronti della attuazione di quanto previsto dalla Legge quadro sulla assistenza, che conta ancora su risorse assai limitate e sicuramente insufficienti, e rimette al centro della scena i comuni senza dotarli dei mezzi sufficienti e costringendoli, per di più, assai spesso, a svolgere azione di supplenza rispetto a funzioni e compiti dai quali lo Stato sembra volersi ritirare.

1.1 Il nuovo prontuario farmaceutico nazionale

Al termine di un anno di manovre sulla farmaceutica è stata annunciata la ristrutturazione del prontuario farmaceutico nazionale.

Annunciata come una operazione di razionalizzazione nella accezione più positiva del termine, sembrava puntare, almeno in partenza, alla realizzazione di risparmi di spesa assai più consistenti di quelli che dovrebbero effettivamente andare a regime.

Il nuovo prontuario rimodula la sua struttura a partire dalla presenza di sole due classi di farmaci, una (la A) a totale carico del Ssn, l’altra (la C) completamente a pagamento per il cittadino. Scompare, quindi, la classe B, con tutto ciò che di positivo questa decisone comporta, non solo per la eliminazione di una classe di farmaci a parziale carico dei cittadini, ma anche in relazione alla eliminazione di una delle principali fonti di disomogeneità sul territorio nazionale. I 21 prontuari farmaceutici regionali derivano, in gran parte, proprio dalla presenza di una classe B diversa da regione a regione, sulla base del ricorso o meno al delisting in forma più o meno estesa. Sotto questo profilo, quindi, la ridefinizione del prontuario marcia, senza dubbio, nella direzione giusta. Importante, inoltre, aver fissato il legame tra classe A e livelli essenziali di assistenza, ragion per cui quanto è ricompresso all’interno di questa classe del prontuario dovrà essere garantito da tutte le regioni del paese. Assai positive anche le garanzie offerte ad alcune categorie di malati cronici di poter contare su alcuni farmaci a titolo gratuito, nonostante essi si trovino nella classe C del prontuario, in relazione alla loro utilizzazione particolarmente intensa.

L’assetto attuale del prontuario, tuttavia, è ancora largamente distante da ciò che entrerà in vigore definitivamente ad operazione ultimata, nel prossimo mese di gennaio 2003. Ciò dipende dal fatto che Ministero della salute ed Aziende produttrici di farmaci stanno ancora discutendo sul prezzo da attribuire ad una serie di principi attivi sulla base delle proposte effettuate dallo stesso Ministero. Qualora le Aziende non accettassero di ridurre i prezzi di alcuni farmaci, i cui principi attivi sono elencati nella tabella che segue, quegli stessi farmaci passerebbero automaticamente in classe C. Dunque, sino a quando non sarà chiaro su quali basi si raggiungerà un accordo, non sarà possibile sapere quale è, in effetti, la struttura finale del nuovo prontuario farmaceutico nazionale e, soprattutto, di quali farmaci i cittadini potranno continuare a disporre a titolo gratuito e quali di essi, al contrario, saranno costretti a pagarsi per intero.
 


Tab. 1. I principi attivi interessati alla rimodulazione del prontuario

Antagonisti dei recettori H2 
Antagonisti angiotensina II, non associati 
Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina 
Inibitori della pompa acida 
Antagonisti angiotensina II e diuretici 
Altri antidepressivi 
Eparinici-Bpm 
Inibitori della Hmg CoA reduttasi 
Agonisti selettivi dei recettori beta 2-adrenergici 
Nitrati organici 
Fibrati 
Beta 2-adrenergici lunga durata e glucocorticoidi 
Bloccanti dei recettori 
Antipsoriaci per uso topico 
Beta 2-adrenergici azione 
adrenergici 
rapida e anticolinergici 
Diuretici minori-Sulfonamidi 
Associazioni fise estr-profgestiniche 
Beta 2-adrenergici azione rapida e glucorticoidi 
Diuretici maggiori-Sulfonamidi 
Preparati sequenziali estro-progestinici 
Glucocorticoidi 
Antagonisti dell’aldosterone 
Estrogeni naturali e semisintetici non associati 
Anticolinergici 
Diuretici minori e risparmiatori di potassio 
Estrogeni naturali e semisintetici non associati (preparazioni ginecologiche) Sostanze 
antiallergiche, escluso corticosterone 
Diuretici maggiori e risparmiatori di potassio 
Cefalosporine 
Derivati xantinici 
Bloccanti non selettivi dei recettori beta-adrenergici, non associati 
Macrolidi 
Antileucotrienici 
Bloccanti selettivi dei recettori beta-adrenergici, non associati 
Fluorochinoloni 
Simpaticomimetici per la terapia del glaucoma 
Betabloccanti selettivi ed altri diuretici 
Coxib 
Parasimpaticomimetici 
Ca-antagonisti selettivi con prevalente effetto vascolare 
Farmaci antinfiammatori non steroidei non selettivi 
Inibitori della anidrasi carbonica 
Inibitori enzimatici di conversione della angiotensina, non associati 
Agonisti selettivi del recettore 5HtI 
Betabloccanti 
Inibitori enzimatici di conversione della angiotensina e diuretici 
Antipsicotici atipici 
 
 
fonte: elaborazione Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici-Cittadinanzattiva su dati Ministero della salute, Dipartimento della Farmacovigilanza

Se prendiamo in considerazione le operazioni condotte sinora, possiamo verificare, sia pure parzialmente, quale sarà la fisionomia di massima assunta dal nuovo prontuario, almeno per ciò che concerne la destinazione dei farmaci presenti nella vecchia classe B. Le tabelle che seguono rendono conto di ciò, tanto per quanto riguarda la classe B1 che per quanto attiene alla classe B2.
 


Tab.2. La rimodulazione della classe B1 del vecchio prontuario farmaceutico

 
Classe B1 
Trasferiti in classe A 
Trasferiti in classe C 
Principi attivi 
55
37
18
Categorie terapeutiche 
14
11
3
Confezioni 
230
179
51
fonte: elaborazione Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici-Cittadinanzattiva su dati Ministero della salute, Dipartimento della Farmacovigilanza

Tab.3. La rimodulazione della classe B2 del vecchio prontuario farmaceutico

 
Classe B2
Trasferiti in classe A
Trasferiti in classe C
Principi attivi 
113 
53 
60 
Categorie terapeutiche 
30 
13 
17 
Confezioni 
301 
187 
114 
 
fonte: elaborazione Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici-Cittadinanzattiva su dati Ministero della salute, Dipartimento della Farmacovigilanza

In sintesi, se si verifica tanto in valore assoluto che percentuale ciò che è stato già realizzato per definire il nuovo prontuario, si può verificare un incremento tanto dei principi attivi che delle categorie terapeutiche e delle confezioni erogate a titolo completamente gratuito in classe A, come si può vedere dalla tabella sottostante.

Tab. 4. La rimodulazione dei farmaci a carico del Ssn nel nuovo prontuario farmaceutico nazionale

 
Vecchio prontuario 
Nuovo prontuario 
Variazione 
Variazione (%) 
Principi attivi 
681 
771 
+90 
+13 
Categorie terapeutiche 
268 
291 
+23 
+9
Confezioni 
3.559 
3.925 
+366 
+10
 
fonte: elaborazione Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici-Cittadinanzattiva su dati Ministero della salute, Dipartimento della Farmacovigilanza

Tuttavia, per formulare un giudizio definitivo sulla intera operazione bisognerà attendere di verificare che cosa effettivamente sarà accaduto al termine della trattativa tra Governo e Aziende, in maniera da assicurasi che effettivamente nessun farmaco di rilievo per i ci cittadini sia rimasto fuori dalla classe di rimborsabilità. Qualunque valutazione effettuata in assenza di questi fondamentali elementi conoscitivi, fatte salve tutte le valutazioni espresse sinora, rischia di rivelarsi avventata e distante dalla realtà.

1.2 LA FINANZIARIA 2002

La manovra finanziaria sembra riservare, quest’anno, uno spazio limitato alla sanità, o comunque inferiore rispetto alle leggi di bilancio precedenti. In realtà, come vedremo, non è esattamente così, visto che una serie di misure il cui impatto non può essere considerato certamente irrilevante sugli equilibri del sistema sanitario è disseminata, qua e là, all’interno della stessa manovra, anche se non espressamente contenuta nelle parti specificamente dedicate alla sanità.

Ma ciò che la finanziaria prevede per il prossimo anno per il servizio sanitario non può essere considerato disgiuntamente da quanto è accaduto nell’anno che abbiamo alle spalle, visto che ne rappresenta, in qualche misura la naturale evoluzione. Dopo un anno di manovre sui farmaci, delle quali si è già detto in precedenza, a metà del mese di agosto si è annunciata, dapprima in maniera episodica, poi sempre più sistematicamente, l’operazione di chiusura dei piccoli ospedali. In realtà i termini della questione erano già sufficientemente chiari nel patto di stabilità, che indicava in quattro posti letto per acuti e in un posto letto di riabilitazione ogni mille abitanti gli standard da seguire. Puglia, Piemonte, Sicilia sono state le prime regioni a mettere in cantiere provvedimenti per la chiusura o la riconversione, altre si sono accodate rapidamente o hanno annunciato provvedimenti analoghi subito dopo. In quasi tutte le regioni i piani di ristrutturazione della rete ospedaliera vengono considerati attuativi senza coinvolgere in alcun modo le comunità locali nei processi decisionali. Non solo non si consultano le organizzazioni civiche e di tutela, ma addirittura, in taluni casi, neanche i sindaci. Si dà per scontato che, un po’ dappertutto, sia possibile sostituire posti letto per acuti con posti letto di riabilitazione. Ma in realtà questo travaso non può essere considerato per nulla automatico, visto che in alcune aree del paese bisognerebbe più semplicemente integrare le strutture per acuti esistenti, magari rafforzandole, con presidi riabilitativi o per lungodegenti, senza necessariamente tagliare preventivamente qualcosa. Non si assicura ai cittadini nessuna contestualità tra la chiusura di reparti o presidi o la soppressione di servizi e la attivazione di ciò che dovrà sostituirli. Non si dichiara dove si reperiranno le risorse finanziarie necessarie per trasformare, come annunciato, reparti e personale per l’assistenza agli acuti in reparti e personale per la riabilitazione, visto che è impensabile realizzare riconversioni a costo zero. Si considera come parametro di riferimento esclusivo quello indicato dagli standard (4 x 1.000), senza valutare che almeno in talune situazioni le decisioni relative meriterebbero di essere assunte sulla base di numerosi elementi (distanza dei presidi più vicini, viabilità, struttura e tipologia del territorio, solo per citare alcuni esempi) che dovrebbero concorrere, a pieno titolo, alla determinazione delle scelte finali. Si immagina di condurre in porto queste operazioni in qualche mese, utilizzando magari in maniera pretestuosa la chiusura di reparti per la pausa estiva per non riaprirli mai più, senza valutare che regioni come Toscana ed Emilia Romagna, che hanno condotto in passato operazioni simili, hanno impiegato da tre a cinque anni per la loro messa a regime.

Difficile non evidenziare, in un contesto come quello descritto sinora, una sorta di rinuncia da parte del Ministero, peraltro anche assai evidente, ad esercitare la guida del sistema sanitario nazionale e uno scambio con le regioni, alle quali si concedono maggiori poteri decisionali in cambio dell’impegno a tenere i conti in ordine. Non si tratta quindi di essere pro o contro il cosiddetto federalismo in sanità, ma piuttosto di valutare quanto di federalista ci sia in ciò che sta accadendo. Le disparità tra le diverse aree del paese non possono certamente essere considerate un problema di oggi, ma non si può far finta di non accorgersi che il Governo ha rinunciato alla guida unitaria del sistema in cambio del pareggio dei bilanci da parte delle regioni. Pensare di utilizzare la svolta federalista per fronteggiare la sottostima del fondo sanitario nazionale è, quanto meno, velleitario. Il federalismo, al contrario, ha bisogno di maggiori investimenti, soprattutto nelle fasi iniziali, soprattutto per garantire da una parte che le regioni che scontano maggiori ritardi nella efficienza della loro macchina organizzativa siano messe in condizione di recuperare, dall’altra che i cittadini non abbiano la sensazione che il Governo abbia scaricato oneri sulle regioni e su loro stessi.

In questo quadro, descritto per grandi linee, si inserisce la finanziaria per il 2002. Annunciata come una manovra praticamente neutra, nonostante la necessità per il Governo e il Paese di reperire risorse in relazione alla difficile congiuntura economico-finanziaria, ha il suo piatto forte nella rivalutazione del Fondo sanitario nazionale che dovrebbe crescere del 3,2%. Notizia certamente positiva, visto che comunque siamo in presenza di risorse aggiuntive da destinare alle regioni, anche se non si può sottacere che questa rivalutazione basterà a malapena a coprire il tasso di inflazione programmata. Nel frattempo si annuncia però una stagione di rinnovi contrattuali per la gran parte delle categorie professionali, ma non si prevedono risorse apposite e, contestualmente, si nega a regioni e comuni la possibilità di imporre addizionali. Se a tutto ciò si aggiunge quanto previsto dall’articolo 29, comma d, che dispone la decadenza automatica dei direttori generali delle Aziende sanitarie ed ospedaliere nella ipotesi che non riescano a raggiungere il pareggio di bilancio, il quadro che si profila è sufficientemente chiaro. E’ noto anche ai non addetti ai lavori che il pareggio di bilancio per una azienda sanitaria od ospedaliera non è obiettivo che si possa immaginare di raggiungere in pochi mesi, e richiede semmai impegni e strategie di medio-lungo periodo. Se il vincolo al suo raggiungimento è così perentorio, tanto da prevedere addirittura il licenziamento dei direttori generali, ciò prelude fatalmente alla necessità di provvedere a tagli di prestazioni e servizi che dovranno essere prodotti in tempi stretti, e senza guardare troppo per il sottile, se si vorrà che producano qualche effetto.

Quanto poco si possa prendere sul serio, così stando le cose, la proposta di far lavorare sette giorni su sette, in maniera continuativa, le diagnostiche e le specialistiche delle strutture ospedaliere, allo scopo di ottenere l’azzeramento delle liste di attesa, ma specificando che ciò deve avvenire senza oneri aggiuntivi per il bilancio dello stato, mi sembra sia sotto gli occhi di tutti. Se è vero che aumentare il numero delle prestazioni prodotte da un reparto o da una apparecchiatura diagnostica comporta la riduzione del costo delle singole prestazioni, è anche vero che bisogna pur disporre di un minimo di risorse da investire per retribuire il personale da impiegare, far fronte alla manutenzione delle apparecchiature in relazione al loro uso più intenso, garantire l’acquisizione dei kit diagnostici necessari, ecc. ecc. per garantire effettivamente la realizzazione di un simile disegno. Come si può immaginare che tutto ciò non comporti alcun onere aggiuntivo per il bilancio dello stato? E da dove dovrebbero essere ricavate le risorse finanziarie necessarie se alle regioni, contemporaneamente, si impone di rispettare il patto di stabilità, non attingere a nuove addizionali, mettere in pareggio i bilanci sino a prevedere di licenziare i direttori generali che non assolvono questo mandato?

Il capitolo dei tagli a servizi e prestazioni è completato dall’<<adozione di criteri e modalità per l’erogazione delle prestazioni che non soddisfano il principio di appropriatezza organizzativa e di economicità nella utilizzazione delle risorse>> (art. 29, comma b), indicazione assai elegante e un po’ criptica con la quale si richiede, in realtà, una accelerazione nei confronti della utilizzazione più estesa di prestazioni di day surgery in sostituzione di forme di ricovero tradizionali. L’adozione di questi criteri, che necessita ancora una volta di interventi di riconversione non di breve momento, tanto sotto il profilo strutturale che per quanto attiene la formazione del personale, insieme alla attivazione delle procedure di verifica delle prescrizioni mediche, farmaceutiche, specialistiche ed ospedaliere, all’azzeramento delle liste di attesa attraverso il ricorso al lavoro a ciclo continuo per le strutture ospedaliere, alla decadenza automatica dei direttori generali che non garantiscano il pareggio dei bilanci, è individuato dalla manovra come un passaggio obbligato per le regioni che vogliano attingere all’adeguamento del finanziamento del fondo sanitario nazionale. In altre parole: chi non si adegua a quanto previsto da queste misure non potrà accedere, di fatto, alle migliaia di miliardi stanziati per l’adeguamento del Fondo sanitario nazionale. Si potrebbe commentare che, al di là della condivisione o meno delle misure proposte, è legittimo che un Governo provi ad utilizzare tutti gli strumenti possibili per incentivare comportamenti che ritiene virtuosi. Il problema nasce, tuttavia, dalla difficoltà di rendere operative alcune di queste misure per tutte le regioni e in breve tempo. Il che lascia presupporre che una parte, anche consistente, delle risorse previste per il rifinanziamento del Fondo sanitario nazionale rappresenterà, in realtà, solo uno stanziamento virtuale, al quale in tanti non riusciranno ad accedere semplicemente perché non riusciranno a rispettare le condizioni stabilite.

La manovra introduce, inoltre, una Commissione unica per la diagnostica, che dovrebbe rappresentare l’omologo della Commissione unica del farmaco, per i dispositivi medici, con il compito di provvedere alla loro classificazione in classi e sottoclassi con relativi prezzi di riferimento, e a stabilire, esattamente come si fa per i farmaci, quali dispositivi e a quali condizioni siano a carico del Ssn, cioè rimborsati. E’ interessante andare a verificare quale è la composizione prevista per questa stessa commissione. Su sedici componenti, a parte la presidenza che è affidata allo stesso Ministro della salute, ben sette sono nominati dalla Conferenza dei Presidenti delle regioni ed uno dal Ministro della Economia e delle finanze. Ciò che rende ragione in maniera, crediamo, assai eloquente, del peso che le questioni economiche e di sostenibilità finanziaria avranno nelle decisioni della stesa commissione. Va definitivamente in soffitta l’abolizione dei ticket su diagnostica e specialistica, prevista dalla finanziaria del 2000.

A metà della discussione alla Camera, un emendamento presentato nel cuore della notte dal Governo ha tentato di cancellare definitivamente le norme sulla esclusività di rapporto dei medici, rendendo compatibile, di fatto, la libera professione in strutture private e la possibilità di esercitare le massime funzioni di responsabilità all’interno delle strutture pubbliche. Il che equivale, sia pure per una ristretta cerchia di baroni, alla possibilità concreta di utilizzare le carriere all’interno del servizio pubblico per realizzare guadagni consistenti nelle strutture private. L’emendamento, fortunatamente, non è stato approvato, anche se fonti ben informate ne danno per certa la sua riproposizione al Senato.

Infine, ma non certo in ordine di importanza, si abolisce il vincolo di destinazione per il Fondo nazionale per le politiche sociali, il che significa che le scarse risorse messe a disposizione della attuazione della legge quadro sulla assistenza (L.n. 388 del 23 dicembre 2000) potranno essere utilizzate anche per altri scopi. Non è certamente una buona notizia, e lascia presagire tagli alle prestazioni socio-sanitarie che già non godono di risorse sufficienti o, comunque, il rischio di un indebolimento ulteriore delle possibilità di attuazione di quanto previsto dalla legge quadro sulla assistenza.

Tirando le somme, in maniera sintetica, ci sembra ci siano una serie di elementi che emergono con chiarezza da questa finanziaria e che vale la pena di evidenziare:

1. si annuncia un rifinanziamento del Fondo sanitario nazionale che ha molte probabilità di essere utilizzato assai più a fini propagandistici che per i suoi effetti concreti. I nuovi stanziamenti non garantiscono affatto la copertura dei rinnovi contrattuali ormai alle porte e a stento assicureranno il recupero del tasso di inflazione programmato. La gran parte delle regioni, se non tutte, non riuscirà ad entrare in possesso dei fondi stanziati in relazione alla difficoltà di rispettare i criteri di accesso;

2. si accentua la tendenza a scaricare la responsabilità dei tagli a servizi e prestazioni sui direttori generali, e cioè su figure tecniche anziché sui diversi livelli di responsabilità politica. Saranno i direttori generali delle Asl o delle aziende ospedaliere, infatti, a chiudere reparti, piccoli presidi ospedalieri delle Asl, a sopprimere servizi, a ridurre ulteriormente la degenza ospedaliera, ecc. per mettere in ordine i bilanci, pena la decadenza dal loro incarico, non gli assessori regionali o i presidenti delle regioni;

3. si continua ad utilizzare la appropriatezza delle prestazioni, la necessità di procedere a razionalizzazioni e riconversioni e di combattere gli sprechi come pretesto per giustificare la inadeguatezza delle risorse messe in campo;

4. si prosegue nell’opera di depotenziamento di fatto della legge quadro sulla assistenza;

5. al di là della propaganda, si annuncia in tutta evidenza una nuova stagione di tagli ai servizi e riduzioni delle prestazioni per i cittadini, anticipata, peraltro, dalla chiusura dei piccoli ospedali.
 


Cap. 2°

LA SITUAZIONE

Come già nelle precedenti edizioni del Rapporto, in questa parte proviamo a delineare un quadro generale, ancorché sintetico e, sicuramente, parziale della situazione della assistenza e della tutela per le cronicità. Utilizziamo, ancora una volta, tre fonti:

• i dati ufficiali, messi a disposizione dall’ISTAT;

• i dati ottenuti dalla elaborazione delle informazioni contenute nelle segnalazioni e richieste di intervento giunte al servizio di informazione, consulenza e assistenza del Tribunale per i diritti del malato, PiT Salute, tanto presso la sede nazionale che alle sue sedi territoriali (34);

• le informazioni su singole patologie specifiche, per lo più attraverso contributi diretti da parte dei leader delle organizzazioni di tutela di riferimento aderenti al Coordinamento.

2.1 I DATI UFFICIALI

Come è noto le informazioni a nostra disposizione anche in questo settore del sistema sanitario sono ancora piuttosto limitate e basate sulla rilevazione attraverso interviste dirette a campioni di cittadini, piuttosto che su dati epidemiologici. Il paese sconta sicuramente, nel complesso, le conseguenze di questo ritardo anche in termini di efficacia della sua programmazione e di messa a fuoco delle politiche specifiche, oltre che di conoscenza effettiva. Tuttavia, in assenza di altre informazioni, può essere utile considerare quanto i dati ufficiali mettono a nostra disposizione.
 


Tab. 1. Popolazione per presenza di malattie croniche – Anni 1993-2000

Popolazione
Con una malattia cronica 
Con due malattie croniche o più 
Cronici in buona salute 
1993
35,4 
18,2 
44,0 
1994
35,4 
18,1 
47,1 
1995
36,0 
18,1 
46,3 
1996
36,9 
18,8 
47,8 
1997
35,6 
17,8 
47,9 
1998
33,5 
16,6 
47,0 
1999
34,9 
16,8 
46,0 
2000
36,1 
18,7 
45,8 
 
 
 

fonte:elaborazione Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici-Cittadinanzattiva su dati Istat, Indagine multiscopo, vari anni

Pur restando invariato, per grandi linee, il profilo generale della popolazione in relazione alla presenza di malattie croniche che emerge dalla indagine multiscopo Istat, per cui si può continuare ad affermare che un italiano su tre è affetto almeno da una patologia cronica e un malato cronico su due dichiara di godere, comunque, di buona salute, i dati dal 1998 in poi sembrano segnalare una vera e propria inversione di tendenza con una crescita tendenziale netta di quanti dichiarano di essere affetti da almeno una patologia cronica (+7,8%), e da due malattie croniche o più (+12,6%), e il decremento della percentuale di quanti, affetti da una patologia cronica, dichiarano di godere comunque di buona salute (-2,5%).
 


Tab. 2. Popolazione con presenza di alcune malattie croniche – Anni 1993-2000

Anni
Diabete
Ipertensione
Bronchite cronica
Artrosi Artrite
Osteoporosi
Malattie del cuore
Malattie allergiche
Disturbi nervosi
Ulcera duodenale gastrica
1993
3,4 
10,0 
7,4 
20,5 
4,6 
3,7 
6,0 
5,1 
3,8 
1994
3,4 
9,7 
6,9 
19,7 
4,6 
4,0 
6,3 
5,2 
4,0 
1995
3,4 
10,2 
6,9 
20,3 
4,8 
3,8 
6,8 
4,9 
3,9 
1996
3,4 
10,3 
6,9 
20,6 
5,2 
3,8 
7,2 
4,9 
3,9 
1997
3,4 
10,3 
6,3 
19,5 
5,3 
3,8 
7,1 
4,4 
3,5 
1998
3,5 
10,3 
6,0 
17,8 
5,0 
3,7 
6,6 
3,8 
3,0 
1999
3,5 
11,1 
6,0
18,1 
5,3 
3,8 
7,7 
4,2 
3,2 
2000
3,8 
12,1 
6,4 
19,0 
6,4 
3,9 
8,1 
4,3 
3,6 
 
fonte:elaborazione Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici-Cittadinanzattiva su dati Istat, Indagine multiscopo, vari anni

Se consideriamo i dati relativi agli ultimi tre anni rilevati, tutte le patologie croniche sembrano essere interessate ad una crescita tendenziale della loro incidenza. Gli scarti percentuali sono, peraltro, tutti di un certo rilievo, anche se corre una differenza significativa tra quanto rilevato per le malattie del cuore, di poco superiore al 5% e quanto rilevato per l’osteoporosi, che fa registrare una variazione del 28%.

Tab. 3. Popolazione con presenza di alcune malattie croniche. Anni 1993-2000. Incrementi percentuali rilevati nel corso degli ultimi tre anni
Patologia cronica
Incremento (%)
Diabete 
8,5 
Ipertensione 
17,4 
Osteoporosi 
28,0 
Malattie del cuore 
5,4 
Malattie allergiche 
22,7 
Disturbi nervosi 
13,1 
Ulcera gastrica o duodenale 
20,0 
fonte:elaborazione Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici-Cittadinanzattiva su dati Istat, Indagine multiscopo, vari anni
Altre informazioni si possono ricavare da una elaborazione del CENSIS sulla base di dati ISTAT, Ministero della sanità, Istituto Auxologico Italiano, Associazione italiana Malattia di Alzheimer, Associazione Italiana Sclerosi Multipla.

Tab. 4. Malattie a forte impatto assistenziale

Patologia
Soggetti coinvolti (anni 1998-2000)
Alzheimer
500.000
Nefropatie croniche
39.000
Sclerosi multipla
50.000
Soggetti gravemente disabili
923.000
Anziani (oltre 65 anni) disabili
1.874.000
 
 
 

fonte: elaborazione Censis 2000 su dati Indagini Multiscopo, ISTAT, Ministero della sanità, Istituto Auxologico Italiano, Associazione italiana Malattia di Alzheimer (Aima), Associazione Italiana Sclerosi Multipla (Aism), modificata

Si tratta, come si può vedere, di dati assai eloquenti anche in assenza di qualunque commento. Particolarmente significativi appaiono, ancora una volta, quelli relativi all’Alzheimer e alle disabilità. Per quanto riguarda quest’ultima area, la tabella successiva fornisce ulteriori e preziose informazioni sul legame tra le stesse disabilità e le patologie croniche.
 


Tab Malattie croniche e disabilità in persone di 65. 5. anni e più. Anni 1999-2000

Malattie croniche presenti 
Disabilità(%)
Nessuna malattia cronica
5,6 
Almeno una malattia cronica grave
64,5 
Tre o più malattie croniche
69,9 
 
 
fonte:elaborazione Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici-Cittadinanzattiva su dati Istat, Indagine multiscopo, 1999-2000
La presenza di almeno una patologia cronica o di tre o più malattie croniche rappresenta, in tutta evidenza, un fattore di rischio di disabilità estremamente rilevante. Da notare, peraltro, lo scarto percentuale relativamente modesto, tra disabilità conseguenti alla presenza di tre o più malattie croniche e disabilità conseguenti alla presenza di almeno una malattia cronica grave, ciò che mette a nostra disposizione informazioni utili in un’ottica di prevenzione. Prevenire le disabilità, vuol dire, in gran parte, stando ai dati di questa tabella, prevenire l’insorgenza anche di una sola patologia cronica.

Questi dati trovano conferma anche nella tabella che segue, dalla quale risulta che quasi la metà delle invalidità motorie e delle insufficienze mentali ha la sua origine in una malattia cronica ad andamento progressivo.

Tab. 6. Persone invalide per causa e tipo di invalidità (%). Anni 1999-2000
Causa della invalidità
Invalidità motoria
Insufficienza mentale
Condizioni precedenti o legate alla nascita 
9,7 
30,7 
Traumi, incidenti 
25,3 
11,9 
Malattie croniche progressive 
44,8 
44,7 
Conseguenza di malattie acute 
20,2 
12,7 
Totale 
100,0 
100,0
fonte:elaborazione Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici-Cittadinanzattiva su dati Istat, Indagine multiscopo, 1999-2000
L’impatto delle disabilità sulla vita degli individui cambia, come è ovvio, anche in relazione alla età. La tabella successiva rende conto della situazione per persone che abbiano superato i 65 anni di età. Al di là della disarticolazione delle diverse forme di disabilità, con il ruolo prevalente delle disabilità che riguardano le funzioni e il movimento, colpisce il dato relativo al confinamento dell’individuo presso il proprio domicilio, cioè le disabilità che impediscono, di fatto, all’individuo che ne è vittima di lasciare la propria abitazione. Nel 43% dei casi queste situazioni si traducono in anni di vita trascorsi a letto o su una sedia.

Tab. 7. Presenza e tipo di disabilità in persone di 65 anni e più. Anni 1999-2000

Tipo di disabilità
%
Confinamento individuale 
8,9 
• a letto 
1,9 
• su una sedia 
2,0 
• a casa 
5,0 
Disabilità nelle funzioni 
12,4 
Difficoltà nel movimento 
9,5 
Difficoltà di vista, udito, parola 
4,4 
fonte:elaborazione Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici-Cittadinanzattiva su dati Istat, Indagine multiscopo, 1999-2000

E’ evidente che su condizioni di questo genere esercita un peso non irrilevante anche la posizione nel contesto familiare. La tabella sottostante rende conto di ciò, anche in comparazione con quanto accade in assenza di disabilità.
 


Tab. 8. Posizione nel contesto familiare e presenza di disabilità. Anni 1999-2000

Posizione nel contesto familiare
Non disabili 
Disabili
Persone sole 
8,0 
28,4 
Componente aggregato in famiglie con un solo nucleo familiare 
1,4 
9,5 
Genitore in coppia con figli 
37,7 
12,9 
Genitore in nucleo familiare con un solo genitore 
3,1 
6,6 
Coniuge in coppia senza figli 
15,6 
25,9 
Figlio in una coppia 
26,3 
7,0 
Figlio con un solo genitore 
4,4 
2,4 
In altre famiglie 
3,6 
7,3 
Totale 
100,0 
100,0
 
fonte:elaborazione Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici-Cittadinanzattiva su dati Istat, Indagine multiscopo 1999-2000

Colpisce, indubbiamente, il dato relativo ai disabili che vivono da soli (il 350% in più dei non disabili), a quelli che vivono in coppia senza figli (il 66% in più rispetto ai non disabili) e a coloro i quali sono costretti a vivere in altre famiglie (più del doppio rispetto ai non disabili). Il peso della scarsità di risorse economiche che emerge dalla tabella successiva, a partire dalle maggiori difficoltà a vivere in una abitazione propria e in buone condizioni, e a disporre di comodità, come riscaldamento e telefono, considerate oramai elementari per la quasi totalità della popolazione, ci consegna un quadro di insieme complesso. Questo quadro rende ragione, una volta di più, della necessità di affrontare taluni temi che pure hanno una forte connotazione di carattere sanitario attraverso un’ottica integrata che tenga conto, e in maniera adeguata, degli aspetti e dei risvolti, a volte prevalenti, di carattere sociale.

Tab. 9. Condizione socio-economica delle famiglie in relazione alla presenza di disabili. Anni 1999-2000
Condizione socio-economica
Senza disabili
Con almeno un disabile
Con disabili di 65 anni e più
Risorse economiche ritenute scarse o insufficienti 
27,2 
42,3 
41,1 
Abitazione non di proprietà 
29,4 
33,0 
33,2 
Abitazione sprovvista di telefono 
9,4 
10,6 
11,2 
Abitazione sprovvista di riscaldamento 
13,1 
22,5 
22,4 
Abitazione in cattive condizioni 
4,3 
7,5 
7,9 
fonte:elaborazione Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici-Cittadinanzattiva su dati Istat, Indagine multiscopo, 1999-2000
 
Meno sorprendenti, ma non per questo di minor rilievo e utilità, i dati relativi al ricorso ai servizi sanitari da parte di disabili. Le differenze percentuali nella intensità della utilizzazione dei servizi, dal medico di medicina generale alla diagnostica, alla specialistica e alla riabilitazione, solo per citare alcuni esempi, ci rinviano ancora una volta il quadro di un uso intenso dei servizi sanitari, a fronte di bisogni particolari e continui, nel quale si manifesta in tutta la sua difficoltà e durezza quotidiana la necessità di ricomporre il percorso assistenziale mettendo insieme quanto il sistema è in grado di offrire.
Tab. 10. Ricorso ai servizi sanitari nel corso dell’anno. Anni 1999-2000
Ricorso ai servizi sanitari
Non disabili

(%)

Non disabili

(n. di ricorsi)

Disabili

(%)

Disabili

(n. di ricorsi)

Medico di medicina generale 
14,4 
20,2 
36,7 
68,7 
Visite specialistiche 
14,7 
22,8 
26,0 
46,2 
Ricoveri ospedalieri 
3,2 
3,8 
14,3 
18,7 
Accertamenti diagnostici 
12,1 
21,8 
23,6 
50,3 
Riabilitazione 
2,1 
19,1 
8,2
100,6
Assistenza domiciliare 
0,4 
3,7 
10,1 
181,6 
Pronto soccorso 
4,7 
5,8 
9,0 
13,7 
Guardia medica 
1,7 
2,9 
5,7 
9,4 
 
 
fonte:elaborazione Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici-Cittadinanzattiva su dati Istat, Indagine multiscopo 1999-2000
La comparazione con gli stessi dati relativi ai non disabili rende conto in maniera esaustiva della necessità di considerare adeguatamente i bisogni di questa particolare fascia della popolazione. L’individuazione della tipologia di interventi da offrire, delle modalità e dei luoghi nei quali metterli a disposizione dei cittadini, con una attenzione sempre più marcata alla personalizzazione dei percorsi assistenziali, non può non tener conto di tutto ciò, pena il rischio che il servizio sanitario appaia incapace di cogliere le priorità e di raccogliere le sfide che il momento ci pone di fronte.

2.2 I DATI DEL PIT

Le segnalazioni e le richieste di intervento delle quali si dà conto in questa parte del Rapporto fanno riferimento all’area delle patologie croniche, delle malattie rare, delle disabilità, della perdita della perdita della autosufficienza, della riabilitazione, della invalidità.
 
 


Tab. 11. Contatti con il PiT riguardanti l’area delle patologie croniche (%)


 


oggi
2001
2000
1999
15,2
14,3
12,3
11,5
 
fonte: Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, 2002
 
 

Nel complesso, l’area così individuata rappresenta il 15,2 del totale dei contatti con il PiT. Ancora una volta si deve registrare una crescita evidente e costante, con un incremento rispetto allo scorso anno superiore al 6%. L’area delle patologie croniche si conferma l’area specialistica per la quale il PiT riceve il maggior numero di segnalazioni.

E’ interessante andare a verificare come si disarticola questa richiesta di intervento. La tabella sottostante rende conto della composizione quali-quantitativa delle segnalazioni e richieste di intervento da parte dei cittadini per questa area specifica e del confronto con il dato generale.
 
 

Tab. 12. Generi di contatto con il PiT riguardanti l’area delle patologie croniche (%)

Tipo di contatto
Patologie croniche
Generale
richiesta di orientamento 
53,9 
37,6 
richiesta di consulenza 
18,4 
37,0 
segnalazioni 
15,8 
15,2
richiesta di assistenza 
11,9 
10,2 
totale 
100,0
100,0
 
  fonte: Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, 2002 La richiesta di orientamento, di informazione qualificata rappresenta da sola più della metà di tutte le segnalazioni al PiT per questa area di riferimento. L’entità dello scarto rispetto a tutte le altre voci, così come anche in relazione al dato generale, rende conto della serietà del problema. E’ evidente che tutto ciò trova una spiegazione anche nell’uso particolarmente intenso che questa fascia di cittadini fa delle strutture del servizio sanitario, il che rende ancora più evidente e grave un fenomeno che riguarda il Ssn nella sua interezza, come testimonia anche il dato generale.

Tab. 13. Oggetto dei contatti con il PiT riguardanti difficoltà di orientamento (%)

Oggetto
%
Frammentazione delle informazioni 
13,2 
Inadeguatezza delle informazioni 
9,7 
Mancata presa in carico 
19,4 
Burocratizzazione dei percorsi 
11,6 
totale 
53,9 
 
  fonte: Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, 2002 La disarticolazione ulteriore del dato mette a nostra disposizione ulteriori informazioni. Un problema certamente rilevante è rappresentato dalla frammentazione delle informazioni, che spesso coincide e riverbera la frantumazione dello stesso percorso assistenziale e le complicazioni di carattere burocratico che ne caratterizzano l’accesso. La stessa inadeguatezza delle informazioni fornite si riferisce in larga misura alla sensazione di scarsa utilità che il cittadino ricava da quanto la struttura mette a sua disposizione, che ha a che fare molto con la tipologia di servizi offerti e la loro capacità di rappresentare una soluzione valida per problemi spesso assai complessi. Tutto ciò va ben al di là ed oltre il contenuto e il valore delle informazioni effettivamente fornite dal servizio nelle sue articolazioni. Una chiara esemplificazione di questo fenomeno si ricava dalla entità delle segnalazioni relative alla mancata presa in carico, che sfiorano quasi il 20% dei contatti per questa area specifica, dalle quali si evince chiaramente anche una richiesta ben precisa nei confronti del sistema e della articolazione della offerta di prestazioni.

Il tema della presa in carico rinvia certamente alle questioni della informazione, delle quali si è detto, ma anche a quelle legate alle difficoltà di accesso al servizio. Se esaminiamo i dati a nostra disposizione verifichiamo che essi, per tutte e tre le questioni segnalate, presentano per l’area delle patologie croniche percentuali di segnalazioni e richieste di intervento decisamente più rilevanti rispetto ai corrispondenti dati generali. Ciò che mette a nostra disposizione, ancora una volta, informazioni preziose per la programmazione delle politiche sanitarie.
 
 


Tab. 14. Oggetto dei contatti con il PiT riguardanti difficoltà di accesso al Ssn (%) nell’area delle patologie croniche

Oggetto
Patologie croniche 
Generale
difficoltà nella fruizione dei servizi 
35,8 
23,0 
ostacoli nella fruizione dei farmaci 
13,2 
2,6 
dimissioni forzate 
8,0 
5,8 
totale 
57,0 
31,4
 
  fonte: Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, 2002 Per quanto attiene alle difficoltà nella fruizione dei servizi si tratta, come si può immaginare, di una voce alla composizione della quale concorrono le segnalazioni relative a difficoltà di accesso tanto ai servizi ospedalieri che a quelli territoriali.

2.2.1 LISTE DI ATTESA

I tempi di attesa ancora troppo lunghi, anche rispetto alle stesse indicazioni fornite dalle Regioni sui tempi massimi per le prestazioni di diagnostica e specialistica, rappresentano ancora una delle questioni più problematiche per i cittadini.
 
 


Tab. 15. Oggetto dei contatti con il PiT riguardanti lunghe liste di attesa nell’area delle patologie croniche. Anni 1999-2002 (%)

Oggi
2001
2000
1999
11,1
11,0
10,9
12,6
 
  fonte: Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, 2002 Come si vede il dato è sostanzialmente stabile ormai da tre anni a questa parte, il che non rappresenta certamente una buona notizia e rinvia, in qualche modo, alla esistenza evidente di una serie di nodi e questioni che strutturalmente condizionano la fisionomia del problema e la sua evoluzione in senso positivo. La tabella successiva fornisce ulteriori elementi di valutazione in relazione al peso esercitato dalla mancanza di servizi e dai lunghi tempi di attesa per prestazioni ambulatoriali ed ospedaliere.
 
 


Tab. 16. Oggetto dei contatti con il PiT riguardanti lunghe liste di attesa nell’area delle patologie croniche (%)


 


Oggetto
%
Accesso a prestazioni ambulatoriali e ospedaliere 
8,9 
Mancanza di servizi 
2,1 
totale 
11,0 
 
  fonte: Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, 2002 Al di là delle valutazioni già svolte sulla sostanziale staticità del dato complessivo, ci sembra ci siano elementi per sviluppare una serie di considerazioni generali:
      1. in primo luogo va detto che una serie di interventi, sia pure in maniera disomogenea e diversificata, sono stati messi in cantiere, in altre parole la questione è entrata finalmente nell’agenda delle politiche sanitarie del paese. Alcuni anni fa, non tantissimi, i risultati di un monitoraggio sui tempi di attesa si caratterizzavano essenzialmente per omogeneità, tanto tra le diverse prestazioni monitorate che, sia pure con qualche differenza, tra macroaree geografiche del paese. In altre parole si riscontravano tempi lunghi, più o meno per quasi tutte le prestazioni monitorate e anche le differenze tra nord, centro e sud del paese, pur presenti, non si concentravano particolarmente in questo ambito. Oggi non è più così, ed anche una lettura frettolosa dei dati frutto dei monitoraggi continui svolti dal Tribunale per i diritti del malato nel corso dell’anno, consente di intravedere interventi specifici sul tema da parte di molte regioni. Sulla qualità ed efficacia degli stessi si potrebbe argomentare a lungo e, solo in parte, lo si farà nel seguito, ma certamente qualcosa si è fatto. Tuttavia la questione è ancora assai lontana da una condizione complessiva che ci consenta di considerarla sotto controllo;
      2. da uno sguardo sommario si ha l’impressione netta che il quadro di insieme sia composto, per grandi linee, da quattro generi di approccio al problema:
      1. una terza considerazione generale riguarda il carattere oramai sempre più spiccatamente aziendale dei provvedimenti che si assumono in tema di riduzione dei tempi di attesa, al di là delle strategie generali su base regionale delle quali si è già detto. Le differenze tra tempi di attesa per le singole prestazioni erogate da aziende differenti nell’ambito della stessa regione, talvolta anche in territori assai vicini tra loro, ne è una testimonianza evidente. Ciò è comprensibilissimo, anche in considerazione della rilevanza degli aspetti organizzativi e gestionali in genere, oltre che della necessità di raccordarsi strettamente ai bisogni del territorio;
      2. al di fuori delle urgenze, l’introduzione di percorsi diagnostici guidati garantisce ai cittadini un accesso meno burocratico alle prestazioni e, di fatto, le precondizioni per aggirare lunghi tempi di attesa. Le sperimentazioni in atto hanno dato, a tal proposito, buoni risultati e d’altro canto, la stessa esperienza di ciò che accade con l’attuazione di alcuni programmi di prevenzione dei tumori rappresenta un esempio illuminante. La possibilità di programmare meglio e con maggiore certezza, unitamente alle maggiori garanzie sul piano della appropriatezza, rendono più facilmente raggiungibili risultati altrimenti assai più ardui. interessate alla questione o largamente incapaci di governarla, o entrambe le cose insieme. Sono le regioni che presentano i risultati peggiori, si misurano con difficoltà di bilancio rilevanti, non sembrano poter contare su una capacità di gestione adeguata alla complessità della situazione.
      2.2.2 I SERVIZI TERRITORIALI
        Se spostiamo la nostra attenzione dalla diagnostica e specialistica ai servizi sul territorio, ne ricaviamo informazioni utili proprio su ciò che i cittadini con problemi di cronicità considerano prioritario. Due questioni emergono in grande evidenza, una legata alla difficoltà di disporre di assistenza a domicilio, l’altra legata alla difficoltà di accesso alla riabilitazione, tanto in strutture ambulatoriali che presso il proprio domicilio.
      Tab. 17. Oggetto dei contatti con il PiT riguardanti difficoltà nella fruizione dei servizi. Servizi territoriali (%)
Oggetto
%
Assistenza infermieristica a domicilio 
5,3 
Assistenza fisioterapica e riabilitativa a domicilio 
7,7 
Prelievi di sangue a domicilio 
6,7 
Assistenza riabilitativa ambulatoriale 
4,5 
Accesso a strutture riabilitative 
5,1 
totale 
29,3 
 
  fonte: Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, 2002 Colpisce, dall’esame della tabella, l’attenzione che i cittadini riservano ad una possibilità in apparenza banale, come la disponibilità di un prelievo di sangue a domicilio, ma che rappresenta, soprattutto per un cittadino avanti negli anni e con problemi cronici, un servizio particolarmente utile. La tabella sottostante dimostra quanto cresca il peso delle stesse questioni per i cittadini che abbiano superato i 75 anni di età. Il confronto con i dati della tabella precedente ci sembra non necessiti di altri commenti.
 
 


Tab. 18. Oggetto dei contatti con il PIT provenienti da persone cha abbiano superato i 75 anni di età riguardanti difficoltà nella fruizione dei servizi. Servizi territoriali (%)

Oggetto
>75
Assistenza infermieristica a domicilio 
51,1 
Assistenza fisioterapica e riabilitativa a domicilio 
65,8 
Prelievi di sangue a domicilio 
68,9 
Assistenza riabilitativa ambulatoriale 
52,3 
Accesso a strutture riabilitative 
53,7 
 
  fonte: Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, 2002 A fronte di una richiesta di servizi così evidente e pressante va detto che non solo i cittadini segnalano le difficoltà di accesso delle quali si è detto sinora, ma lamentano anche il cattivo funzionamento di ciò che, tanto o poco che sia, viene messo a loro disposizione.
 
 


Tab. 19. Contatti con il PiT riguardanti il cattivo funzionamento dei Servizi territoriali. Patologie croniche (%)

Oggetto
%
Assistenza infermieristica a domicilio 
6,3
Assistenza fisioterapica e riabilitativa a domicilio 
11,8 
Prelievi di sangue a domicilio 
3,6 
Assistenza riabilitativa ambulatoriale 
18,4 
Strutture riabilitative 
21,3
 
  fonte: Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, 2002 Emerge in tutta evidenza un’area di criticità che riguarda le prestazioni fisioterapiche e di riabilitazione, tanto a domicilio che presso le strutture ambulatoriali. Un dato, questo, che se coniugato con la carenza di questo stesso tipo di prestazioni offre un quadro completo e piuttosto problematico, nel complesso, dell’area riabilitativa. Una parte delle segnalazioni riguardanti disservizi e qualità non adeguata delle prestazioni offerte dai servizi territoriali riguarda il comportamento del personale, come si può verificare dall’esame della tabella sottostante.
 
 


Tab. 20. Contatti con il PiT riguardanti il comportamento del personale. Servizi territoriali (%)


 



 

Segnalazione
%
Assistenza infermieristica a domicilio 
1,6 
Assistenza fisioterapica e riabilitativa a domicilio 
1,9 
Prelievi di sangue a domicilio 
1,1 
Assistenza riabilitativa ambulatoriale 
2,2 
Strutture riabilitative 
1,0 
totale 
7,8 
 
 
 

fonte: Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, 2002

Tutto ciò riguarda, come è ovvio, in maniera assai diversa le differenti figure professionali, anche in relazione al loro maggiore o minore coinvolgimento, come è testimoniato dalla tabella che segue.
 
 


Tab. 21. Oggetto dei contatti con il PiT riguardanti il comportamento del personale (%)

Oggetto
%
comportamento dei medici 
2,7 
comportamento degli infermieri 
10,2 
totale 
12,9 
 
  fonte: Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, 2002 2.2.3 DIMISSIONI FORZATE

Le carenze dei servizi territoriali gravano di maggiori oneri, come è ovvio, anche le strutture ospedaliere. Il fenomeno delle dimissioni forzate dagli ospedali è frutto certamente del raccordo inadeguato, se non assente, tra medicina ospedaliera e territoriale e del mancato decollo, in gran parte del paese, dei distretti, ma soprattutto della assenza strutturale di servizi sul territorio, che finisce per scaricarsi proprio sulle strutture ospedaliere. Le difficoltà di carattere economico-finanziario che hanno caratterizzato, assai più che in passato, l’ultimo anno, con la necessità di razionalizzare e prestare attenzione alla quadratura dei bilanci, hanno gettato le basi per la riacutizzazione di un fenomeno che nel passato recente sembrava avere rallentato, almeno al livello generale, la sua progressione, tanto per quantità di segnalazioni ricevute che per distribuzione sul territorio delle stesse. E’ evidente che in assenza di una medicina sul territorio in grado di soddisfare le richieste dei cittadini, l’ospedale è identificato come l’unico vero presidio del Ssn sul territorio e se il cittadino viene dimesso perché si è esaurita la fase acuta ma nessuno è in grado di accoglierlo per completare il percorso assistenziale, ciò si traduce, di fatto, in una modalità per scaricare oneri sulle famiglie. La tabella che segue illustra l’andamento del fenomeno sulla base della elaborazione delle segnalazioni e richieste di intervento giunte al PiT per l’area delle patologie croniche.
 
 


Tab. 22. Oggetto dei contatti con il PiT riguardanti dimissioni forzate, ingiustificate, premature, nell’area delle patologie croniche. Anni 1999-2002 (%)

Oggi
2001
2000
1999
8,0
5,6
5,3
4,3
 
 
 

fonte: Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, 2002

Come si vede dal confronto tra i diversi anni, da una fase di relativo rallentamento e consolidamento si è passati rapidamente ad una crescita consistente del dato percentuale, che testimonia di un evidente mutamento in atto. Peraltro la disarticolazione del dato generale dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, quanto il fenomeno sia rilevante proprio nell’area delle patologie croniche.
 
 


Tab. 23. Suddivisione per area di riferimento delle richieste di intervento giunte al PiT riguardanti dimissioni forzate, ingiustificate, premature (%)


 



 
 
 
 
 

Area
%
Patologie croniche 
26,2 
Oncologia 
22.9 
Ortopedia 
19,3 
Medicina generale 
13,2 
Chirurgia generale 
9,1 
Psichiatria 
7.2 
Altro 
2,1 
totale 
100,0 
 
  fonte: Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, 2002 Come si è già avuto occasione di dire in precedenza, a commento di alcuni dati ricavati ed elaborati dalle Indagini multiscopo dell’Istat, queste situazioni gravano pesantemente su soggetti che non sempre sono sufficientemente autonomi, come si può vedere anche dalla tabella sottostante, con tutto ciò che ne consegue.
 
 


Tab. 24. Grado di autonomia degli over 65 per i quali siano state segnalate al PiT dimissioni forzate, ingiustificate, premature (%)


 



 
 
 
 
 

Condizione
%
Completamente autonomo 
2,3 
Parzialmente autonomo 
3,7 
Non autonomo 
2,0 
totale 
8,0 
 
  fonte: Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, 2002 Se consideriamo che solo il 13,6% di quanti subiscono dimissioni forzate dagli ospedali vive con un coniuge autonomo e in grado di garantire assistenza, quasi il 10% vive da solo, il 26,5% vive con un coniuge che non è in grado di garantire assistenza (indipendentemente dal fatto che sia invalido o autonomo), e quasi il 40% è costretto ad andare a vivere con un figlio o con altri parenti, come si può verificare dalla lettura della tabella che segue, ci sembra che il quadro sia sufficientemente completo.
 
 


Tab. 25. Composizione del nucleo familiare degli over 65 per i quali siano state segnalate al PiT dimissioni forzate, ingiustificate, premature (%)


 


Condizione
%
Solo 
9,7
Con coniuge invalido 
8,3
Con coniuge autonomo ma non in grado di garantire assistenza 
18,2
Con coniuge autonomo e in grado di garantire assistenza 
13,6
Vive con un figlio 
29,7
Vive con altri parenti 
9,1
Vive con personale che garantisce assistenza a pagamento 
7,2
Altro 
4,2
totale 
100,0
 
  fonte:

Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, 2002

2.2.4 LA BUROCRAZIA

E’ evidente che le criticità e le problematicità illustrate sinora trovano una ulteriore causa di peggioramento delle carenze e dei disservizi ai quali fanno riferimento nell’impatto della burocrazia, vera e propria cartina di tornasole della spiccata autoreferenzialità che caratterizza ancora, troppo spesso, il nostro sistema sanitario. In altre parole l’esatto opposto di quell’orientamento al cittadino del quale si sente parlare, ormai, in tutte le sedi, ufficiali e non.
 
 


Tab. 26. Oggetto dei contatti con il PiT riguardanti il peso della burocrazia. Patologie croniche. Anni 1999-2002 (%)


 


Oggi
2001
2000
1999
41,3
39,5
39,0
38,4
 
fonte: Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, 2002 Come si vede siamo nel bel mezzo di una ripresa significativa del peso che la burocrazia esercita sul sistema. E ciò incide particolarmente, come è ovvio, proprio su una fascia di cittadini che ha necessità di utilizzare assai più intensamente il servizio. La tabella che segue illustra, in maniera più dettagliata, quali sono i momenti e gli ambiti nei quali nei quali si esercita questo filtro da parte delle amministrazioni nei confronti dei cittadini.
 
 


Tab. 27. Oggetto dei contatti con il PiT riguardanti il peso della burocrazia (%). Patologie croniche


 


Oggetto
%
Prenotazioni 
7,3 
Ticket 
7,7 
Esenzioni 
6,3 
Indennizzi e risarcimenti 
4,9 
Rimborsi 
3,3 
Fornitura di presidi 
3,5 
Consegna della documentazione 
3,8 
Altre procedure amministrative 
4,5 
totale 
41,3 
 
fonte: Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, 2002 L’incremento del dato percentuale nel corso dell’anno che abbiamo alle spalle è legato, verosimilmente, al riemergere in molte regioni dei ticket e alla variabilità di questi nelle differenti regioni, non solo per quanto attiene alle prestazioni sulle quali essi gravano, ma anche in considerazione della estrema variabilità nella loro applicazione, anche per quanto attiene alle condizioni di esenzione previste. Permangono, inoltre, ancora tutt’altro che affrontati e risolti, disagi e disservizi che tradizionalmente caratterizzano l’offerta di prestazioni del nostro sistema sanitario e il cui impatto è stremante rilevante proprio nell’area delle cronicità, come per esempio la fornitura di presidi, protesi ed ausili. Si tratta di un’area nella quale i cittadini scontano la obsolescenza evidente dello strumento normativo che regolamenta l’intera materia, il Nomenclatore tariffario, che viene continuamente rinnovato nella sua validità ad ogni scadenza successiva nonostante sia considerato, pressoché universalmente, decisamente inadeguato. Ma al di là della vetustà e inadeguatezza dello strumento, la burocrazia esercita quasi sempre, anche in questo ambito, e per intero, il suo peso. Iter lunghissimi e non trasparenti, difficoltà nel disporre di centri di assistenza e di ausili di ricambio, indisponibilità ad accogliere in tempo reale quanto messo a disposizione dalla innovazione, sono solo alcune delle molteplici e non certo gradevoli situazioni con le quali devono misurarsi tutti i giorni i malati cronici e delle quali la tabella sottostante rappresenta una sintesi assai schematica.
 
 


Tab. 28. Quadro sinottico delle principali questioni riguardanti presidi, protesi ed ausili


 






1. Qualità tecnica dei prodotti

• Adeguatezza delle caratteristiche tecniche del prodotto

• Possibilità di scelta tra prodotti realmente differenti tra loro

• Disponibilità effettiva di tutti i prodotti previsti

************************************************************

2. Distribuzione

• Chiarezza delle indicazioni fornite

• Attenzione alle abitudini di vita degli utenti e ai loro bisogni

• Prenotabilità delle forniture

• Periodicità della erogazione

• Puntualità nella erogazione

• Orario/giorni di apertura del servizio

• Quantità erogate

• Modalità di consegna/ritiro delle forniture
 

*********************************************************************

3. Organizzazione del lavoro ai diversi livelli

• Cooordinamento tra gli uffici preposti

• Esistenza di un sistema di controllo della qualità di tutti i passaggi previsti, con particolare riferimento alla distribuzione

********************************************************************

fonte: Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, 2002

Tra i diversi ambiti sui quali la burocrazia esercita per intero il suo peso non possono non essere citate le procedure per il riconoscimento dell'invalidità, anche in relazione al legame stretto tra

cronicità, invalidità, disabilità del quale si è detto nella prima riconoscimento parte di questo capitolo. La tabella sottostante fornisce indicazioni chiare proprio sulla maggiore incidenza, per l’area delle cronicità, delle questioni relative, sulla base delle segnalazioni e richieste di intervento giunte al PiT.

Tab. 29. Contatti con il PiT riguardanti il riconoscimento di invalidità (%)
Patologie croniche
Generale
9,3
8,1
 
  fonte: Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, 2002 Anche se per l’opinione pubblica del nostro paese, oramai, parlare di invalidità significa andare con la mente al fenomeno dei falsi invalidi, la questione, come è evidente, non può essere liquidata in maniera così semplicistica. In ciò risiede, peraltro, anche il paradosso di un paese che non riesce ad effettuare controlli severi, se non occasionalmente e in seguito a grandi inchieste, ma non riesce a garantire che quanti hanno effettivamente titolo ad ottenere il riconoscimento di invalidità ottengano il rispetto di questo diritto in tempi certi e rapidi. La tabella che segue illustra sinteticamente le principali questioni segnalate dai cittadini.

Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici-Cittadinanzattiva 28 Terzo Rapporto sulle politiche della cronicità LA SITUAZIONE

Tab. 30. Tipologia delle principali questioni segnalate riguardanti il riconoscimento di invalidità

• carenza o assenza di informazioni sull’iter burocratico e sui suoi passaggi

• eccessiva lunghezza della procedura

• mancato riconoscimento del diritto alla invalidità in relazione alla presunta temporaneità della patologia segnalata

• ritardi ed attese ingiustificate per accedere ai benefici previsti una volta che sia giunto il riconoscimento di invalidità

fonte: Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, 2002 2.2.5 L’accesso ai farmaci

In un quadro che tendeva oramai da alcuni anni a stabilizzarsi e a concentrare le segnalazioni e richieste di intervento solo in alcune aree, dallo scorso mese di agosto la farmaceutica è tornata prepotentemente ad occupare il centro della scena. Dapprima solo per gli addetti ai lavori, poi pian piano anche nella percezione dei cittadini. La reintroduzione della classe B, parzialmente a carico dei cittadini, la riduzione del 50% delle multiprescrizioni per ricetta per i malati cronici, senza aver mai introdotto le confezioni ottimali, la fissazione del tetto per la farmaceutica al 13%, tanto al livello nazionale che regionale, la possibilità per le Regioni di procedere al delisting, spostando farmaci contenuti in due elenchi della Cuf dalla classe A del prontuario, totalmente gratuita, alla C, completamente a carico del cittadino, con un mero atto amministrativo, pian piano, mano a mano che venivano recepiti dalle singole Regioni hanno cominciato a far sentire i propri effetti e a suscitare la reazione dei cittadini. La tabella che segue rende conto di ciò, a partire dalla voce relativa ai farmaci non ticket esenti, visibilmente più consistente e significativa delle altre.
 
 


Tab. 31. Oggetto dei contatti con il PiT riguardanti ostacoli nella acquisizione dei farmaci (%). Patologie croniche

Oggetto
%
farmaci (generale) 
2,3 
farmaci non ticket esenti 
7,3 
farmaci non reperibili 
3,6 
totale 
13,2 
 
  fonte: Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, 2002 E’ evidente che proprio in relazione ai tempi con i quali le Regioni, in ordine sparso, hanno introdotto ticket e delisting, il fenomeno è ancora solo parzialmente delineato attraverso la elaborazione delle segnalazioni. Si tratta, in definitiva, di mutamenti ancora troppo recenti, che risalgono in alcune realtà regionali solo a qualche mese fa, troppo poco per lasciare una traccia consistente di se. Ma la percezione della serietà del problema da parte dei cittadini è evidente, e i segnali in questa direzione assolutamente leggibili e incontrovertibili.

2.3 UNO SGUARDO SINTETICO ALLA TUTELA DI ALCUNE PATOLOGIE

A cura di M.A. Franchi, Federasma, in collaborazione la Dott.ssa Gianna Moscato (Servizio Autonomo di Allergologia e Immunologia Clinica, IRCCS Fondazione Salvatore Maugeri, Pavia).

2.3.1. Allergie (A cura di M.A. Franchi, Federasma, in collaborazione la Dott.ssa Gianna Moscato (Servizio Autonomo di Allergologia e Immunologia Clinica, IRCCS Fondazione Salvatore Maugeri, Pavia).
 
 

L’allergia è una risposta anomala da parte di persone che hanno una ben precisa connotazione genetica, cioè quella di produrre anticorpi della classe IgE, nei confronti di sostanze dette allergeni.

Chi è allergico riconosce come nocive delle sostanze che sono innocue per i soggetti non allergici. Le persone che sono costituzionalmente predisposte all’allergia sono definite "atopiche".

Ciascun individuo reagisce in base alle proprie caratteristiche immunologiche ed a seconda dell’organo interessato (organo bersaglio). Si possono dunque verificare: rinite e asma allergica, congiuntivite e orticaria. Tali manifestazioni possono presentarsi da sole o variamente associate.

Se tutto l’organismo partecipa improvvisamente a questa risposta, si avrà un reazione allergica acuta e generalizzata più grave, che viene denominata shock anafilattico.

Malattie allergiche: classificazione

Allergie respiratorie Le allergie respiratorie più frequenti sono la rinite allergica e

l’asma. Rinite allergica La rinite allergica è caratterizzata da starnuti, prurito a livello del naso, che spesso cola ed è chiuso. Talora si può associare a mal di testa.

La rinite allergica può essere intermittente, ad esempio se dovuta a pollini, o persistente, quando si manifesta tutto l’anno, ad esempio a causa degli acari o alla presenza di un animale domestico.

Asma allergico L’asma è una malattia cronica dei bronchi causata da una loro infiammazione che provoca mancanza o difficoltà di respiro, tosse, respiro fischiante o sibilante, senso di oppressione toracica. L’asma può essere indotta da allergeni, oppure da altri fattori3.

Congiuntivite allergica Si può spesso associare alla rinite allergica o all’asma. I sintomi più tipici sono gli occhi arrossati e che lacrimano.

Allergie cutanee Le allergie cutanee più frequenti sono la dermatite e l’orticaria. Sono malattie della cute il più delle volte dovute a una causa sconosciuta che possono comparire a distanza di un giorno fino ad una settimana dopo l’esposizione all’allergene.

Dermatite La dermatite può essere di due tipi:

• Dermatite da contatto . Compare solo sulla parte del corpo che viene a contatto con la sostanza non tollerata. L’esempio più diffuso è la dermatite da nichel.

• Dermatite atopica. Colpisce i soggetti predisposti, soprattutto il bambino piccolo, e può diffondersi a tutto il corpo o ad una sua parte (guance, piega del gomito, parte interna del polso e del ginocchio).

I bambini in genere sopportano male l’aspetto esteriore della dermatite, che può anche divenire un handicap sociale. Talora la pelle presenta vescicole, croste, diventa rossa, sudata o secca e si desquama. Inoltre, il prurito è in genere molto forte, il bambino si gratta e ciò può causare lesioni cutanee persistenti. Questi bambini sono frequentemente irritabili ed hanno tendenza ad isolarsi, anche perché spesso sono respinti dagli altri a causa del loro aspetto.

Orticaria È un’infiammazione della cute, che assomiglia, come dice il nome, alla reazione che ha la pelle quando ci si punge con le ortiche. La cute diventa edematosa (gonfia) e brucia, è calda, pizzica e la superficie delle lesioni, intensamente pruriginose, ricorda le punture di zanzare (pomfi).

Angioedema È un gonfiore che interessa gli strati profondi della cute o delle mucose visibili, specialmente a livello del viso. L’aspetto esteriore di tali bambini colpisce immediatamente in quanto la tumefazione generalizzata del viso può determinare la chiusura o quasi delle palpebre e/o l’aumento di volume delle labbra. Può risultare pericoloso quando raggiunge la gola e nei casi più gravi può provocare difficoltà respiratorie.

Allergie alimentari La sintomatologia provocata dall’allergia o intolleranza alimentare è molto varia e può riguardare l’apparato respiratorio (asma e rinite), la cute (orticaria e dermatite), l’apparato gastroenterico, fino a reazioni generalizzate sistemiche ed a vero e proprio shock anafilattico.

I principali alimenti che causano allergie sono il pesce, le uova, il grano, le arachidi, la soia ed il latte per i bambini più piccoli.

Gli alimenti o i prodotti che causano le reazioni vanno eliminati dalla dieta. Le conseguenze dell’uso di un minimo ingrediente nocivo e delle eventuali possibili contaminazioni possono essere molto gravi.

Allergie alle punture di

insetti imenotteri

Le allergie alle punture di insetti più frequenti sono quelle provocate dalle vespe, dalle api o dai calabroni. Possono indurre reazioni pericolose e talvolta perfino mortali. In una persona sensibilizzata al veleno di imenotteri, subito dopo una puntura, si possono manifestare rossore generalizzato, prurito, difficoltà respiratoria, sensazioni di soffocamento e perdita di coscienza. In questi casi sono necessari interventi immediati di Pronto Soccorso Osservazioni di carattere epidemiologico

Le malattie allergiche sono in crescita in tutti i paesi industrializzati e costituiscono un vero e proprio problema sanitario.

Una recente indagine europea ha messo in evidenza che un cittadino su quattro è affetto da allergie, cioè 80 milioni di persone in Europa.

In Italia, si stima che le allergici siano circa 10 milioni di persone, pari a più del il 20% della popolazione. L’indagine dell’ISTAT sulle condizioni di salute della popolazione indicano che le allergie (anche se non si considera l’asma) costituiscono la terza causa di malattia cronica (dopo l’artrosi/artrite e l’ipertensione).

L’aumento di prevalenza delle patologie allergiche respiratorie riguarda diverse fasce di età, ma, in particolare per l'asma, appare rilevante nei bambini e negli adolescenti (7-8) per i quali sembrano essere particolarmente importanti le condizioni ambientali dei primi anni di vita, che sarebbero cruciali per l’orientamento del sistema immunitario verso una risposta di tipo allergico.

Linee Guida Internazionali – Documento ARIA

L'OMS-Organizzazione Mondiale della Sanità, ha recentemente promosso un importante progetto per la gestione e la prevenzione della rinite e dell’asma, denominato ARIA (Allergic Rhinitis and its Impact on Asthma). Si tratta di linee-guida ora a disposizione degli specialisti e medici di famiglia anche nel nostro paese, che dovrebbero consentire di promuovere e migliorare il trattamento della rinite allergica, che viene omai considerata l'anticamera dell'asma, e di prevenirne l'evoluzione asmatica.

Queste linee guida forniscono l’indicazione degli schemi terapeutici per il trattamento della rinite allergica basati sulle evidenze scientifiche.

Costo economico della malattia

Esistono studi sul costo economico dell’asma, ma non sul costo delle altre malattie allergiche.

I costi diretti sono rappresentati dai trattamenti farmacologici, le visite mediche, il ricorso al Pronto Soccorso ed ai ricoveri ospedalieri.

I costi indiretti comprendono in primo luogo le assenze dal lavoro o dalla scuola. Ma, se si tiene conto del fatto che la gestione delle malattie allergiche, per una larga parte, concerne provvedimenti igienistici e misure per evitare il contatto con l’agente che scatena i sintomi, si può capire che i costi indiretti possono essere molto elevati, dato che spesso la famiglia deve modificare completamente il proprio stile di vita o abitativo.

Impatto sociale e psicologico

Una recente indagine europea denominata "Allergy, Living and Learning", alla quale ha partecipato anche l’Italia, ha evidenziato che le allergie respiratorie hanno un forte impatto sulla vita familiare, professionale e sociale di chi ne è affetto: circa il 70% dei pazienti che ha partecipato a questa indagine lamenta limiti allo svolgimento di una vita normale a causa di queste patologie. I principali limiti incontrati dal paziente sono quelli che interferiscono con lo svolgimento delle normali attività fisiche quotidiane (un paziente su due lamenta di non potere effettuare nemmeno piccoli sforzi normali, come salire le scale, occuparsi della casa, ecc.) o con lo svolgimento di attività sociali (più del 50% ha difficoltà a uscire di casa a causa della propria allergia, il 30 % ha problemi di mangiare fuori casa o di andare al cinema, per il 25% circa la malattia condiziona la scelta della villeggiatura).

A ciò si deve aggiungere che più del 50% dei pazienti dichiara disturbi del sonno a causa della malattia, che evidentemente inducono disagi per lo svolgimento delle attività quotidiane, soprattutto scolastiche e professionali, con conseguenze anche drammatiche sulla qualità della vita.

Infine, non va sottovalutato il peso della malattia anche in termini psicologici: un paziente su quattro si preoccupa del proprio futuro e si sente frustrato o in collera a causa della sua condizione.

Le allergie respiratorie sono dunque fonte di preoccupazione e di disagio per il paziente e per la sua famiglia, spesso sottovalutati dalla classe medica, dalle Istituzioni e dall’opinione pubblica.

Il ruolo della prevenzione

Il trattamento farmacologico è in alcuni casi efficace per il controllo dei sintomi e nel migliorare la qualità della vita del paziente, ma nella maggior parte dei casi l’attenzione dovrebbe essere portata alle misure di prevenzione.

La prevenzione primaria si applica prima dell’esposizione ai fattori di rischio associati alla malattia. L’obiettivo è di prevenire l’insorgenza della malattia in soggetti a rischio. Dato che la sensibilizzazione allergica può iniziare anche prima della nascita, la prevenzione primaria dovrebbe essere mirata al periodo prenatale.

La prevenzione secondaria viene attuata dopo che la sensibilizzazione primaria agli allergeni si è sviluppata, ma prima della comparsa di qualsiasi sintomo della malattia. Lo scopo è di prevenire lo stabilizzarsi e il persistere della malattia cronica in pazienti suscettibili e che mostrano segni precoci della malattia. Si concentra nel primo e secondo anno di vita.

La prevenzione terziaria consiste nell’evitare gli allergeni negli ambienti interni, l’esposizione cronica ad inquinanti degli ambienti esterni e quella degli ambienti professionali. Evitare l’uso di alimenti che possono causare allergie o particolari farmaci.

Campagne di informazione, sensibilizzazione ed educazione sanitaria sono lo strumento indispensabile per contrastare l’aumento di queste malattie croniche.

Le questioni fondamentali

La questione fondamentale oggi è rappresentata dal riconoscimento del rilievo sociale delle malattie allergiche da parte delle nostre autorità. E’ del tutto inaccettabile che terapie la cui efficacia è documentata da evidenze scientifiche per il trattamento cronico delle malattie allergiche (rinite, congiuntivite, ecc.) siano a totale carico delle famiglie, in modo particolare gli antistaminici e i cortisonici.

Due casi tipici

Oltre alla "revisione" del prontuario farmaceutico esistono vari problemi che necessitano una presa di posizione:

1 - Immunoterapia specifica E’ ormai acquisito il fatto che l’immunoterapia specifica (il cosiddetto vaccino) è l’unica terapia in grado di modificare la storia naturale delle malattie allergiche, che gli specialisti prescrivono sempre nei casi in cui sussistano le indicazioni specifiche (vedi "Position paper" dell’OMS del 1998 e Documento ARIA del 2001). Il costo annuale del trattamento si aggira intorno a ª 350,00 ed il trattamento può protrarsi per alcuni anni.

L’Immunoterapia Specifica dovrebbe essere a carico dei SSR, mentre a parte alcune eccezioni (per esempio in alcune Regioni per ogni tipo di allergie oppure in altre per le allergie al veleno di imenotteri) si tratta di una spesa che grava sui bilanci familiari.

2 - Accoglienza dei bambini allergici a scuola (ed altri ambienti confinati)

Le caratteristiche dell’asma e delle allergie sono tali che occorre "adattare" la scuola e gli altri ambienti di vita alle esigenze particolari di questi bambini. Data l’elevata prevalenza delle allergie e la loro crescita ci dobbiamo aspettare che in ogni classe potranno trovarsi almeno 4-5 bambini con una forma di allergia. Il bambino allergico deve potere condurre una vita normale come i suoi coetanei e, per questo, occorrono misure che garantiscano il suo diritto all’istruzione, attraverso l’accoglienza, l’integrazione, il sostegno pedagogico e l’assistenza sanitaria.

2.3.2 Alzheimer

Osservazioni di carattere epidemiologico

La prevalenza della demenza in Italia è stimata, secondo i dati CNR-PF Invecchiamento, del 6,4% per le età superiori ai 65 anni (7,2% per le donne, 5,3% per gli uomini). La demenza di Alzheimer costituisce il 50-60% di tutte le forme di demenza. Ha un andamento progressivo con l’aumentare della fascia di età, passando dalla prevalenza dello 1,2% nel quinquennio 65-69 al 21,1% nel quinquennio 80-84. Al di là dei 90 anni sembra raggiungere un plateau del 30%. Secondo tali dati, in Italia le persone affette da demenza sarebbero circa 700.000, di cui circa 450.000 affette da malattia di Alzheimer. Tutti gli studi sottolineano il rapporto esponenziale con l’età (raddoppia ogni cinque anni) e, per quanto riguarda la malattia di Alzheimer, la maggior presenza nelle donne.

L’incidenza per l’età superiore a 65 anni è di 11,9 nuovi casi/1000/anno (10,3% per gli uomini e 13,3% per le donne).

Dato il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione, il numero di persone affette da demenza è destinato ad aumentare ancora nei prossimi anni, con impatto crescente sull’organizzazione della società e sul sistema socio-sanitario.

Costo economico della malattia

In Italia, soltanto negli ultimi anni, si è iniziato a prendere in considerazione gli aspetti economici relativi alla demenza e in particolare alla malattia di Alzheimer.

Lo studio CoDem ha dimostrato che esiste una forte relazione tra il livello funzionale, il grado di compromissione cognitiva del paziente e il costo assistenziale.

Si distinguono costi diretti per diagnosi, terapia e assistenza formale sostenuti dal SSN (23%) e costi indiretti (77%) che gravano per lo più direttamente sulle famiglie (assistenza informale, perdita di risorse, sofferenza psicologica e fisica del caregiver).

Si calcola che il costo totale per la gestione di ogni paziente sia di circa 100 milioni/anno (espressi in lire a valore di fine 2000).

Il confronto tra Paesi europei sui costi sociali della malattia di Alzheimer dà valori assoluti simili, mentre differente è la spartizione tra costi diretti e indiretti; ad esempio, nei Paesi scandinavi il rapporto tra costi diretti e indiretti è rovesciato.

Impatto sociale e psicologico

Per osservare e capire le ricadute dei problemi clinici sulla qualità della vita, è necessario mettersi nell'ottica del binomio paziente-caregiver.

I sintomi sentinella, quali il deficit di memoria o il disorientamento temporo-spaziale (il malato perde la strada di casa), provocano già grossi inconvenienti nell’ambito familiare. Quando poi, con il progredire della malattia, emergono disattenzioni o comportamenti non adeguati, pericolosi per sé e per gli altri (lasciare il gas aperto o la porta di casa, o sbagliare la collocazione degli oggetti), o problemi per la difficoltà nel gestire il denaro, con possibili conseguenze anche legali, si producono momenti di crisi per la necessità di una sorveglianza continua e per l'ansia e la frustrazione che passa dal malato a tutto il nucleo familiare.

Ma i sintomi, che sono più tardivi, ma che deteriorano di più le relazioni familiari sono il mancato riconoscimento (del coniuge, dei figli) e i disturbi del linguaggio, con l'aumento del senso di estraneità; è allora che insorgono i disturbi comportamentali, come l'aggressività o l'inversione del ritmo sonno-veglia, che mettono definitivamente in crisi la famiglia. Ci troviamo infatti davanti ad un sovvertimento dei ruoli, rottura di equilibri, di progetti professionali, crolli economici, ineluttabilità, dolore.

Un grande contributo alla comprensione del processo della malattia è la riflessione sulle fasi che la famiglia attraversa durante il cammino di malattia del suo congiunto.

All'esordio dei sintomi vi è dapprima sconcerto, poi, alla diagnosi, disperazione, quindi ancora negazione: infatti è la fase del peregrinare tra i vari specialisti, alla ricerca di una ipotesi diagnostica più ottimistica, per poi ritornare quasi sempre al punto di partenza. Inoltre è difficile per il caregiver accettare i deficit come segni di malattia e non come provocazioni o comportamenti errati da correggere. C'è anche molta rabbia di fronte all'emergere di un profondo senso di impotenza.

In questa prima fase il bisogno di aiuto richiede una risposta mirata alla difficile accettazione della malattia, evitando comportamenti di fuga, che lascerebbero solo il malato. E' la fase in cui emerge anche la paura dell'ereditarietà, con una insistente richiesta di rassicurazione.

Nella seconda fase, col progredire della malattia, è necessario ricercare modelli di comportamento da utilizzare di fronte a cambiamenti repentini, a crisi di aggressività, alla perdita di capacità sempre più macroscopica. La terza fase, comprende le situazioni legate all'ultimo stadio della malattia: i bisogni a questo punto sono più di natura clinico-infermieristica, ma l’osservazione conferma la durezza del lungo percorso di assistenza e le difficoltà di relazione con questo tipo di malato.

Si delinea così il percorso di un impegno totalizzante, che comporta anche l'assoluta necessità di "momenti di respiro" per la famiglia.

Il ruolo della prevenzione
Non essendo stata dimostrata per la malattia di Alzheimer una causa specifica, se non nelle rare forme legate ad un difetto genetico, ed essendo il principale fattore di rischio l’età avanzata, il significato della prevenzione può essere legato ad alcuni fattori protettivi individuati, seppure non ancora chiariti, (alta scolarità, uso di estrogeni nelle donne in menopausa, fattori ambientali, ecc.), ma soprattutto è legato alla diagnosi precoce.

Una diagnosi precoce, che permetta di distinguere tra il calo funzionale legato ad un invecchiamento fisiologico e il viraggio verso la malattia, può consentire di porre in atto al più presto possibile le pur ancora insufficienti strategie farmacologiche e non farmacologiche, che hanno tuttavia un peso terapeutico proprio quando sono applicate all’esordio di malattia.

Le questioni fondamentali

Non c'è dubbio che con il Progetto Cronos il Ministero della Salute abbia dato un segno tangibile sulla intenzione di prendere in carico il problema dei malati di Alzheimer .

Il progetto ha comportato l'istituzione in tutto il territorio nazionale delle UVA, le Unità di Valutazione Alzheimer, che dovrebbero configurare i primi nodi di una rete di servizi. Tuttavia le UVA spesso si limitano all'erogazione gratuita del farmaco, senza impostare un vero piano di intervento individualizzato, anche perché intorno a loro mancano gli altri tipi di servizi necessari per un adeguato "percorso Alzheimer".

Sta comunque per essere varato dal Ministero della Salute un documento di linee guida per le Regioni, affinché, alla chiusura del Progetto Cronos o intersecandosi con esso, impostino nei rispettivi territori le strategie più adeguate al numero sempre crescente dei malati. Il documento è il frutto di un gruppo di lavoro multidisciplinare, al quale hanno partecipato anche le Associazioni dedicate.

L'importante è che le Regioni raccolgano le sperimentazioni, le buone pratiche, le esperienze dei centri di riferimento esistenti, e pongano a regime un percorso assistenziale completo per ogni livello di bisogno. Ciò significa appunto rispondere alla richiesta prioritaria di una assistenza domiciliare dedicata; significa aprire centri diurni specifici per i malati di Alzheimer, altro cardine nella rete dei servizi, che consentano una riattivazione del paziente con una valorizzazione delle capacità residue funzionali, con un miglioramento della storia naturale della malattia e della qualità di vita di tutto il nucleo familiare; significa attivare strutture per ricoveri temporanei di "sollievo" alle famiglie in particolari momenti di disagio, mentre l'istituzionalizzazione va riservata ai casi di totale mancanza di supporto sociale, attraverso nuclei Alzheimer nelle RSA, con le stesse esigenze di specificità e di formazione del personale. Il tutto in una organizzazione di assistenza continuativa, che va dalla diagnosi alla impostazione del piano individuale di intervento, a tutti i nodi necessari della rete dei servizi.

Due casi tipici

Caso A

Una situazione emblematica è quella di due coniugi (ambedue già in età avanzata), uno dei quali ammalato di Alzheimer, che deve essere accudito dall'altro, spesso anch'esso portatore di una malattia cronica invalidante, anche se non colpito nelle funzioni cognitive. Spesso i coniugi hanno figli lontani o che, impegnati per le loro famiglie, hanno comunque poco tempo da dedicare ai genitori.

Il coniuge "sano" si rivolge all'istituzione pubblica che ha come filtro il medico di famiglia: soprattutto da quando esistono le Unità di Valutazione Alzheimer non si incontra una grande difficoltà nel seguire un iter diagnostico adeguato o ad ottenere gratuitamente farmaci; il problema nasce, al di là della diagnosi, nella mancata risposta ad una ragionevole richiesta di assistenza e supporto.

Il coniuge anziano non riesce a far fronte a tutte le necessità della vita quotidiana, che richiede anche una vigilanza costante del comportamento dell'ammalato/a. L'assistenza domiciliare, anche se esiste, nella maggior parte dei casi non fornisce prestazioni di aiuto psico-comportamentale, che implica una formazione specifica degli operatori. Il caregiver è fortunato quando trova nelle vicinanze un gruppo di sostegno presso qualche servizio dedicato, ma la situazione in certi casi arriva alla disperazione, soprattutto se i mezzi finanziari sono scarsi. Abbiamo letto recentemente sui giornali di un marito ottantenne suicida, dopo aver soffocato la moglie coetanea, malata di Alzheimer..

Caso B

Una donna vedova, o nubile, vive da sola senza parenti prossimi e comincia a manifestare disturbi cognitivi. Dapprima il deficit di memoria o certi tipi di disorientamento, soprattutto se l'ammalata è di buona cultura, non emergono presso i vicini o le persone con le quali intreccia relazioni; ma presto certi comportamenti, come risposte aggressive oppure fatue, o errori nel vestirsi o mancati riconoscimenti e altre situazioni inadeguate, fanno di colpo apparire la situazione patologica. Purtroppo in questi casi la risposta più comune alla crisi è una chiamata alla polizia o un invio ad un pronto soccorso ospedaliero. La persona rimane senza risposte adeguate e si innesca una spirale di gravità.

Cosa prevede la normativa vigente

Ambedue i casi hanno bisogno innanzitutto di un supporto finanziario che nella norma vigente è rappresentato dall'assegno di accompagnamento. Esso dovrebbe consentire di corrispondere un emolumento ad una persona che si prenda cura dell'ammalato, nel primo caso alleviando il carico assistenziale del caregiver primario (il coniuge); nel secondo caso, essendo l’unico sostegno che consenta di mantenere al proprio domicilio la persona malata.

Il supporto farmacologico, per lo stadio di malattia durante il quale ne è dimostrata l'efficacia, è assicurato per adesso dal Progetto Cronos tramite la valutazione delle oltre 500 Unità di Valutazione Alzheimer presenti sul territorio nazionale.

In questo momento "storico" stanno nascendo i Centri Diurni di sollievo, promossi dai Comuni tramite protocolli di intesa con le ASL e, soprattutto nel Nord, letti di sollievo per i momenti di crisi con Nuclei specifici nelle RSA.

La sensibilizzazione che c'è stata negli ultimi anni verso la malattia di Alzheimer comporta la ricerca di nuove soluzioni, che comunque devono avere come centro di proposte concrete il domicilio del paziente, che rappresenta per lui il luogo più adatto e più efficace delle cure.

Una storia

A.F. è una professoressa universitaria di 68 anni, vedova con una figlia che vive all’estero. Scrive libri ed é molto impegnata nel lavoro con gli studenti. La figlia rientra a casa, preoccupata dalle ultime lettere della madre che denotano un cambiamento di calligrafia, con impoverimento del linguaggio di solito molto fluido, e segni di incongruenza emotiva. La madre nega ogni cambiamento, attribuendo dimenticanze ed errori al suo impegno totale nella stesura dell’ultimo libro, in realtà appena abbozzato. Un confronto con il preside di facoltà conferma che gli studenti hanno notato un cambiamento di personalità nella professoressa, che ora fa spesso dello spirito, anche con allusioni di tipo sessuale, comportamenti mai verificati in passato.

La figlia, che cerca di parlarne con lei, viene accusata di gelosia e di malanimo.

Dopo sei mesi, a una seconda visita della figlia, si presenta una situazione molto peggiorata: la malata diserta l’università, a suo dire per scrivere il libro, e vive una condizione di barbonismo, chiusa in casa in mezzo ai rifiuti. Si oppone ad aiuti domiciliari e a ricoveri in casa di riposo. Accetta però una terapia farmacologica dallo specialista, che ha saputo conquistare la sua fiducia in un lungo colloquio, perché vuole "riacquistare la memoria" per scrivere il libro. La terapia farmacologica somministrata è duplice, a impatto cognitivo e comportamentale, ed ottiene un discreto effetto positivo, sull’aggressività della paziente verso la figlia, che negli ultimi tempi neppure veniva riconosciuta come tale. Ciò consente di convincere la malata a seguirla in Canada, dove ella vive, e dove esistono strutture di accoglienza specialistiche di ottimo livello assistenziale per questo tipo di malati.

Un caso iniziato male, con un deterioramento a progressione rapida, che si può dire "finito bene", grazie sì ad un singolo intervento specialistico appropriato nel nostro Paese, ma soprattutto grazie all’offerta di una buona organizzazione di cure altrove.

2.3.3 Artrite reumatoide

L’artrite reumatoide, una delle malattie croniche meno conosciute, è patologia grave, ad alto potenziale invalidante, pur se ad essa non sono stati ancora interamente riconosciuti i connotati di malattia sociale.

Osservazioni di carattere epidemiologico

Circa il 10% della popolazione italiana è affetto da una malattia reumatica. Di questo 10%, il 7,4 – equivalente a circa 400.000 casi – soffre di artrite reumatoide.

La malattia colpisce a tutte le età, dalla primissima infanzia ( artrite giovanile) alla vecchiaia ( artrite senile), con una maggiore frequenza nella fascia dai 40 ai 50 anni e con una netta prevalenza nel sesso femminile.

Costo economico della malattia

Costi diretti. Difficile quantificare con precisione, nel "cantiere a cielo aperto" che è da tempo la sanità del nostro paese, i costi per la cura a carico del cittadino affetto da artrite reumatoide, costi d’altronde diversi – per i noti motivi – da regione a regione.

Per i farmaci, segnaliamo che – oltre ai ticket, dove esistono – sono a totale carico del paziente : un cortisonico ( il deflazacort) largamente diffuso nella cura dell’artrite, tutti gli antiosteoporotici (a meno che non si abbia già una frattura – e il costo medio mensile per una terapia è di circa 50 euro), alcuni antianemici, gli antiacidi, tutti i colliri e le lacrime artificiali (meno la specialità "Siccafluid") necessari alla cura delle complicanze oculari.

Inoltre, dopo l’entrata in vigore dei LEA, la Moc è a parziale carico dell’interessato e alcune pur importanti prestazioni di terapia riabilitativa, che il Regolamento sulle malattie croniche aveva esentato dal ticket, sono a totale carico:

Costi indiretti. Difficilmente calcolabili le spese - a carico del paziente e dei suoi familiari -necessarie a far fronte alla gestione quotidiana del malato e alla esigenza di aiutarlo nello svolgimento delle normali attività quotidiane. Da rilevare che la progressiva perdita di funzionalità delle articolazioni colpite rende spesso indispensabile l’aiuto di un collaboratore domestico o di un accompagnatore.

Si ritiene, comunque, che l’entità complessiva annua delle spese in questione superi il miliardo di euro.

Impatto sociale e psicologico

Può risultare drammatico. La progressiva compromissione delle articolazioni e le limitazioni conseguenti rendono via via più complicati o impossibili anche i semplici gesti quotidiani (simbolica l’impossibilità di farsi un caffè, per il fatto di non poter aprire o stringere la "moka"…), fino alla perdita vera e propria di autonomia . Diventa difficile o impossibile proseguire nell’attività lavorativa o nella gestione della casa; si complicano i rapporti familiari e sociali in genere; interviene incertezza e paura del futuro. Si aggiunga il dolore fisico, sempre in agguato, la complessità delle terapie e dei controlli, i costi a carico del paziente , ecc. e si riuscirà facilmente ad intuire come l’artrite reumatoide provochi ripercussioni drammatiche sul piano personale e su quello sociale.

Il ruolo della prevenzione

Per l’artrite reumatoide la prevenzione non può che essere secondaria e terziaria. Allo stato, la prevenzione secondaria (rapido iter diagnostico ed approccio terapeutico adeguato) è ostacolata da problemi inerenti alla generale disinformazione sulla malattia, alla "irrazionale" distribuzioni sul territorio dei centri specialistici, alle difficoltà di accesso ad alcune terapie farmacologiche. La prevenzione terziaria è sostanzialmente inesistente (assenza di centri finalizzati al recupero dei malati di artrite).

Questi i principali obiettivi da raggiungere in tema di prevenzione:

1) aumento e potenziamento delle strutture specialistiche sul territorio;

2) accesso a tutti i farmaci necessari al rallentamento dell’evoluzione di una malattia che è cronica ed invalidante;

3) diffusa informazione (rivolta ad opinione pubblica, responsabili politici, amministratori, programmatori, operatori sanitari) sulla malattia, sulle possibili complicanze, sulla necessità di sottoporre quanto più rapidamente possibile il paziente ad adeguata terapia per ritardare o allontanare l’insorgenza degli esiti invalidanti.

Le questioni fondamentali

Possono così essere riassunte:

a) accesso all’assistenza ( tipologia della struttura specialistica destinata ad accogliere il malato di artrite reumatoide – aspetti logistici e dell’accoglienza – coordinamento tra i settori coinvolti; liste d’attesa; erogazione dei farmaci; possibilità di accedere alla terapia riabilitativa);

b) riconoscimento dell’invalidità (modifica nella composizione delle Commissioni giudicanti-revisione delle percentuali di invalidità previste per la patologia).

Due casi tipici

Caso A

La signora "X" ha la sventura di ammalarsi di artrite. Lei, che vede tutte le trasmissioni televisive in cui si parla di salute e legge ogni trafiletto di giornale, non sospetta, ignorandone l’esistenza, che possa trattarsi di quella malattia. Comincia – scavalcando il medico di medicina generale ( ma talora, per fortuna raramente, ciò accade con l’accordo di quest’ultimo)- un tour tra specialisti vari, ricevendo ipotesi di diagnosi le più disparate. A parte l’ansia data dall’incertezza sulla sua malattia, "X" finisce così con l’arrivare ad una diagnosi di artrite reumatoide avendo perso troppo tempo.

Il suo percorso ad ostacoli : non è peraltro finito. Non avendo nella sua città una struttura specialistica , è costretta a faticosi, e costosi, spostamenti. Infine , può non riuscire ad ottenere dalla propria regione l’erogazione dei farmaci biologici contro l’artrite, pur giudicati nel suo caso necessari.

Caso B

Il sig. "Y", con un’artrite reumatoide che gli ha prodotto evidenti danni articolari, chiede il riconoscimento dell’invalidità. Nella Commissione giudicante – nella quale non è prevista la presenza dello specialista reumatologo – nessuno conosce a fondo la malattia , le sue implicazioni , il suo carattere evolutivo. E dunque, ad "Y" viene riconosciuta – per bene che vada – una invalidità derivante da tabella che fissa, "ingessa", per l’artrite reumatoide, una percentuale che non attiene ad una valutazione dinamica e complessiva del danno funzionale prodotto dalla malattia.

Cosa prevede la normativa vigente

Caso A

Decreto ministeriale 24 maggio 2001 " Studio osservazionale Antares", che ha reso obbligatorio su tutto il territorio nazionale il protocollo di monitoraggio per la cura dei malati di artrite reumatoide con farmaci biologici antiTNA-alfa. Lo Studio Antares riserva a centri di riferimento specialistici, precedentemente individuati, la somministrazione delle innovative terapie biologiche, classificate in fascia H, e precisa i criteri di inclusione dei pazienti nel programma di somministrazione (l’aver già eseguito, senza risultati apprezzabili, una terapia tradizionale con immunosoppressori). Peraltro, il meccanismo di rimborso – dalle regioni alle aziende ospedaliere o alle ASL da cui i centri selezionati dipendono- e l’inadeguatezza dello stesso, ha di fatto rallentato o bloccato, in alcune regioni, il progetto.

Caso B

Le Commissioni di invalidità sono composte da un medico legale che svolge le funzioni di presidente e da due medici, di cui uno scelto prioritariamente tra gli specialisti della medicina del lavoro. Non esiste alcuna norma, cioè, che obblighi alla presenza dello specialista reumatologo tra i membri della Commissione, in caso di esame di richiesta avanzata da un malato di artrite reumatoide.

Proposte concrete di soluzione

Caso A

Decentramento periferico di strutture specialistiche – Gratuità dei farmaci indispensabili alla cura dei malati di artrite (dagli antinfiammatori non steroidei ai cortisonici, ai gastroprotettori, agli antiosteoporotici, ai colliri,alle pomate, ecc.); erogazione degli anti TNF-alfa a tutti i malati di artrite che, in base al decreto ministeriale "Studio Antares", possono accedere alla terapia.

Caso B

Inserimento nelle Commissioni di invalidità dello specialista reumatologo quando si tratti di esaminare la richiesta avanzata da un malato di artrite reumatoide – Revisione delle tabelle sulle. percentuali di invalidità.

2.3.4 Asma (A cura di M.A. Franchi, Federasma)

L’asma è una malattia infiammatoria cronica delle vie respiratorie nella quale giocano un ruolo numerose cellule. L’infiammazione cronica determina un aumento della responsività bronchiale che induce episodi ricorrenti dispnea, di respiro sibilante, senso di costrizione toracica e tosse specialmente di notte e/o o al mattino presto. Questi sintomi sono di solito associati ad una ostruzione bronchiale variabile, spesso reversibile spontaneamente o dopo trattamento farmacologico (Progetto Mondiale Asma, versione aggiornata 2002).
 
 

Chi ha l'asma, se sotto controllo, deve poter condurre una vita del tutto normale. In nessun modo dovrebbe vedere compromesso il proprio stile di vita a causa della malattia, né dovrebbe essere condizionato dal contesto sociale ed ambientale in cui vive.

Sebbene non sia ancora possibile guarire l’asma, è ragionevole aspettarsi di ottenere e mantenere il controllo della malattia nella maggior parte dei casi.

Controllare la malattia significa ridurre al minimo i sintomi cronici, (compresi i sintomi notturni), le riacutizzazioni e l’uso di farmaci al bisogno, azzerare i ricorsi alla medicina d’urgenza e consentire al paziente una normale attività quotidiana.

L’accesso al trattamento farmacologico raccomandato dalle linee guida internazionali basate sulle evidenze e sulle più recenti acquisizioni scientifiche internazionali, costituisce la garanzia per il miglioramento delle condizioni di salute e della qualità della vita dei pazienti e, di conseguenza, per la riduzione dei costi totali di tali patologie.

Osservazioni di carattere epidemiologico

In base alle stime attuali, tra il 3% e l’8% della popolazione italiana soffre di asma. Secondo alcuni studi epidemiologici, un bambino su dieci ha sintomi asmatici.

I decessi per asma sono stati 1.242 nel 1998 (Fonte: ISTAT). Gli specialisti considerano che tutte le morti in età giovanile sono evitabili.

Non si conoscono differenze particolarmente significative tra regioni e zone geografiche.

E’ stata ipotizzata una maggiore incidenza, gravità e mortalità nei ceti sociali più svantaggiati. Questo potrebbe essere spiegato dalle diverse condizioni di vita e dalla diversa qualità dell’ambiente domestico, ma anche dalle diverse possibilità di accesso all’assistenza medica, all’informazione e all’educazione.

L’asma è una malattia molto complessa. Ancora oggi non se ne conoscono completamente le cause. I ricercatori di tutto il mondo ritengono che vi sia una predisposizione genetica, sulla quale agiscono fattori ambientali ancora non del tutto identificati. Al contrario, si conoscono molti fattori, cosiddetti fattori scatenanti, che possono aggravare l’asma o scatenare una crisi vera e propria. I più comuni sono:

• gli allergeni, tra cui i principali sono acari della polvere, pollini, peli e piume di animali;

• le infezioni, le più comuni infezioni virali dell’apparato respiratorio (per esempio il raffreddore o l’influenza) sono la causa più frequente di esacerbazione e di scatenamento di crisi;

• l’attività fisica (asma da sforzo);

• le medicine (aspirina ed altri farmaci antinfiammatori non steroidei);

• gli agenti sensibilizzanti di origine professionale (asma professionale);

• gli ormoni sessuali femminili (situazioni particolari sono quelle della donna in gravidanza e in menopausa);

• gli alimenti (l’asma da alimenti è tuttavia rara);

• il fumo, attivo e passivo.

L’asma è una malattia sottovalutata dal paziente stesso e a volte dai medici. Questo causa il cosiddetto fenomeno del sommerso:

• una persona con asma su tre non è diagnosticata, cioè non sa di essere asmatica, e sfugge al controllo medico;

• il periodo che va tra la comparsa dei primi sintomi e la diagnosi è ancora di 4/5 anni;

• anche in presenza di una diagnosi precisa, solo una percentuale bassa dei pazienti ha la capacità di gestire la malattia correttamente, ed in generale l’aderenza alle prescrizioni e alle raccomandazioni del medico è molto scarsa;

• non sempre l’asma si presenta con forme gravi. In questi casi, così come in presenza di crisi o di riacutizzazioni, il paziente è più facilmente portato a seguire le cure con molta attenzione, anche in modo continuativo e regolare. La maggioranza degli asmatici invece è affetta da una forma lieve di asma, e quindi si adatta più facilmente alla sua condizione, sottovalutando i rischi che la malattia presenta e soprattutto la possibile comparsa di crisi che possono anche essere fatali.

Costo economico della malattia

Nel 1997, il costo totale dell’asma è risultato pari a 2.246 miliardi di lire (Indagine Euroasthma).

Il costo medio per paziente è risultato di 1,7 milioni di lire.

I costi diretti totali sono stati stimati a 2.056 miliardi (di cui il 63,8% per i ricoveri ospedalieri).

I costi indiretti sono stati calcolati considerando soltanto le giornate lavorative perse dal lavoro da asmatici adulti tra i 19 e i 59 anni utilizzando il valore unitario di Lire 200.000 per giornata lavorativa. Essi ammontavano a 189 miliardi.

In uno studio più recente (Indagine multicentrica ISAYA, Italian Study on Asthma in Young Adults), condotto nel 1998-2000 in 11 città italiane sull’impatto socio-economico dell’asma nei giovani adulti (20-44 anni), il costo medio per paziente è stato stimato a 1,6 milioni di lire. I costi diretti rappresentano meno del 40% del costo totale, mentre la parte restante deriva dalla perdita di produttività e dalla perdita di tempo libero. I costi diretti dipendono principalmente dal consumo dei farmaci (45%).

Come negli altri paesi, anche in Italia i costi aumentano con l’aumentare della gravità della patologia e con il suo mancato controllo.

L’indagine Euroasthma stima il costo medio per paziente in base alla gravità della malattia tra 1,5 e 2,0 milioni di lire. Nell’indagine ISAYA la forbice va da 1,2 a 3,7 milioni di lire. Le differenze sono evidentemente dovute a motivi tecnici e metodologici.

Nelle indagini citate non sono stati presi in considerazione i costi intangibili. Com’è noto questi costi dipendono dalla gravità della malattia e dall’età del paziente e si traducono in un deterioramento della qualità della vita.

Impatto sociale e psicologico

Le più recenti indagini effettuate a livello europeo e a livello nazionale confermano una scadente qualità della vita del paziente asmatico, che si accompagna a sofferenze individuali spesso sottovalutate dal medico curante e dall’entourage quotidiano del normale ambiente di vita, di scuola, di lavoro.

L’asma costituisce un limite allo svolgimento delle normali attività quotidiane per circa il 70% degli asmatici: attività sportive e ricreative (41%), esercizio fisico (37%), stile di vita (30%), attività sociali (19%). Più di un asmatico su tre lamenta disturbi del sonno, con conseguenti assenze dal lavoro o dalla scuola, nonché difficoltà per il normale esercizio dell’attività professionale e per l’apprendimento scolastico (Fonte: AIRE -Asthma Insights and Reality in Europe, 1999).

Il 60% circa degli asmatici (adulti o bambini) considera di non potere fare cose che invece sono possibili alle persone asmatiche (Fonte: Asma in realtà, 2000).

L’asma ha anche un forte impatto sulle famiglie. La principale preoccupazione dei genitori (uno su quattro) è che il bambino sia esposto al fumo di tabacco, polveri o altri fattori che possono causargli una crisi, oppure che il bambino possa trovarsi in una situazione (a scuola, in casa di familiari o amici, ecc.) in cui gli altri non sappiano cosa fare nell’eventualità di crisi. Particolarmente temuti sono i fattori ambientali in occasione di gite, vacanze e viaggi. L’asma è inoltre temuta a causa dell’imprevedibilità delle crisi, dei possibili effetti secondari dei farmaci, soprattutto a lungo termine, e delle conseguenze sul rendimento scolastico. Un elevato numero di genitori (46%) percepisce l’asma del proprio figlio come fattore di stress e si dichiara iperprotettivo (39%). Infine, i genitori considerano che l’asma possa influire negativamente sui bambini inducendo preoccupazione e paura di non poter correre, giocare, fare sport, ecc. come i loro compagni o provocando collera o altri sentimenti di disagio (Fonte: Parents of Children with Asthma, 1999).

Aspetti psicologici della malattia

L’asma non è una malattia psicosomatica e considerala tale significa semplificare in modo eccessivo il problema e rischia di farne trascurare gli aspetti essenziali. I fattori psicologici non possono indurre l’asma o peggiorare la malattia.

Si può tuttavia constatare che chi ha l’asma è spesso emotivo, insicuro ed angosciato sia per le manifestazioni della malattia sia per i problemi legati alla terapia.

Un’indagine svolta in Francia sulla qualità della vita dei pazienti con asma e rinite allergica ha preso in considerazione tutti gli aspetti relativi allo stato generale di salute: funzionalità fisica, possibilità di svolgere normalmente la propria attività professionale, presenza o assenza di dolore, percezione del proprio stato di salute, presenza o assenza di energia/vitalità, capacità di avere normali attività sociali, equilibrio emozionale e salute mentale. I risultati hanno messo in evidenza che chi ha l’asma o la rinite allergica presenta livelli di qualità della vita, peggiori rispetto a quelli dei soggetti sani per ognuna delle caratteristiche considerate.

Il ruolo della prevenzione

Gli obiettivi da raggiungere sono i seguenti:

I - Prevenzione primaria

• Diminuire, ove possibile, l’esposizione ai principali fattori di rischio noti, in particolare l’esposizione ad agenti sensibilizzanti di origine professionale.

II - Controllo dell’asma in atto

• Diagnosi precoce e corretta diagnosi differenziale attraverso la diffusione capillare della spirometria, anche da parte dei Medici di Medicina Generale.

• Diffusione capillare a livello nazionale di un corretto trattamento farmacologico, secondo il Progetto Mondiale Asma, versione aggiornata 2002.

• Diffusione capillare a livello nazionale della vaccinazione antiinfluenzale annuale.

• Diffusione capillare a livello nazionale dell’uso di pulsossimetri, di misuratori di picco di flusso espiratorio (PEF) e di distanziatori in tutti i pronti soccorsi e gli ospedali.

III - Educazione del personale sanitario e dei pazienti

• Divulgazione ed implementazione tra il personale sanitario delle linee guida dell’OMS per la diagnosi ed il trattamento dell’asma bronchiale (Progetto Mondiale Asma) attraverso corsi di formazione specifici per il personale sanitario, in particolare per i medici di Medicina Generale, i medici del pronto soccorso, ed il personale infermieristico degli ospedali.

• Corsi di educazione per i pazienti ed i loro familiari (Scuole dell’Asma) per aumentare l’aderenza (compliance) del malato alle prescrizioni e raccomandazioni del medico curante.

Le principali Campagne di sensibilizzazione svolte nel corso dell’anno:

• Giornata Mondiale dell’Asma (7 maggio 2002);

• Giornata Nazionale del Respiro (25 maggio 2002);

• Giornata Mondiale contro il tabacco (31 maggio 2002).

Le questioni fondamentali

I - Piano Sanitario Nazionale e Piani sanitari Regionali:

a) inserimento dell’asma bronchiale e delle allergie tra le patologie sociali;

b) definizione degli obiettivi quantitativi volti a:

• ridurre la prevalenza dell'asma in particolare dell’asma professionale;

• ridurre le perdite di giornate lavorative e le assenze dalla scuola e di conseguenza i costi socio-economici che gravano sui pazienti, i loro familiari e la società;

• ridurre l'incidenza delle forme di asma grave persistente;

• Ridurre il numero di ricorsi al Pronto Soccorso e di ricoveri ospedalieri, in particolare quelli che si ripetono nel tempo;

• Prevenire le morti per asma (quelle che gli specialisti definiscono "evitabili").

II - Tutela dell’asmatico

a) Gratuità e parità all’accesso dei farmaci raccomandati dalle linee guida internazionali sull’asma (Progetto Mondiale Asma, versione aggiornata 2002);

b) gratuità delle spese per la diagnosi ed il monitoraggio della malattia. Attualmente ciò è possibile, dato che l’asma figura nell’elenco ministeriale delle malattie croniche ed invalidanti (Decreto Ministeriale 28 maggio 1999, n. 329 "Regolamento recante norme di individuazione delle malattie croniche e invalidanti, ai sensi dell’art.5, comma 1, lettera a) del Decreto Legislativo 29 aprile 1998, n.124" (G.U. 226, del 25/9/1999) che elenca le condizioni di malattia croniche ed invalidanti che danno diritto all’esenzione dalla partecipazione al costo per le prestazioni di assistenza sanitaria correlate. Le informazioni da parte dei medici di famiglia (e da parte delle ASL) sull’esenzione sono del tutto insufficienti e necessitano di campagne ad hoc;

c) revisione della normativa in materia di invalidità, con adattamento delle disposizioni vigenti. Il D.M. del 2/2/92, pubblicato nella G.U. n. 47 del 26/2/1992 fornisce i seguenti valori:

• asma allergico, da un minimo di 21 ad un massimo di 30 punti;

• asma intrinseco, 35 punti;

• bronchite asmatica cronica, 45 punti;

• malattia polmonare ostruttiva cronica;

• prevalenza bronchite, 75 punti;

• prevalenza enfisema, 65 punti.

E’ evidente che le definizioni seguite necessitino di un aggiornamento, per tenere conto delle linee guida internazionali, in termini di definizione e di classificazione secondo i livelli di gravità.

III. L’asma a scuola

Anche a scuola il bambino deve poter condurre una vita normale come i suoi coetanei e, per questo, occorrono misure che garantiscano il suo diritto all’istruzione, attraverso l’integrazione, il sostegno pedagogico e l’assistenza sanitaria.

L’asma e le allergie sono malattie croniche, che richiedono cure regolari e continue e, frequentemente, il ricorso alla medicina d’urgenza. I fattori che possono scatenare la malattia o aggravare i sintomi sono numerosi e variano da bambino a bambino. Anche i sintomi, la loro frequenza e gravità, variano da bambino a bambino; inoltre, nella maggior parte dei casi, le crisi sono imprevedibili. Di conseguenza, oltre a norme di carattere generale, occorre prevedere modalità di accoglienza e d’intervento che tengano conto della diversità delle situazioni individuali.

Un programma di informazione e di formazione dovrebbe essere previsto per gli insegnanti che devono conoscere la malattia per essere in grado di aiutare il bambino a gestirla anche a scuola, per il personale addetto alla mensa ed ai servizi di ristorazione, soprattutto per quanto concerne le allergie alimentari, nonché per il personale addetto alla pulizia ed alla manutenzione.

La scuola deve assicurare un ambiente sano ed una buona qualità dell’aria per studenti e personale. Per questo, tra gli interventi per la sicurezza e la protezione della salute, devono essere predisposti i necessari interventi relativi all’adattamento delle condizioni ambientali alle esigenze specifiche dei bambini asmatici ed allergici. Occorre considerare che un’aria accettabile per loro, lo è per tutti gli altri.

Cosa prevede la normativa vigente

Il Ministero della Salute ha costituito nel 1998 la Commissione tecnico-scientifica per l'elaborazione di proposte di intervento preventivo e legislativo in materia di inquinamento "indoor", che ha elaborato le "Linee Guida per la tutela e la promozione della salute negli ambienti confinati" pubblicate nella G. U. del 27 novembre 2001, N.252.

Nell’ambito di questa Commissione, è stato costituito il Gruppo di Lavoro "Allergie" che ha formulato criteri per il controllo di qualità dell'aria indoor, relativamente al rischio allergologico negli ambienti domestici e pubblici, ed ha elaborato una proposta di un programma specifico per le scuole. Il Gruppo di Lavoro ha individuato per ognuno di questi obiettivi misure appropriate per assicurarne la realizzazione e possibili interventi in funzione dei vari livelli di responsabilità.

E’ importante che queste direttive siano tradotte in azioni concrete sul territorio.

L’asma ed il lavoro Tratto da M. Franchi, A. Sini, Respiriamo a pieni polmoni, JGC edizioni, 2001.

Gli aspetti fondamentali sono due:

a) Asma professionale (asma indotta da agenti sensibilizzanti di origine professionale).

Rappresenta il 5-10% delle forme dell’asma dell’adulto. La legislazione è stata rivista di recente. La principale conseguenza della diagnosi di asma professionale è rappresentata dall’allontanamento del lavoro dall’agente che provoca la malattia. Di conseguenza, nella maggiore parte dei casi il lavoratore si vede costretto ad abbandonare il proprio lavoro, mentre laddove possibile dovrebbe essere ricollocato in una zona priva di rischi o indennizzato in tutto il periodo durante il quale cerca un’altra attività e comunque dovrebbe essere seguito da un organo ufficiale verso il nuovo lavoro.

b) Asma preesistente aggravata dall’ambiente di lavoro. Non esiste una legislazione specifica che tuteli il lavoratore asmatico che incontri rischi di aggravamento o peggioramento della malattia a causa di una determinata attività professionale o di un determinato luogo di lavoro. Anche la legge 626 è del tutto insufficiente. Non esiste inoltre nessuna disposizione che preveda un’indennità professionale in questi casi. Si potrebbe ricorrere ad una valutazione previdenziale in materia di invalidità civile, con i limiti che queste disposizioni presentano nel caso di asma bronchiale.

Storia di un paziente

Esistono numerose testimonianze di personaggi famosi (Proust, Che Guevara, …) e gente comune.

Quella che segue è la storia di un bambino di 11 anni7:
Il mio " fant’asma" è uno di quelli con tutte le carte in regola: malvagio, dispettoso ed invisibile.Con il suo corpo impalpabile ha costruito intorno a me una gabbia e mi tiene prigioniero dentro di sé.

A volte allontana da me tutte le sue sbarre e mi da l’illusione di essere libero: altre volte invece la sua gabbia si restringe a tal punto che quelle sbarre invisibili diventano come di piombo e premono forte sul mio corpo.

In quei momenti qualsiasi cosa diventa difficilissima, poiché i polmoni mi dolgono e per quanto mi sforzi di fare entrare aria, questa rimane in bocca, senza riuscire a passare per la gola.
 
 

Anche parlare o piangere è impossibile, perché l’alito di fiato che mi resta, basta a malapena per respirare.

Il "fant’asma" in quei momenti è enorme e mi schiaccia con il suo peso.

2.3.5 BPCO – Broncopneumopatia Cronica Ostruttiva (A cura di M.A. Franchi, Federasma)

La broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) è un problema sanitario, di cui si parla molto poco nel nostro paese. Si tratta di una malattia poco "visibile", nonostante si registri una prevalenza elevata e un’incidenza in aumento ed abbia un decorso clinico cronico, in genere progressivo, irreversibile ed invalidante.

La BPCO è una malattia cronica caratterizzata da ostruzione del flusso aereo che non è completamente reversibile. Questa ostruzione è in genere progressiva ed associata ad una anormale risposta infiammatoria delle vie aeree inferiori, all’inalazione di agenti nocivi, in particolare il fumo di tabacco (Gold 2001) (Global Initiative for Chronic Obstructive Lung Disease, Organizzazione Mondiale della Sanità e Istituto Statunitense per le Malattie Polmonari, Cardiache e del Sangue, 2001).

La BPCO può essere prevenuta riducendo l’esposizione ai fattori di rischio (principalmente il fumo di tabacco).

Attualmente dalla BPCO non si può guarire, tuttavia i trattamenti a disposizione permettono al paziente di avere una migliore qualità della vita, in particolare se si può ridurre il numero di riacutizzazioni e la loro gravità. Le riacutizzazioni delle BPCO rappresentano infatti la principale causa di morbilità e mortalità e la maggiore parte della spesa sanitaria totale.

Osservazioni di carattere epidemiologico

Secondo l'ultimo rapporto annuale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel mondo vi sono circa 600 milioni di persone che sono affette da BPCO ed ogni anno circa 3 milioni di morti. Nel 2020 la BPCO sarà la terza causa di morte, dopo le cardiopatie e gli accidenti cerebrovascolari. Nel 1990 l’OMS aveva attribuito alla BPCO il 12° posto per impatto sociale (somma degli anni persi a causa della prematura mortalità e degli anni di invalidità, secondo il loro grado di gravità), mentre ora stima che entro il 2020 passerà al 5° posto.

In Italia, in base ai dati ISTAT, la BPCO colpisce più del 5% della popolazione. I dati di mortalità indicano che nel 1998 vi sono stati 17.292 decessi per BPCO in Italia.

Secondo l’UIP-Unione Italiana per la Pneumologia solo il 25% dei pazienti è diagnosticato e curato.

L’80% delle BPCO sono causate dal fumo di tabacco. L’incidenza della BPCO è più elevata tra i fumatori che tra i non fumatori.

Non vi è alcun dubbio che il più importante fattore di rischio per la BPCO è l’abitudine al fumo di tabacco e specialmente di sigarette. L’inalazione di fumo passivo espone egualmente al rischio di BPCO, seppure in minore misura rispetto al fumo attivo.

L’esposizione a contaminanti ambientali nel luogo di lavoro può favorire la BPCO indipendentemente dal fumo di sigarette, ed ha anche un effetto additivo a quello del fumo di sigarette. Altri fattori di rischio che possono aggravare la malattia sono: inquinamento ambientale all’esterno e nei luoghi interni, esposizione al fumo passivo, infezioni virali respiratorie, fattori socio-economici.

Poiché non tutti i fumatori vanno incontro alla BPCO, vi debbono essere altri fattori che interagiscono con la genesi della malattia, oltre al fumo di tabacco. Probabilmente differenze genetiche possono spiegare la diversa incidenza e gravità della BPCO in fumatori che sono simili, per durata e quantità di abitudine al fumo di sigarette, e l’insorgenza della malattia nei non fumatori.

Costo economico della malattia

La BPCO ha un forte impatto socio-economico a causa del fatto che è una malattia cronica progressiva ed invalidante.

Ciononostante in letteratura si trovano ben pochi studi sui costi diretti ed indiretti della malattia.

In Italia, le informazioni di cui si dispone sono le seguenti. La BPCO:

• richiede accertamenti periodici e cure continue e regolari. Nel 1999 si sono registrate 140.000 dimissioni ospedaliere, con una degenza media di 10,7 giorni degenza e si valutano a 20 milioni le visite annue.

• è causa di assenze dal lavoro e di abbandono dell'attività professionale. Si stima che le giornate lavorative perse a causa della BPCO siano più di 10 milioni.

• ha gravi conseguenze anche psicologiche sul malato.

• pesa fortemente sulla famiglia, da ogni punto di vista.

A causa della BPCO, si registrano in Italia 30.000 casi di insufficienti respiratori in ventiloterapia o ossigenoterapia a lungo termine.

Impatto sociale e psicologico

La prima indagine volta a misurare l’impatto della BPCO è stata svolta nel periodo 2000-2001 su un campione di 3.265 pazienti negli Stati Uniti, in Canada e in sei paesi europei (Francia, Germania, Italia, Olanda, Spagna e Regno Unito).

L’indagine, denominata "Confronting COPD in North America and Europe" ha fornito dati sui disagi vissuti dal paziente e sui i limiti per lo svolgimento delle normali attività quotidiane e la conseguente scarsa qualità della vita, nonché l’impatto dovuto agli elevati costi socio-economici.

I risultati più significativi sono i seguenti:

• La BPCO non è solo una malattia "dei vecchi" ma colpisce un gran numero di persone al di sotto di 65 anni (in Italia, un intervistato su quattro appartiene alla classe di età 45-54 anni).

• Le difficoltà respiratorie causano limiti significativi in molti campi della normale vita quotidiana. La mancanza di respiro interferisce con i più semplici gesti giornalieri, come vestirsi, lavarsi, parlare ecc., può causare disturbi del sonno e può indurre un progressivo stato di invalidità.

• Una caratteristica costante in tutti i paesi è rappresentata da frequenti ricorsi al medico curante e al Pronto Soccorso, da ricoveri ospedalieri per le riacutizzazioni e da giornate perse dal lavoro, con conseguenti elevati costi socio-economici che gravano sul paziente, sulle famiglie e sulla società nel suo insieme.

• Medici e pazienti sono d’accordo sul fatto che negli ultimi anni sono disponibili migliori possibilità di trattamento della BPCO. I pazienti tuttavia sottostimano i propri sintomi e il livello di gravità, mentre sovrastimano il grado di controllo della malattia, e ciò indica quanto sia in generale inadeguata la gestione di questa patologia, con gravi conseguenze soprattutto sulla qualità della vita.

• Molti malati percepiscono negativamente l’atteggiamento del medico che, a causa della ormai ben dimostrata correlazione tra fumo e malattia, tende a considerare il paziente stesso primo responsabile dell’induzione della malattia. Anche questo fatto può incidere sulle possibilità di controllo ottimale della malattia.

• In generale gli intervistati sono molto soddisfatti dell’aiuto ricevuto dal loro medico per la gestione ed il trattamento della malattia (50%). Questa percentuale è tuttavia più bassa in Italia rispetto agli altri paesi (27%). In tutti i paesi, sia i pazienti sia i medici sono d’accordo sul fatto che occorre una maggiore educazione sulla BPCO e sul modo di gestirla e tenerla sotto controllo.

L’indagine identifica numerose barriere per una adeguata gestione della malattia e per il suo controllo ottimale, barriere che si situano a livello della diagnosi, del trattamento, del rapporto medico-paziente, dell’informazione e dell’educazione.

Il ruolo della prevenzione

I – Prevenzione primaria

• Campagne di informazione ed educazione dell’opinione pubblica per ridurre l’esposizione ai fattori di rischio in particolare il fumo di tabacco attivo (ed indirettamente anche quello passivo).

• Diffusione capillare a livello nazionale dei centri di disassuefazione dal fumo di tabacco.

II – Controllo della BPCO in atto

• Diagnosi precoce della BPCO, nei soggetti a rischio (fumatori di età superiore a 40 anni), prima dell’insorgenza dei sintomi, attraverso la diffusione capillare della spirometria, anche da parte dei Medici di Medicina Generale.

• Secondo l’indagine citata, nonostante le linee guida internazionali sulla BPCO raccomandino la spirometria come esame essenziale per la conferma dell’ostruzione bronchiale e quindi della diagnosi, una larga percentuale dei pazienti intervistati non ha mai effettuato questo esame nella sua vita. In Italia si registra la percentuale più alta (55%).

• Diffusione capillare a livello nazionale della vaccinazione antiinfluenzale (annuale) ed antipneumococcica.

• Diffusione capillare a livello nazionale della ossigenoterapia domiciliare per i pazienti che soddisfano i requisiti per la sua adozione.

• Diffusione capillare a livello nazionale della ventilazione meccanica non invasiva in tutti i pronti soccorsi e gli ospedali.

III – Educazione del personale sanitario e dei pazienti

• Divulgazione ed implementazione tra il personale sanitario delle linee guida dell’OMS per la diagnosi ed il trattamento della BPCO (Progetto Mondiale BPCO) attraverso corsi di formazione specifici per il personale sanitario, in particolare per i medici di Medicina Generale, i medici del pronto soccorso, ed il personale infermieristico degli ospedali.

• Corsi di educazione per i pazienti ed i loro familiari (Scuole della BPCO).

Le questioni fondamentali

L’Associazione Italiana Pazienti BPCO ha individuato le seguenti priorità:

a) Riconoscimento della BPCO come malattia cronica ed invalidante.

Il Decreto Ministeriale 28 maggio 199910, n. 329 "Regolamento recante norme di individuazione delle malattie croniche e invalidanti, ai sensi dell’art.5, comma 1, lettera a) del Decreto Legislativo 29 aprile 1998, n.124" (G.U. 226, del 25/9/1999) elenca le condizioni di malattia croniche ed invalidanti che danno diritto all’esenzione dalla partecipazione al costo per le prestazioni di assistenza sanitaria correlate.

Tra queste condizioni non figura la BPCO-Broncopneumopatia Cronica Ostruttiva. Si tratta di una esclusione dal nostro punto di vista del tutto incomprensibile, dato che la BPCO è una malattia cronica, progressiva ed invalidante, molto diffusa ed in crescita, con un impatto estremamente serio in termini di mortalità e in termini di costi umani, sociali ed economici.

b) Necessità di riconoscere la BPCO tra le patologie di specifico interesse nel Piano Sanitario nazionale e nei Piani Sanitari Regionali, con i seguenti obiettivi (quantitativi):

• riduzione della prevalenza e dell'aumento della BPCO;

• miglioramento della qualità della vita del paziente con BPCO e di conseguenza riduzione dei costi socio-economici che gravano sul paziente, i suoi familiari e la società;

• riduzione del numero delle riacutizzazioni e della loro gravità e quindi riduzione del numero di visite al Pronto Soccorso e del numero di ricoveri ospedalieri;

• riduzione del numero dei decessi.

BPCO e assistenza domiciliare

I pazienti denunciano spesso di essere dimessi troppo rapidamente dall’ospedale. Le riacutizzazioni di BPCO richiedono lunghi periodo di ricovero e di riabilitazione prima della stabilizzazione. Invece il paziente viene dimesso dall’ospedale troppo presto e, in assenza della necessaria assistenza domiciliare, deve ricorrere nuovamente al pronto Soccorso e ad nuovo ricovero ospedaliero .

Non sono disponibili statistiche sui ricoveri ripetuti.

10 Decreto Ministeriale 28 maggio 1999, n. 329 "Regolamento recante norme di individuazione delle malattie croniche e invalidanti, ai sensi dell’art.5, comma 1, lettera a) del Decreto Legislativo 29 aprile 1998, n.124" (G.U. 226, del 25/9/1999), modificato dal Decreto Ministeriale 21 maggio 2001 n. 296 "Regolamento di aggiornamento del Decreto Ministeriale 28 maggio 1999, n. 329…" (G.U. n. 166 del 19/7/ 2001).

BPCO e rapporto con il medico

In base alle disposizioni vigenti, al momento della dimissione il paziente con BPCO riceve i farmaci per il trattamento della malattia dal Reparto ospedaliero. Nel Lazio, è stato segnalato che i farmaci ricevuti dall’ospedale non sono stati condivisi dal medico curante, perché di vecchia generazione.Questo aspetto incide molto negativamente nella relazione medico e paziente, che deve essere basata assolutamente sulla fiducia.

Storia di un paziente

Le testimonianze dei pazienti sono molto simili. Nella maggior parte dei casi la prima reazione alla diagnosi di BPCO è la sorpresa e spesso la non accettazione del "verdetto" medico. La malattia è spesso diagnosticata tardivamente in quanto i pazienti, anche negli stadi più evoluti, possono essere asintomatici pur in presenza di una grave diminuzione della funzionalità respiratoria.

B. ha 68 anni e rifiuta ostinatamente di riconoscere di avere un problema respiratorio serio. Fuma da sempre e non intende smettere. Sottovaluta i sintomi (catarro e tosse) che si manifestano quotidianamente e continua a pensare di avere una normale qualità della vita, senza limiti, anche se, soprattutto negli ultimi anni, ha rinunciato completamente ad ogni attività sportiva.

Un intervento chirurgico lieve, ha scatenato una riacutizzazione grave con un lungo ricovero ospedaliero e una convalescenza resa difficile dalla riduzione della funzionalità respiratoria dovuta alla BPCO. B. ha ora smesso di fumare, e ha cominciato a prendere i farmaci prescritti dal suo medico curante.

2.3.6 CEFALEE (A cura di M.C. Luchetti, AIC.)

La cefalea è il tipo di dolore più frequente. Le forme più comuni di cefalea primaria sono due:

l’emicrania

• la cefalea tensiva

Le cause della cefalea sono multifattoriali:

• caratteristiche ereditarie (genetiche) predisponenti;

• stimoli interni ed esterni scatenanti

Osservazioni di carattere epidemiologico
 
 


Tab. 32. Prevalenza delle cefalee nella età adulta

non cefalalgici 
57 
emicrania 
12 
cefalea tensiva 
30 
cefalea a grappolo 
totale 
100 
 
 
 

fonte: elaborazione Cooordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici-Cittadinanzattiva su dati AIC, 2002

Con riferimento alla emicrania, sotto il profilo epidemiologico, possono essere fornite sinteticamente una serie di indicazioni:

• l’emicrania è una malattia diffusa in tutto il mondo;

• la razza non sembra essere un fattore importante;

• non è associata a classi sociali o livello d’intelligenza;

• ha una prevalenza più elevata nei membri delle famiglie di cefalalgici.

La prevalenza dell’emicrania in Italia è del 12%, con un andamento che può essere sinteticamente descritto come segue:

• prevale nel sesso femminile con un rapporto di 4:1;

• i primi attacchi iniziano nell’adolescenza;

• è più frequente nelle decadi centrali della vita con un picco tra i 21 ed i 54 anni;

• dopo i 60 anni la sua frequenza diminuisce (<5% a 70 anni).

La prevalenza del 12% è verosimilmente sottostimata a causa di:

1. false convinzioni e/o atteggiamenti sbagliati da parte dei medici in quanto:

• è considerato un problema troppo impegnativo e difficile da affrontare per il quale è necessario molto tempo per una corretta diagnosi;

• è considerato un problema di competenza specialistica;

• è scambiata per un semplice sintomo che il paziente può autogestire.

2. Comportamenti scorretti dei pazienti:

• iniziano autonomamente il trattamento;

• considerano il problema senza soluzione;

• evitano di parlare del "mal di testa" perché considerato solo un sintomo di natura consequenziale;

• decidono di consultare un medico solo per timore di essere affetti da altre patologie.

La qualità della vita nei pazienti cefalalgici. Si può dire che, complessivamente, essa è messa in discussione e compromessa da:

1. attacchi acuti di dolore responsabili di:

• assenza da lavoro e scuola;

• perdita del posto di lavoro;

• calo del rendimento;

• disfunzioni nella vita sociale e familiare.

2. Difficile periodo intercritico, caratterizzato essenzialmente dal timore di un nuovo episodio doloroso e dei disagi conseguenti.

La cefalea nella vita quotidiana. L’impatto sulla vita quotidiana è piuttosto pesante:

• il 90% deve rinunciare alle attività domestiche;

• il 76% deve restare a letto;

• il 67% avverte disturbi nello svolgimento delle attività quotidiane;

• il 54% vede compromesse le proprie relazioni familiari e sociali.

La cefalea nella famiglia.

Impatto sul coniuge:

• il 76% rinuncia ad attività previste;

• il 30% denuncia forti tensioni;

• il 24% dichiara di avere problemi sessuali.

Impatto sui figli:

• il 94% mostra evidenti difficoltà di gestione;

• il 22% denuncia carenza di attenzione;

• il 17% sviluppa ostilità.

La cefalea e il lavoro

• il 72% dichiara difficoltà nel normale svolgimento delle attività lavorative;

• il 67% è costretto spesso a cancellare appuntamenti e riunioni;

• il 50% è costretto ad assenze frequenti;

• il 45% richiede aiuto ai colleghi;

• il 15% subisce penalizzazioni in termini di sviluppo della propria carriera.

Impatto economico della emicrania

• più dell’80% dei pazienti soffre di qualche disabilità correlata alla cefalea;

• 1/3 dei pazienti è totalmente inabile durante la crisi;

• il 4% di tutte le visite mediche (>10 milioni) è conseguenza di cefalea;

• il 31% delle donne e il 17% degli uomini perde almeno 6 giorni di lavoro all’anno.
 
 


Tab. 33. Costi economici e sociali delle cefalee

Popolazione lavorativa generale 
30 milioni circa 
Hanno sofferto di cefalee nell’ultimo anno 
70%, 21 milioni circa 
Cittadini periodicamente soggetti ad episodi 

di cefalea 

8 milioni circa 
Cefalalgici cronici 
2 milioni circa 
Assenze lavorative per cefalea 
10%, pari a 2 milioni di lavoratori 
Giornate lavorative perse in un anno 

(minimo 6 giorni) 

12 milioni circa 
Costo economico annuale per perdita 

di giornate lavorative 

a causa di episodi di cefalea 

3.000 miliardi (€ 1.543.710,00). A questa cifra va aggiunta la perdita economica dovuta alla ridotta efficienza lavorativa di coloro i quali continuano a svolgere la propria attività pur in presenza di episodi di cefalea. 
Costo annuale per paziente (farmaci, 

visite mediche, indagini diagnostiche, 

ricoveri ospedalieri) 

2 milioni circa 
Spesa complessiva annuale per la 

popolazione italiana 

7.000 miliardi 
Spesa per farmaci sintomatici nelle cefalee 

in Italia (anno 1997) 

113 miliardi circa, corrispondenti a 12 milioni di confezioni vendute 
 
 
 

fonte: elaborazione Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici-Cittadinanzattiva su dati AIC, 2002

Da quanto indicato sia pure schematicamente dalla tabella precedente, si evince chiaramente che il danno arrecato da questa malattia alla vita familiare e di relazione è incalcolabile, soprattutto in relazione al sentimento di frustrazione e di sconfitta che spesso accompagna il paziente cefalalgico, e alla sua lenta emarginazione dal tessuto sociale ed affettivo.

Il ruolo della prevenzione

La prevenzione primaria è praticamente impossibile per la multifattorialità delle cause etiopatogenetiche e dei fattori scatenanti. E’ possibile, invece, la prevenzione secondaria e terziaria.

Gli strumenti da individuare sono quelli utili e necessari ad una diagnosi precoce e precisa e ad una appropriata educazione del paziente, delle famiglie e delle organizzazioni scolastiche. In questo modo si assicura, peraltro, anche il rispetto dei criteri di appropriatezza e di sostenibilità economica nell’erogazione delle prestazioni che deve sempre caratterizzare la utilizzazione dei servizi sanitari nazionali.

Le questioni fondamentali

1. Uniformità e standardizzazione dell’iter diagnostico e terapeutico su tutto il territorio nazionale:

• accreditamento di strutture specialistiche dedicate alla cefalea;

• maggiore informazione per i medici di medicina generale;

• elaborazione di linee guida riguardanti:

a. l’iter diagnostico strumentale;

b. i criteri di ospedalizzazione;

c. la utilizzazione appropriata di presidi terapeutici (farmaci, terapie convenzionali non farmacologiche, medicine alternative);

2. Valutazione dell’impatto sociale, lavorativo, assicurativo:

• riconoscimento della cefalea come malattia sociale;

• riconoscimento della validità della certificazione di malattia per giustificare l’assenza dal lavoro e regolamentazione delle visite fiscali;

• individuazione di criteri di valutazione medico–legale in ambito assicurativo, infortunistico (INAIL e privato), a fini di riconoscimento di invalidità civile e di cause di servizio;

• individuazione e accreditamento di strutture specialistiche idonee alle certificazioni.

Due casi tipici

Caso A

Paziente maschio di 27 anni, artigiano. Anamnesi negativa per cefalea e altre malattie neurologiche. Non familiarità per cefalea. Trauma cranico in occasione di incidente automobilistico con perdita di coscienza prolungata (circa 8 ore), ferita lacero-contusa cuoio capelluto, contusioni multiple. L’obiettività neurologica nel corso del ricovero d’urgenza successivo al trauma, documenta stato confusionale, positività del segno di Romberg e delle prove di funzione vestibolare. Rx cranio e CT encefalo negativi. EEG con lievi anomalie elettriche diffuse (scomparse al controllo a due mesi dal trauma). Esame vestibolare eseguito a 15 giorni dal trauma positivo per iporiflessia labirintica sinistra. Prove neuropsicologiche significative di deficit di attenzione e concentrazione.

A partire dalla prima settimana successiva al trauma riferisce cefalea subcontinua frontale, irradiata al vertice e, talora a tutto lo scalpo, di tipo costrittivo-gravativo, talora accompagnata da nausea e vertigini soggettive. Non segni neurologici associati. La cefalea diminuisce parzialmente con l’uso di farmaci sintomatici (FANS) ma non scompare mai del tutto. La cefalea persiste da oltre 3 mesi dal trauma e comporta depressione del tono dell’umore, insonnia iniziale, stato ansioso, modificazioni del comportamento. Non impedisce totalmente l’attività lavorativa e le relazioni sociali, ma ha comportato parziale perdita di occasioni di lavoro e peggioramento delle relazioni interpersonali ed affettive.

Più volte visitato dal medico di base ha osservato significativi periodi di riposo con ulteriore perdita di occasioni di lavoro. In seguito a visita presso un Centro Cefalee riconosciuto è stata diagnosticata Cefalea Post-traumatica cronica secondo i criteri diagnostici della IHS (1998). In sede di visita da parte del Fiduciario medico della Compagnia Assicurativa al fine del riconoscimento degli esiti del trauma cranico non viene riconosciuta la sussistenza di postumi stante la negatività degli esami neuroradiologici e la soggettività della sindrome dolorosa, nonostante le certificazioni e le relazioni redatte dai medici del Centro Cefalee. Stesso esito subisce l’iter avviato presso l’INAIL per il riconoscimento di infortunio lavorativo (in itinere).

Caso B

Paziente femmina di 42 anni, impiegata. Madre e una sorella affette da cefalea. Ipotensione ortostatica con frequenti episodi lipotimici. Coniugata con due figli di cui una, sedicenne, con cefalea ricorrente. Dall’età di 13 anni ha cominciato a soffrire di cefalee episodiche, inizialmente con frequenza mensile, di solito catameniali, in seguito plurisettimanali, della durata di 8-12 ore. Il dolore è froto-temporale, unilaterale alternante, pulsante, di intensità medio-forte. La cefalea è accompagnata da intensa foto-fono-osmofobia e costringe a letto la paziente. Le crisi possono essere scatenate da fattori emotivi, cambiamenti atmosferici, variazione del ritmo sonno-veglia, esposizione al sole.

Negli ultimi anni la crisi di cefalea hanno determinato numerose assenze dal lavoro con perdita di stima e fiducia da parte del datore di lavoro e limitazione della carriera. Visitata da uno specialista neurologo, al termine di un iter diagnostico completo (esame obiettivo neurologico, consulenza endocrinologica, esami neuroradiologici) viene diagnosticata emicrania senza aura con crisi frequenti (circa 10 giorni/mese) e prescritte terapie profilattiche cicliche a base di diidroergotamina, flunarizina, antiepilettici e sintomatica con triptani. Nessuna terapia profilattica determina significativa e duratura riduzione del numero delle crisi che recedono, invece, rapidamente con l’uso dei triptani. Per questo motivo la paziente tende ad abusare di tali farmaci e si lamenta di spendere troppo in farmacia mentre è venuta a conoscenza che in altre zone questi farmaci sono dispensati con quota a carico del SSN. Il neurologo curante avverte la paziente circa i pericoli dell’abuso dei farmaci e consiglia il ricovero in ambiente specialistico.

Cosa prevede la normativa vigente

I casi esposti sottolineano la esistenza dei seguenti problemi legati alla gestione delle cefalee:

• effetto negativo sull’attività lavorativa delle cefalee croniche, indipendentemente dal tipo diagnosticato (post-traumatica, emicrania, tensiva);

• difficoltà ad ottenere il riconoscimento medico-legale delle cefalee da parte di Enti pubblici e privati (INAIL, commissioni d’invalidità civile, INPS, compagnie assicurative);

• credibilità ed affidabilità di certificati medici per giustificare la assenza dal lavoro e le conseguenze relative sia nell’ambito del lavoro dipendente (danni alla carriera) che autonomo (perdite economiche);

• costo della terapia farmacologia;

• opportunità di ricoveri ospedalieri in casi particolari alla luce dei criteri introdotti dalla utilizzazione del pagamento delle prestazioni ospedaliere a tariffa fissa (DRG), con conseguenti valutazioni economiche da parte delle Aziende ospedaliere.

La normativa vigente è carente perché:

• non esistono criteri medico-legali oggettivi per il riconoscimento di patologie dolorose croniche come le cefalee, in assenza di dati strumentali relativi alle stesse patologie, anche se in presenza di certificazioni rilasciate da strutture specialistiche accreditate (Centri Cefalee);

• non esistono meccanismi di tutela sia per il paziente che per il datore di lavoro (tanto pubblico che privato) in caso di reiterati periodi di assenza dal lavoro per malattia. Essi andrebbero individuati al più presto allo scopo di favorire il giusto riconoscimento della patologia per i pazienti e la salvaguardia da simulazioni e truffe per i datori di lavoro;

• mancano criteri standardizzati per regolamentare la partecipazione dei cittadini alla spesa sanitaria in modo da improntarla al rispetto di principi di economicità, uniformità e razionalità, tanto per terapie convenzionali che per terapie alternative, con il rischio di andare incontro a sprechi ed utilizzazione impropria delle risorse;

• mancano criteri e linee guida per l’ospedalizzazione dei pazienti cefalalgici.

Alcune proposte concrete

• Istituzione di una Commissione Nazionale, promossa dal Ministero della salute, composta da specialisti medici del settore, rappresentanti di associazioni di malati, rappresentanti della CUF, di Enti Pubblici, Compagnie assicurative e ministeri interessati allo scopo di elaborare linee guida utilizzabili per gestire la patologia sottoil profilo scientifico, assistenziale, sociale e previdenziale;

• Individuazione di una rete di Centri di riferimento con attribuzione di responsabilità per le certificazioni.

2.3.7 CFS12 (A cura della CFS, Associazione italiana per la Sindrome da fatica Cronica)

Osservazioni di carattere epidemiologico

La CFS colpisce entrambi i sessi varie razze ed età appartenenti a vari gruppi socioeconomici, anche se la malattia colpisce in prevalenza donne di età compresa tra i 20 e i 40 anni, ma non sono esclusi casi pediatrici e tra gli anziani.

Il Centro per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie (CDC) di Atlanta – USA calcolano una prevalenza negli Stati Uniti di 4-10 casi per 100.000 adulti dai 18 anni in su. In Italia si calcola vi siano 100-200 mila casi di CFS.

Spesso la CFS inizia improvvisamente, ma talvolta ha un esordio graduale. In circa un terzo dei casi la malattia si manifesta in seguito ad infezioni respiratorie, gastrointestinali o altre infezioni virali acute. In altri casi, si manifesta in seguito ad un trauma emotivo o fisico.

E’ importante notare che il 20-40% dei pazienti con CFS non soffrono di malattie psichiatriche o di depressione. Alcuni studi hanno confermato una forte prevalenza di allergie nei pazienti con CFS rispetto alla popolazione in generale. La CFS può persistere per molti anni. Alcuni studi a lungo termine indicano che la CFS generalmente non è una malattia progressiva. I sintomi sono generalmente più’ severi nei primi due anni, poi si stabilizzano e persistono cronicamente.

Costo economico della malattia

• Costo per l’accesso all’assistenza medica e all’acquisto dei farmaci.

• Ripercussioni in ambito lavorativo e assistenziale dovuti ai lunghi periodi di assenza di lavoro e conseguente necessita’ di assistenza sanitaria.

Impatto sociale e psicologico

E’ molto difficile per una persona precedentemente in buona salute e molto attiva ridefinire la propria vita ed adeguarsi alle limitazioni imposte dalla malattia. La CFS è debilitante per tutti i pazienti rendendoli in alcuni casi disabili. E’ necessario per i pazienti con CFS ridurre le situazioni stressanti sia a livello fisico che psicologico. Il paziente deve imparare a bilanciare i momenti di attività e di riposo e a stabilire un programma di vita in accordo con i continui cambiamenti dei livelli di energia fisica e della severità dei sintomi. Mirate terapie farmacologiche e riabilitative possono aiutare il paziente e limitare l’immobilità accrescendo lo stile di vita.

Un servizio di counselling può aiutare i familiari del paziente ad adattarsi all’incerto decorso della malattia ed ai suoi effetti, e a dare consigli utili per imparare a convivere con la malattia. Gruppi di supporto ed un’adeguata assistenza domiciliare offrono validi benefici ai malati di CFS.

Il ruolo della prevenzione

Non esiste una prevenzione della CFS. Ugualmente, poiché la patologia spesso compare dopo fatti infettivi anche banali, e’ necessario ricordare che questi vanno considerati con serietà e, per esempio durante un’influenza, e’ necessario il riposo assoluto e un’adeguata convalescenza. Vale ovviamente per altre patologie infettive come per esempio la mononucleosi infettiva eccetera.

Le questioni fondamentali

Riconoscimento della patologia da parte del Ministero della Salute ed inserimento definitivo della CFS nell’elenco delle Malattie Rare da parte dell’Istituto Superiore di Sanità’, che in passato sotto il coordinamento del Dr. Donato Greco, ha già organizzato un studio della CFS nel nostro paese.

Due casi tipici

a. Impossibilità da parte dei pazienti di svolgere un’attività lavorativa a causa dello stato di salute.

b. Reddito insufficiente per le spese mediche e farmacologiche.

Cosa prevede la normativa vigente

La malattia non e’ ancora riconosciuta dal Ministero della Sanità.

Non è prevista una pensione d’invalidità per i soggetti affetti da CFS.

Una storia

Mirella è una ragazza di 24 anni. Improvvisamente però, dopo un episodio influenzale, la sua vita è cambiata radicalmente. Non riesce a lasciare il letto, ha dolori dappertutto che la fanno soffrire. Non riesce più’ a dormire la notte ed e’ come se fosse perennemente influenzata. Dopo tre anni, nonostante consulti in tutte le parti del mondo e le diverse terapie intraprese, la situazione e’ invariata. E’ stata vista anche da psichiatri illustri, ma salvo una lieve forma reattiva di depressione, ben giustificabile d’altra parte con la situazione generale cosi’ disastrosa, non le e’ stato riscontrato alcunché’ di anomalo.

La sua vita è completamente distrutta. Ormai dorme di giorno ed e’ sveglia di notte, e soltanto raramente ha qualche miglioramento che le permette di uscire e di condurre per breve tempo una vita accettabile: il tutto si risolve per pochi giorni, poi, riprecipita nella situazione precedente. Non può neppure pensare di avere una relazione sentimentale, nonostante sia rimasta molto attraente. Non sa neanche lei quale sarà il suo futuro. La diagnosi di sindrome da stanchezza cronica le e’ stata riconosciuta in diverse parti del mondo, anche se ancora oggi, alcuni medici della sua città’, sono molto scettici.

E questo è quello che le fa più male. Vi e’ sempre qualcuno che pensa di aver capito tutto e la sottopone agli esami o all’esame che dovrebbe chiarire tutto, ma questo non avviene mai. E’ molto stanca.

2.3.8 Diabete giovanile (A cura di A. Keytmayer, JDF)

Osservazioni di carattere epidemiologico

Il diabete giovanile, o diabete insulino-dipendente, è la più frequente malattia metabolica dell'infanzia e dell'età giovanile; si calcola che i diabetici giovanili oggi in Italia siano circa 400.000 persone con un tasso di prevalenza tra 0 e 15 anni compreso tra lo 0.5 e il 3 per mille, con punte massime in Sardegna.

Tale dato, trattandosi di malattia cronica, è destinato ad un progressivo aumento.

Il tasso di incidenza annuo (nuovi casi all'anno per 100.000 persone) è, attualmente, per le popolazioni tra 0 e 19 anni, nei paesi occidentali, del 20 per 100.000, anch'esso con tendenza all'aumento.

Non si segnalano differenze tra i sessi, e tutte le classi di età tra 0 e 40 anni possono essere colpite, con una lieve prevalenza per l'età puberale (10-15 anni) e tra i 2 e 4 anni.

Costo economico della malattia

Il trattamento giornaliero del paziente con diabete giovanile non complicato comprende oltre all'insulina numerosi presidi diagnostico-terapeutici (siringhe monouso, strisce reattive, reflettometri etc) con una spesa media giornaliera (a carico delle Regioni) di circa 10 Euro.

Se a questa spesa si sommano i controlli clinici e strumentali periodici (visite specialistiche, test ematochimici, es. urine), si raggiunge una spesa media annua complessiva di circa 5.000 Euro a paziente.

Ben diversa è, invece, la spesa nei casi di diabete complicato (retinopatia, nefropatia, etc) che comportano degenze ospedaliere, interventi chirurgici (fino al trapianto di rene), terapie specialistiche (laser terapia per le lesioni oculari, dialisi per le insufficienze renali, etc) con costi molto variabili e comunque elevatissimi, quantificabili in decine di migliaia di Euro per paziente.

I costi indiretti sono difficilmente calcolabili e dovrebbero comprendere, oltre le giornate lavorative perdute dal paziente e, soprattutto, dai familiari , tutte le possibilità economiche che possono essere precluse ai paziente e ai familiari, costretti da tale patologia a numerose rinunce nel campo della formazione professionale (p.e. soggiorni di studio all'estero) e ad avanzamenti di carriera in numerose aree occupazionali.

Impatto sociale e psicologico

La malattia determina sempre un grave impatto psicologico sulla famiglia e sul bambino o adolescente ammalato, che è tanto più rilevante quanto peggiori sono le condizioni socio economiche del gruppo familiare.

Possono essere elencate una serie di situazioni che si vengono inevitabilmente a creare:

• insicurezza continua nella vita quotidiana del singolo e della famiglia determinata dalla gestione della malattia (controllo della glicemia, pasti, terapia insulinica);

• insicurezza/ansia per gli orari in qualunque ambiente esterno alla famiglia (scuola, lavoro, vacanze);

• preoccupazione per qualunque tipo di patologia acuta (dall'influenza ai piccoli interventi chirurgici) che comporti costantemente un'alterazione dell'equilibrio glicemico e metabolico e modifiche della terapia anche soltanto per un semplice rialzo febbrile o per la necessità del digiuno;

• sensazione diffusa, soprattutto nei più giovani, di diversità e inadeguatezza nei confronti dei fratelli e dei coetanei, a causa delle limitazioni, soprattutto alimentari, ma non solo, a cui il diabetico è costretto;

• sensi di colpa riguardo alla malattia presenti nei genitori (soprattutto le madri) per ogni evento avverso che si verifica nella gestione della malattia.

In generale un profondo senso di inferiorità da parte della famiglia nel suo insieme (comunque peraltro presente ad ogni tipo di patologia infantile e giovanile) nei confronti delle famiglie più fortunate.

Il ruolo della prevenzione

Allo stato attuale non esiste alcuna forma di prevenzione definita per la malattia

Le questioni fondamentali

a- Il regime di terapia intensiva insulinica è in grado di prolungare la durata di vita del diabetico e di prevenire le complicanze tardive della malattia?

b- Le terapia attuali sono in grado effettivamente di arrestare la progressione delle complicanze quando queste si manifestano?

c- E' realizzabile un vaccino per prevenire l'insorgenza della malattia?

d- I trapianti di pancreas o di Beta cellule pancreatiche saranno presto disponibili nella pratica clinica?

e- Sono effettivamente applicabili ,nella pratica clinica, vie diverse di somministrazione dell'insulina da quella iniettiva?

2.3.9 Incontinenza (A cura di F Diomede, F.I.N.C.O.)

L'incontinenza urinaria affligge tre milioni di persone nel nostro Paese che per problematiche di varia natura (congenita, traumatica, degenerativa etc…) perdono il controllo volontario sulle urine (stessa cosa avviene per gli incontinenti fecali).

In taluni casi essa è di una entità tale da costituire un vero e proprio problema igienico-sociale. Di fatto, allo stato attuale si conosce poco sulla storia naturale del disturbo. I recenti studi epidemiologici sono concordi nel rilevare che l'incontinenza è un problema, purtroppo, ampiamente sottostimato, vuoi per la riluttanza del paziente a parlarne (anche col proprio medico di fiducia), vuoi per l'errata convinzione, alquanto diffusa, che ogni rimedio risulti inefficace.

Purtroppo, proprio a causa d'immotivate credenze popolari, è frequente trovare pazienti incontinenti da anni, che adottano come unico presidio al loro disturbo i pannoloni. Qualunque indagine epidemiologica diviene sempre più difficile se si associano la cronicità del problema e la sua subclinicità.

In generale l'incidenza dell'incontinenza risulta maggiore nella donna rispetto all'uomo ed aumenta con l'avanzare dell'età. Tuttavia, non bisogna dimenticare che essa può riscontrarsi anche nei soggetti giovani e può colpire i bambini (sono frequentissimi i casi di enuresi notturna che si protrae anche in età scolare). Dal punto di vista clinico l'incontinenza viene classificata in più tipi: da sforzo, da urgenza, mista, da rigurgito. I disturbi ed i sintomi di questa malattia possono insorgere in conseguenza di processi morbosi che colpiscono le vie urinarie o anche nel decorso post-operatorio d'intervento chirurgico, effettuato in ambito urologico (es. interventi eseguiti sulla prostata o sulla vescica). Non da ultimo va tralasciato il gran numero di affezioni che interessano il sistema nervoso quali patologie cerebrali, del midollo spinale e dei nervi periferici.

La complessità del problema e la scarsa importanza che viene data anche a quelli che possono apparire banali disturbi d'incontinenza (cfr. la vescica iperattiva) non contribuiscono a creare un quadro complessivo completo ed esauriente. Pertanto, nessun trattamento terapeutico risulterà miracoloso se non s'imposta col paziente un rapporto franco sulla sua imbarazzante condizione.

L'incontinenza urinaria è soprattutto un problema di qualità di vita che condiziona in maniera preponderante il soggetto colpito in relazione alla propria famiglia ed al contesto socio-lavorativo; incidendo notevolmente anche da un punto di vista prettamente economico. Basti mettere a confronto le spese sostenute annualmente per l'acquisto di pannoloni presso una USL od una qualunque farmacia per un solo utente. Il grande impatto sociale ed il forte condizionamento psicologico derivanti dall'incontinenza non hanno altre possibilità di risoluzione se non nell'ottica di una rapida approvazione di una legge ad hoc che possa tutelare i diritti delle persone colpite da questa patologia. Ad esempio la Sig.ra I.B., 74 anni, divenuta incontinente a causa di una patologia correlata al sistema nervoso (morbo di parkinson), grazie al D.M. Sanità n.332/99, l’AUSL territoriale di competenza fornisce gratuitamente gli ausili assorbenti per l'urina, ma in realtà la sua incontinenza non è stata accuratamente vagliata da un pool di professionisti, grazie ad appositi "Centri Provinciali per la Cura e la Riabilitazione dell’Incontinenza".

Come si evince da quanto brevemente esposto si rende necessario un intervento a livello legislativo al fine di rendere meno gravosa la vita dei soggetti afflitti da questa patologia, comunque sia invalidante.

Le Associazioni di pazienti, tra cui la Federazione Italiana INCOntinenti (FINCO), al momento, oltre alle costanti pressioni effettuate presso le Istituzioni per il varo di una legge ad hoc, hanno come priorità assoluta quella di agire in maniera quanto più incisiva e capillare sull'intero territorio nazionale, arrivare laddove nessun altro può. In questi mesi la Finco sta procedendo verso la regionalizzazione delle proprie sedi: il decentramento può costituire, attraverso l'istituzione di Centri provinciali per la

Riabilitazione degli Incontinenti, un ottimo strumento in previsione del reinserimento socio-lavorativo. In tali sedi i soggetti incontinenti ed i loro familiari potranno usufruire di tutte quelle forme di assistenza che non è possibile trovare altrove (non solo visite mediche e tecniche prettamente riabilitative effettuate da parte di operatori formati ad hoc, ma anche un supporto psicologico e legale).

E' indispensabile uscire dall'isolamento psico-sociale al fine di rendere ancora più visibili le gravi implicazioni legate all'incontinenza. A tal fine, la FINCO ha sostenuto la nascita di un portale verticale sulla disabilità, denominato Hplanet (www.hplanet.org; email: info@hplanet.it ), che si prefigge d’aggregare le differenti realtà connesse all'handicap ed a tutte le forme di disagio che quotidianamente viviamo.

Attualmente la FINCO, congiuntamente con altre Associazioni di incontinenti (A.I.STOM. ed A.I.M.A.R.), ha effettuato tre manifestazioni nazionali di protesta (Roma, Piazza Montecitorio) ed in virtù del D.M. del 31/05/01, ha ottenuto una maggiore burocratizzazione del Nomenclatore Protesico Nazionale ed oggi si possono ottenere più facilmente i pannoloni, i cateteri, le sonde ed i sacchetti di raccolta (feci o urine), Inoltre, allo stato attuale non è più necessario presentare l’istanza d'invalidità civile, ma è sufficiente una semplice richiesta compilata dello specialista AUSL (valida per un anno) e tutto è risolto. Nel prossimo futuro continueremo a protestare contro i pensanti tagli effettuati dal Ministero della Salute e da innumerevoli regioni, ma questo è un argomento che affronteremo tra circa due mesi, a chiusura dei nefandi eventi.

Tutto ciò è solo un primo, timido passo, ma sicuramente siamo sulla retta via: rivendicare con forza, coraggio e caparbietà il nostro diritto alla vita.

2.3.10 Nutrizione parenterale

Osservazioni di carattere epidemiologico

La nutrizione parenterale domiciliare (NPD) di lunga durata, rappresenta il trattamento sostitutivo in caso di insufficienza intestinale, analogamente a quanto avviene per la dialisi in caso di insufficienza renale.

Si attua mediante l’infusione di soluzioni nutrizionali tramite un accesso vascolare stabile, posizionato in un grosso vaso venoso (v. giugulare e succlavia) e tunnellizzato o totalmente impiantato nel sottocute della parete toracica.

L’alternativa alla NPD è rappresentata dal trapianto d’intestino, ad elevato rischio postoperatorio e quindi per ora con indicazioni limitate.

L’insufficienza intestinale si determina quando la massa intestinale funzionante si riduce al di sotto del livello minimo sufficiente a coprire le necessità nutrizionali dell’individuo.

Le cause più frequenti sono: resezione intestinale estesa o malattia intestinale con alterazione estesa della mucosa o della motilità.

L’incidenza dell’insufficienza intestinale, valutata come richiesta di NPD, non è stata stabilita con sicurezza, alcuni autori inglesi riportano 2-3 casi/milione di abitanti/anno.

Nella casistica del Centro di Torino, riferimento per l’intera popolazione della Regione Piemonte è di 1,5 casi milione di abitanti/anno.

Costo economico della malattia

Si riferiscono le conclusioni di uno studio retrospettivo sui costi relativi a 19 pazienti non neoplastici in NPD, eseguito nel 1997 e pubblicato nel 1999 sulla Rivista della Società Italiana di Nutrizione Parenterale ed Enterale:

• primo ricovero (degenza media: 52 giorni), £. 35.000.000;

• successivi ricoveri (degenza media: 13 gg), £ 10.000.000;

• costo giornaliero del trattamento domiciliare: £. 205.000.

Impatto sociale e psicologico

La maggior parte dei pazienti sottoposti a NPD può lavorare, andare a scuola, essendo le infusioni notturne.

Le limitazioni al proprio ruolo sociale sono soprattutto causate dalla diarrea nei pazienti con normale canalizzazione, o dalle perdite stomali elevate nei pazienti senza colon con enterostomia terminale.

Dal punto di vista psicologico personale e famigliare, l’impatto è quello della terapia a lungo termine e della dipendenza per la propria sopravvivenza da un trattamento artificiale.

L’impegno dei famigliari è aggravato con i pazienti non autosufficienti per quanto riguarda la gestione delle infusioni, dell’accesso vascolare e delle eventuali complicanze tecniche (occlusione o rottura del catetere), o sistemiche (infezioni, complicanze metaboliche).

Il ruolo della prevenzione

Non è possibile attuare nessuna forma di prevenzione nei confronti di un trattamento sostitutivo d’organo al di fuori delle eventuali possibili prevenzioni delle patologie di base che ne hanno causato la necessità.

Le questioni fondamentali

Malgrado che il Piano Sanitario Nazionale 1998/2000 abbia evidenziato la necessità di interventi adeguati dal punto di vista nutrizionale a livello ospedaliero, territoriale, domiciliare., non c’è a livello sanitario adeguata conoscenza delle gravi conseguenze fisiopatologiche dell’insufficienza intestinale e delle esigenze terapeutico-assistenziali dei pazienti che ne sono affetti. I supplementi vitaminici e minerali che rappresentano per questi pazienti farmaci indispensabili appartengono alle classi non rimborsate.

Non esiste normativa nazionale che stabilisca i requisiti dei Centri responsabili dell’impostazione e della gestione del programma di nutrizione artificiale e di terapia in tali pazienti.

Esistono per la nutrizione artificiale domiciliare solo normative regionali e non in tutte la Regioni. In alcune di queste normative non è specificata la composizione del team nutrizionale che deve essere medico-infermieristico e deve avere un’adeguata formazione specialistica.

Due casi tipici

Caso A

Paziente di anni 65 con resezione intestinale estesa in NPD dal 1988, con necessità di infondere almeno 5 volte alla settimana per una durata di circa 10 ore. Sottoposta a dialisi trisettimanale dal 2000 per pielonefrite cronica litiasica.

Viene ricoverata nel luglio del 2002 per grave malnutrizione dovuta alla difficoltà ad espletare completamente il programma nutrizionale da parte della paz. che vive da sola; ha problemi motori dovuti a complicanze ortopediche gravi e deve eseguire la dialisi trisettimanalmente in Ospedale.

Sia a causa della gravità dello stato clinico che della difficoltà inerente alla domiciliarizzazione, la degenza deve protrarsi per due mesi.

Si è richiesto al medico curante l’attivazione del Servizio ADI, per supporto infermieristico nella gestione della NPD. Suddetta richiesta è stata accettata, ma per un periodo non superiore a 2/3 mesi.

E’ stata quindi contattata l’assistente sociale con la richiesta di istituzionalizzare la paz. presso un RSA di territorio, con progetto di ricovero solo notturno, in modo da consentire l’infusione per via venoso-centrale in ambiente protetto, al termine della presa in carico da parte del Servizio ADI.

Caso B

Per la descrizione del caso B, si allega la lettera indirizzata alla Direzione Sanitaria, relativa al ricovero per tempi protratti di una paziente affetta da insufficienza intestinale.

Si segnala che nel Reparto di Degenza della U.O.A. Dietetica e Nutrizione Clinica è ricoverata dal giorno 28-06-01 una paziente di anni 70, affetta da malassorbimento intestinale post-chirurgico (esito di ampia resezione intestinale per necrosi segmentarla del tenue da briglie aderenziali: residuano circa 40 cm di intestino tenue, con anastomosi digiuno-colica L—L sul colon ascendente) in cardiopatia dilatativi ipocinetica, fibrillazione atriale cronica, pregresso ischemia cerebrale, ipotiroidismo secondario ad assunzione di amiodarone.

In seguito a riscontro di insufficienza intestinale, la paziente è stata avviata a trattamento di Nutrizione Parenterale Domiciliare da maggio 2001. Per tale motivo, è stato posizionato catetere venoso centrale di lunga durata tipo Groshong nella vena succlavia sx ed è stato eseguito training alla figlia della paziente per la gestione domiciliare delle infusioni per via venosa centrale, come previsto da apposita Legge Regionale (n. 39/85).

Dopo la dimissione, per impossibilità a proseguire al proprio domicilio il trattamento di Nutrizione Parenterale a causa di problemi familiari, si è reso nuovamente necessario il ricovero della paziente presso codesto Reparto il 28/6/2001. La figlia della paziente, infatti, che alla dimissione della madre aveva dichiarato di assumersi la responsabilità della gestione domiciliare delle infusioni per via venosa centrale, successivamente non si è più resa disponibile per gravi motivi familiari.. Anche gli altri 5 figli della paziente interpellati dichiaravano di non potersi far carico della gestione di suddetto trattamento di Nutrizione Parenterale Domiciliare. La paziente veniva, quindi, ricoverata presso codesto Reparto in attesa di una risoluzione del problema.

Durante il ricovero episodio di Fa con attacco ischemico transitorio; residuavano emiplegia sinistra e disfagia, regrediti completamente nell’arco di circa 10 giorni. Vista la presenza di malattia atriale con Blocco di Branca Sinistra è stata posta indicazione a posizionamento di Pace Maker di tipo DDD-R, posizionato il 10/8.

Attualmente le condizioni cliniche e nutrizionali della paziente, sono stabili, tali da consentirne la dimissione. Resta, purtroppo irrisolto il problema che aveva motivato inizialmente il ricovero. A tal proposito è stata interpellata l’Assistente Sociale, per organizzare, previo consenso della paziente stessa e dei suoi famigliari, il trasferimento della paziente presso una struttura in grado di gestire adeguatamente la Nutrizione Parenterale (RSA in regime di istituzionalizzazione). Al momento il trasferimento non è ancora stato possibile a causa di lunghi tempi di attesa.

Proposte concrete di soluzione

• E’ necessario poter effettivamente ricoverare in degenza ordinaria in modo da eseguire iter diagnostico-terapeutici complessi che richiedono tempi protratti per la difficoltà dei casi e per la necessità di personalizzare terapie e programmi di nutrizione artificiale.

• E’ necessario personale infermieristico addestrato alla gestione di linee infusionali che devono essere utilizzate per lungo tempo e quindi devono essere trattate con criteri di asepsi assoluta.

• Nel caso A e nel caso B e in tutti gli altri casi in cui i pazienti per età, condizioni personali e ambientali non sono mai stati o non sono più autosufficienti: è estremamente utile poter disporre presso strutture territoriali (RSA ?) di forme di degenza tipo nigth hospital in cui il paziente può eseguire l’infusione, con assistenza da parte di personale addestrato specificamente; Deve essere certamente potenziata l’assistenza domiciliare, tenendo conto che la necessità di protrarre il trattamento, per i pazienti affetti da insufficienza intestinale cronica benigna, è nella maggior parte dei casi quoad vitam e che taluni devono infondere quotidianamente.

2.3.11 Obesità (A cura di M. Zammataro, U.N.O.)

Nel tempo si è consolidato il teorema che obesità sia sinonimo di iperalimentazione. Anche se l’elemento iperfagia è presente in un certo numero di casi, non può essere posto come causa unica ed essenziale del problema che, al contrario, riconosce alla base della disfunzione una serie di fattori ancora in parte poco noti.

Anche il supporto psicologico che viene offerto come sostegno al soggetto obeso, spesso viene interpretato tanto dai fruitori quanto dagli operatori, come una conferma della scontata presenza di disturbi del comportamento alimentare e, pertanto, la terapia viene orientata solo alla correzione di tale presunto disordine.

Viene così sancita la diversità del portatore di obesità, come corollario imprescindibile della sua condizione esistenziale: diversità morfologica, estetica, sociale, comportamentale, etica, ecc. L’obeso finisce per sentirsi un alieno e come tale cresce e si comporta in un mondo che gli è estraneo ed ostile. Come stupirsi se un tale soggetto, costretto a credere che il cibo sia la raffigurazione moderna del diavolo e delle sue tentazioni, non trovi proprio nella voluttà del proibito il proprio paradiso ed il proprio inferno?

Questa modalità di valutazione della obesità non consente peraltro di affrontare con il dovuto rigore le problematiche fisiopatologiche che la sottendono e che sono fonte di alterazioni cliniche che mettono a rischio la vita e la salute psicofisica dei soggetti obesi, oltre ad essere causa di incremento dei costi sociali.

Un approccio corretto deve porsi quale obiettivo il raggiungimento del benessere dell’obeso, intendendo con tale concetto, non soltanto l’assenza di organi ammalati, ma l’equilibrio psico-fisico del soggetto; l’approccio alla problematica dell’obesità deve, pertanto, essere pluridisciplinare nell’obiettivo di operare il recupero dei soggetti obesi sul piano psicologico e sociale contestualmente agli altri trattamenti di tipo dietologico, farmacologico e riabilitativo.

Osservazioni di carattere epidemiologico

A) Incidenza per genere e per classe di età

I dati più recenti sono quelli rilevati dall’ISTAT con indagine multiscopo (IM) condotta su 53 000 famiglie per un totale di 140. 000 individui. (ISTAT 2002).

Criteri: età dai 18 anni in su

peso e statura dichiarati

Risultati obesi: maschi 9.2 %

femmine 8.8 %
Tab. 34 Soggetti soprappeso e obesi per aree geografiche
Area geografica 
Sovrappeso 
Obesi 
Nord ovest 
30,3 
7,8 
Nord est 
32,1 
8,0 
Italia centrale 
32,8 
8,0 
Italia meridionale 
37,9 
11,3 
Italia insulare 
34,5 
9,6 
Italia 
33,9 9,0 
 
 

fonte: elaborazione Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici-Cittadinanzattiva su dati Istat, Indagine multiscopo 1999-2000





B) Incidenza e andamento negli anni della patologia

In Italia ci sono circa 4 milioni di obesi e nel triennio 94-97 l’incremento è stato del 25%. La sindrome da insulino-resistenza coinvolge non meno del 30-35% della popolazione dei paesi industrializzati.

C) Percentuale di rischio per genere e per classe di età

Il rischio generico di mortalità negli obesi è in rapporto con l’indice di massa corporea e graficamente è rappresentato da una curva a J che mostra un incremento del rischio di morte triplicato nei soggetti con BMI superiore a 40 rispetto ai soggetti con BMI 25.

La mortalità nell’obeso è secondaria alle patologie correlate: diabete, ipertensione arteriosa, cardiopatia congestizia, sindrome delle apnee notturne, ictus ed infarto cardiaco.

Nella popolazione adulta la prevalenza di diabete è complessivamente del 4.5%, negli obesi la quota si triplica all’11.7%.

Nella fascia di età da 45-64 anni il diabete negli obesi sale al 12.2%. Tra gli anziani obesi, uno su cinque ha il diabete. Marcata è la prevalenza del diabete e dell’ipertensione tra maschi e donne a netto sfavore per le donne.
 
 


Tab. 35 Soggetti soprappeso e obesi in relazione a presenza di malattie croniche

Patologia cronica
Sovrappeso
Obesi
Diabete 
5,8
11,7
Ipertensione 
19,6
29,9
Malattie della tiroide 
3,5
5,1
Malattie cardio-vascolari 
7,1
10,3
Malattie osteoarticolari 
32,6
42,2
 
fonte: elaborazione Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici-Cittadinanzattiva su dati Istat, Indagine multiscopo 1999-2000

Costo economico della malattia

Il costo socio-economico dell’Obesità e delle malattie associate rappresenta un problema di estrema attualità per coloro che hanno la responsabilità della programmazione e della gestione della salute.

Si può affermare che, nei paesi occidentali, il costo si aggiri tra 2% e 8% della spesa sanitaria di una nazione, pari al costo totale del trattamento dei tumori. Si tratta, tuttavia di stime prudenziali in quanto riferite ad un BMI > 30; se si considerasse anche la fascia del sovrappeso (BMI tra 25 e 30), come si sta attuando recentemente negli USA, la popolazione interessata sarebbe tre o quattro volte maggiore.

Bisogna comunque distinguere tra:

• costi diretti, legati al trattamento dello stato morboso;

• costi indiretti, correlati alla mancata o ridotta produttività per giornate di lavoro perdute o per ridotta aspettativa di vita;

• costi non definibili, dovuti alle ricadute delle malattie sullo stato di salute e sulla qualità della vita.

A) Costi diretti

00,511,522,53Indice Costi Classi BMI20-2525-3030-35>35

B) Costi indiretti E’ difficoltoso valutare l’incidenza dei costi indiretti per la scarsa attenzione riservata alla obesità come patologia. Il soggetto obeso non usufruisce di particolari privilegi o facilitazioni in ambito sociale e lavorativo. Non vengono monitorizzati regolarmente i dati relativi alle giornate di degenza dei soggetti obesi, alle giornate lavorative perdute, alla percentuale di incidenti sul lavoro e stradali occorrenti a soggetti obesi in confronto ai normopeso, ecc.
Impatto sociale e psicologico
A) Sulla persona

La definizione di obesità, da un punto di vista antropometrico, è basata sull’indice di massa corporea (BMI), calcolato dividendo il peso del soggetto, espresso in chilogrammi, per il quadrato dell’altezza, espressa in metri. Se l’indice supera 30, si parla di obesità, tra 25 e 30 di sovrappeso.

Tuttavia, resta aperto il problema del significato che assume il concetto di peso corporeo, normale o ideale in quanto quest’ultimo viene costruito anche sulla base di giudizi e pregiudizi culturali oltre che biologici.

La percentuale di percezione di uno stato psicofisico inferiore alla media della popolazione sana è espressa dai dati riportati dalla tabella seguente
 
 


Tab. 36 Percezione dello stato psicofisico in soggetti soprappeso e obesi

 
Sovrappeso Obesi 
 
Indice di stato fisico 
49,1
49,9
Indice di stato psicologico 
51,2
51,3
 

fonte: elaborazione Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici-Cittadinanzattiva su dati Istat, Indagine multiscopo 1999-2000





L’insoddisfazione ed il disagio del corpo costituiscono un sintomo cardine dell’obesità, specie in fase adolescenziale, interferendo fortemente anche sui comportamenti alimentari ed affettivi. Rispetto allo "schema corporeo" che rappresenta la percezione sensoriale del proprio corpo, a partire dall’adolescenza, si viene a costruire la "immagine corporea", da intendere come il modo in cui il soggetto sperimenta e considera il proprio corpo. Fattori di ordine sociale, psicologico ed emotivo mediano questa costruzione di tipo psico-sociale. L’impatto con modelli sociali e culturali precodificati, restituiscono un’immagine corporea non accettabile, non gradita e minano il senso di sicurezza e di autostima del soggetto. Questo avviene non soltanto nel caso dell’obesità, condizione nella quale queste problematiche si esaltano grandemente.

B) Sulla famiglia
Nella famiglia si sviluppano dinamiche diverse a seconda della reattività dei soggetti e dei relativi valori culturali che esistono in ognuno dei componenti, finendo per mediare e condizionare comportamenti e interagendo con la sfera degli affetti.

In particolare, il rapporto madre-figlio ruota attorno al valore simbolico che il cibo assume per entrambi non limitandosi al semplice aspetto nutritivo, ma anche a quello di veicolo simbolico di amore e protezione.

Il ruolo della prevenzione

A) Stato attuale
Solo di recente la prevenzione dell’Obesità è divenuta un obiettivo di rilievo nei programmi di sanità pubblica e negli interventi di prevenzione rare volte è stata inserita la riduzione del peso corporeo. Tuttavia, le raccomandazioni sul controllo dell’introito calorico, a favore di un incremento del consumo di cibi ricchi di fibre e di una riduzione del consumo di alcool e grassi unitamente al consiglio di incrementare l’attività fisica, sembrano avere influenzato positivamente la pubblica opinione con l’effetto di una modica riduzione del peso medio delle popolazioni studiate.
B) Obiettivi da raggiungere
Gli attuali sistemi di classificazione dei programmi di prevenzione definiscono come prevenzione primaria gli interventi mirati alla riduzione dell’incidenza della malattia, cioè la frequenza di nuovi casi che si manifestino nella popolazione; prevenzione secondaria, gli interventi finalizzati alla riduzione della prevalenza della malattia, cioè della proporzione dei casi riscontrati nella popolazione; prevenzione terziaria, le misure indirizzate alla riduzione delle invalidità associate alla malattia.

Nel caso dell’Obesità -come per tutte le malattie croniche ad eziologia multifattoriale- i programmi di prevenzione hanno l’obiettivo di ridurre il rischio determinato dal disordine metabolico correlato alla malattia, piuttosto che ridurre la condizione medesima di Obesità.

Recentemente, l’Institute of Medicine of the National Academy of Sciences ha raccomandato una terminologia alternativa che è stata adottata nella stesura della LIGIO ’99 secondo la quale i programmi di prevenzione possono essere definiti come universali, selettivi, mirati.

1. Prevenzione universale

Oggetto: la comunità intera

Obiettivi:

• ridurre la prevalenza dell’Obesità

• ridurre il peso medio della popolazione

• ridurre le complicanze mediche dell’eccesso ponderale

• migliorare le conoscenze sul ruolo della nutrizione, del peso corporeo e dell’esercizio fisico sul raggiungimento e mantenimento di un soddisfacente stato di salute e di benessere.

Per raggiungere questi obiettivi è necessario applicare in modo coordinato diverse strategie, come i programmi strutturati per la intera comunità, programmi per la scuola, per la famiglia e quelli finalizzati alla modificazione dell’ambiente di vita.

2. Prevenzione selettiva

Oggetto: sottogruppi a rischio di Obesità (donne, adolescenti, gruppi etnici afro-americani, soggetti a basso reddito, ex-fumatori, consumatori di diete ipercaloriche-iperlipidiche, sedentari, ecc.)

Obiettivi:

• limitare l’incremento di peso nei soggetti e gruppi di popolazione a rischio

• ridurre l’uso indiscriminato della dieta per il controllo del peso corporeo

• promuovere uno stile di vita salutare (migliore alimentazione, maggiore esercizio fisico e minori disturbi del comportamento alimentare)

3.Prevenzione mirata

Oggetto: soggetti che, pur non presentando condizione di Obesità, tuttavia presentino sintomi o marker biologici che li predispongano a questo disordine metabolico.

Obiettivi:

• ridurre il numero di soggetti a rischio che sviluppano malattie associate all’Obesità;

• incrementare il numero di soggetti a rischio che mantengono con successo riduzioni anche modeste (5-10%)del peso corporeo;

• diminuzione dei soggetti a rischio che aumentano anche di poco (2 Kg) il peso corporeo.

Le questioni fondamentali

Il concetto di prevenzione dell’obesità ripropone il problema di base e cioè, se questa patologia può e quindi deve essere fronteggiata modificando l’introito calorico in eccesso o se il patologico incremento del tessuto adiposo sia da addebitare anche e soprattutto ad altre cause, responsabili oltre che dell’aumento della massa grassa anche dei fattori di rischio che si accompagnano alla disfunzione metabolica e non sono direttamente ed esclusivamente da essa dipendenti. In ogni caso, è opportuno intraprendere una prevenzione degli errori alimentari per eccesso e per difetto, avendo cura di indirizzare la cittadinanza ad adottare, insieme a corrette abitudini alimentari, anche stili di vita sani e rispondenti alle esigenze fisiologiche dell’organismo. In tal senso, poca o nulla prevenzione viene fatta, anche se il Ministero della Salute ha iniziato un iter che tende al coinvolgimento delle istituzioni e dei media per una corretta informazione della popolazione. Molto resta ancora da fare a partire dall’educazione scolastica, al controllo della pubblicità spesso fuorviante, al controllo sull’igiene dei prodotti alimentari, al favorire lo sviluppo di palestre convenzionate con il SSN per la riabilitazione motoria ed osteo-articolare dei soggetti obesi.

Ma obesità significa anche e soprattutto "sindrome metabolica" e cioè una patologia multifattoriale che vede nel binomio biologico e clinico insulino-resistenza/iperinsulinemia, la condizione favorente e che precede di decenni la comparsa delle temibili patologie correlate con l’obesità: diabete di tipo 2 con le complicanze relative; ipertensione arteriosa con esposizione a strock; dislipidemia con aumento del rischio di malattie cardio-vascolari, infarto del miocardio, scompenso cardiaco; sindrome delle apnee ostruttive notturne (OSAS) con destrutturazione del sonno, ipersonnia diurna -causa di incidenti sul lavoro e stradali-, ipossiemia e rischio di aritmie maligne notturne e di morte improvvisa, riduzione della libido e disfunzione erettile; steatosi epatica con steatoepatite e cirrosi epatica; alterazioni osteo-articolari con riduzione della capacità di deambulazione, minore autonomia e produttività lavorativa; maggiore incidenza di tumori del colon e della mammella.

Per queste patologie che caratterizzano la storia naturale della sindrome metabolica di cui l’obesità rappresenta la cima evidente dell’iceberg, ogni progetto di prevenzione diviene sterile se non mirato ad una visione olistica dell’obeso.

E’ necessario, pertanto, che accanto agli aspetti nutrizionali vengano presi in considerazione anche tutti quei fattori di rischio che vanno prevenuti, diagnosticati e trattati in tempo.

La presenza sul territorio nazionale di un ampio numero di Divisioni di Medicina Interna deve essere una opportunità da non perdere per attivare una rete di servizi di prevenzione, diagnosi e terapia dell’obesità.

Il Ministero della salute dovrà farsi carico di selezionare e rendere efficaci le divisioni e servizi che si candidino a tale funzione, organizzando corsi di formazione ed aggiornamento, favorendo l’aggregazione dei vari specialisti presenti nelle aziende ospedaliere (internisti, endocrinologi, dietologi, fisiatri, psicologi, dietisti, assistenti sociali, ecc.) allo scopo di realizzare, a costi ridotti, servizi multidisciplinari a favore degli obesi che, sottoposti a trattamento psicologico, dietologico, farmacologico e riabilitativo, potranno evitare danni più gravi e riducendo, nel contempo, i costi sociali diretti ed indiretti che tali patologie comportano per la collettività.

E’ altrettanto necessario che anche l’opinione pubblica venga sensibilizzata nei confronti di questa patologia e contribuisca all’integrazione del soggetto obeso come nei confronti di qualsiasi portatore di handicap; che si tenti di creare una cultura per procurare meno disagi sociali ai soggetti obesi – ad esempio, con la riserva di alcuni posti a sedere più ampi ed agevoli nei mezzi di trasporto pubblici (bus, treni, aerei, ecc.), facilitazioni all’accesso ai servizi igienici pubblici; disponibilità di un telefono amico per poter chiedere un consiglio o un aiuto durante una crisi bulimica o di depressione o per un’informazione clinica, psicologica, legale, previdenziale, ecc. ed ancora che si operi una stretta sorveglianza su aspetti di "malpractice" e tentativi di raggiro con proposte di terapie o farmaci miracolistici quanto pericolosi, procedure pseudo-alternative, ecc.

Due casi tipici Caso A L. G. di anni 65, nubile, con obesità grave (Altezza m. 1,49 , Peso 161 Kg. BMI 72.5), viene ricoverata presso una Divisione di Medicina Interna a causa di difficoltà nella respirazione (dispnea, cianosi) e perdite di sangue vaginali (metrorragia). La paziente, costretta a letto in quanto impossibilitata a muoversi, al minimo sforzo aggrava le condizioni respiratorie.

Alla anamnesi, progressivo incremento ponderale dall’età giovanile specie dopo la menopausa (all’età di 47 anni). Non ha mai praticato alcun serio tentativo dietetico, seguendo un regime alimentare non equilibrato per quantità e qualità.

All’ingresso in Divisione si riscontra la presenza di vaste piaghe da decubito nelle regioni lombosacrale e sottoscapolare. Imponente aumento di volume (linfedema) degli arti inferiori con ispessimento e ulcerazioni della cute (elefantiasi ed ittiosi).

Problemi

• notevoli difficoltà del personale infermieristico per accudire, mobilizzare, medicare per mancanza di specifici dispositivi atti al sollevamento dei soggetti per favorire le manovre di spostamento del malato;

• inadeguatezza delle strutture di ricovero per mancanza di attrezzature specifiche: letti ampi, dotati di dispositivi elettrici e meccanici che consentano al soggetto obeso autonomia di spostamenti e della postura, di materassi antipiaghe da decubito e di apparecchiature per il monitoraggio dei parametri vitali e di apparecchi di ventilazione non invasiva di supporto per terapia respiratoria non assistita (semi-intensiva);

• impossibilità ad effettuare la visita ginecologica e una indagine ecografica trans-vaginale, per la difficoltà del soggetto ad essere contenuta dal lettino ginecologico;

• impossibilità ad eseguire una Tomografia Computerizzata Pelvica a causa delle dimensioni della paziente che non hanno consentito l’accesso della stessa all’interno della apparecchiatura.

Caso B D. A. , di anni 42, in sovrappeso sin dall’infanzia, alta m. 1,65, peso Kg 118, BMI 43, è affetta da diabete mellito di tipo 2 e da Binge Eating Disorder. Presenta crisi compulsive compensative causate da una situazione di conflittualità familiare. Precedentemente si era sottoposta presso clinica privata ad inserzione di bolla gastrica (BIB) non traendo alcun beneficio dall’intervento.

Viene avviata ad un percorso clinico integrato che prevede:

• terapia di sostegno psicologica

• controllo clinico e farmacologico del disordine metabolico (Obesità, Diabete, Insulino-resistenza, Dislipidemia)

• dietoterapia

• terapia riabilitativa cardio-vascolare e muscolare.

Problemi

Mancano le strutture ove poter effettuare trattamenti adeguati pluridisciplinari integrati. Non è valido, né scientificamente, né operativamente, abbandonare questi malati, che presentano una patologia multifattoriale con delicate situazioni di fragilità affettiva, lasciandone il trattamento alla loro personale iniziativa, affidati a specialisti di cultura e indirizzo diversi, quando non divergenti.

Cosa prevede la normativa vigente

Caso A La non disponibilità di reparti attrezzati per l’Obesità grave ed invalidante rende impossibile il ricovero di questi soggetti se non presso le rianimazioni, e solo se dovesse essere rilevata la compromissione dei parametri vitali.

Questo comporta, oltre i disagi per questa tipologia di malati, anche l’inappropriata occupazione di posti letto di rianimazione con elevati costi di gestione ed indisponibilità dei posti letto da riservare all’emergenza per periodi di tempo prolungati.

Caso B Manca la possibilità, per questa tipologia di malati, di portare avanti programmi di terapia integrata psicologica, dietologica, clinica e fisio-riabilitativa.

Proposte concrete di soluzione

Caso A E’ necessario sensibilizzare gli organi di governo allo scopo di adeguare la rete ospedaliera alle esigenze emergenti e sempre più frequenti, che derivano da una massa di malati cronici come gli obesi che non possono essere sottoposti a trattamenti estemporanei senza una puntuale valutazione delle necessità e senza una adeguata programmazione. L’utilizzo delle divisioni internistiche, eventualmente ove presenti, con l’integrazione di tutte le figure di specialisti che concorrono alla definizione e alla soluzione della problematica, potrebbe aprire un nuovo corso ad un corretto approccio all’Obesità. Caso B E’ necessario prevedere Centri ad indirizzo unitario (clinico-psicologico-nutrizionale-riabilitativo) che possano seguire con competenza e autorevolezza l’obeso, offrendogli quel supporto di sicurezza e tranquillità emotiva che rappresenta la ricerca costante di questi malati.

Una storia

C. A. giunto all’ambulatorio delle Obesità con la richiesta di essere aiutato a dimagrire in quanto avvertiva da qualche tempo, dispnea e senso di affaticamento per sforzi di media entità e sonnolenza diurna.

Valutazione antropometrica:

• Altezza m. 1.75

• Peso Kg 139

• BMI 45.39

• Circonferenza vita cm. 141; Circonferenza fianchi cm. 147; WHR 0.96

Sono state eseguite analisi ematologiche che mettevano in evidenza:

• Alterazione del profilo di funzionalità epatica

• Iperinsulinemia e insulino-resistenza

• Iperglicemia post-prandiale

• Ipertrigliceridemia post-prandiale.

Alla visita andrologica, ammetteva di accusare diminuzione della libido e deficit erettile; la valutazione mediante scheda IIEF-5 dava un valore di 0 (valori normali: superiori a 21).

L’esame ecotomografico dell’addome evidenziava fegato con steatosi epatica e ad ecostruttura grossolana, iniziali segni di ipertensione portale con vene sovraepatiche a decorso tortuoso. Milza lievemente aumentata di volume.

L’esame esofago-gastroscopico evidenziava la presenza di 4 cordoni varicosi rettilinei esofagei, di colore blu.

Lo studio polisonnografico ha permesso di formulare la diagnosi di "Apnea Ostruttiva del Sonno di grado marcato" poiché, durante la registrazione notturna, si sono verificati 220 episodi di apnea ostruttiva, 5 episodi di apnea centrale, 5 di apnea mista e 168 di ipopnea.

La conclusione diagnostica è stata:

"Steatoepatite non alcolica (NAFLD) ad evoluzione cirrogena con presenza di varici esofagee in soggetto con obesità grave, Sindrome delle Apnee notturne (OSAS), diabete mellito di tipo 2 e deficit erettile".

La conclusione è che C. A. non era a conoscenza delle sue precarie condizioni di salute in quanto la patologia di cui era affetto, essendo a livello sub-clinico, non dava manifestazioni eclatanti.

Sottoposto ad un regime dietetico adeguato, con la raccomandazione di intraprendere attività fisica moderata e costante, ha visto tornare alla norma i parametri emato-chimici. Ha iniziato la terapia farmacologica del caso e la riabilitazione respiratoria durante il sonno, mediante ausilio di apparecchio di ventilazione di supporto (Auto C PAP), con un notevole miglioramento della sintomatologia accusata, riduzione del rischio di morte improvvisa e di incidenti.

2.3.12 Osteoporosi

Lo studio ESOPO (Epidemiological Study on the Prevalence of Osteoporosis), il primo e più ampio studio per la valutazione della prevalenza dell’osteoporosi nella popolazione italiana, ha coinvolto 83 Centri Universitari ed Ospedalieri e circa 16.000 pazienti (11.000 donne e 5.000 uomini), che sono stati invitati a partecipare allo studio dai loro medici di famiglia (circa 1.500 i medici di famiglia coinvolti). I dati principali di questo studio sono stati presentati lo scorso settembre al congresso internazionale ASBMR (American Society for Bone and Mineral Research), uno dei più importanti congressi mondiali sulle malattie dell’osso, e quindi anche sull’osteoporosi, che si è tenuto a San Antonio, USA.

I dati dello studio ESOPO confermano che l’osteoporosi è un fenomeno che colpisce principalmente la popolazione anziana femminile: circa il 32% delle donne oltre i 60 anni, circa il 46% delle donne oltre i 70 anni. Dall’analisi dei dati regionali si evince come il problema interessi in maniera quasi omogenea tutto il territorio nazionale: solo per citare alcuni estremi, si consideri che nella popolazione ultrasettantenne la prevalenza minore si ha nell’area Piemonte-Liguria (36.4%), mentre il picco (53.9%) sia ha nell’area Lazio-Umbria.

Al Congresso ASBMR sono stati, inoltre, condivisi i dati di un altro studio, ovvero la prima valutazione effettuata sulla popolazione italiana (uomini e donne ultraquarantacinquenni) sull’incidenza di fratture di femore, sulla base dei dati raccolti dal Ministero della Salute relativi all’anno 1999 (ultimo dato disponibile). I dati sono in linea con quelli osservati in altri Paesi del Sud Europa. Sono state identificate un totale di 60.931 fratture di femore nelle donne e di 17.777 fratture negli uomini, con una durata media di degenza ospedaliera di circa 16 giorni per i più anziani.

L’impatto socio-economico di tali fratture è enorme ed è stato precedentemente stimato in circa 860 milioni di euro (circa 1.700 miliardi di vecchie lire), pur considerando i costi dei DRG (interventi chirurgici e degenza per fratture osteoporotiche) limitatamente alla popolazione ultrasessantenne. A questi vanno aggiunti tutti i costi indiretti (disabilità, riduzione della qualità della vita, costi di assistenza, perdita di produttività del paziente e della sua famiglia, etc.) che sono stati stimati essere di circa 1.800 milioni di euro.

E’ fondamentale che le istituzioni siano coinvolte per la realizzazione di programmi educazionali per creare tanto nei medici che nei pazienti una maggiore consapevolezza di questa "epidemia silente".

Perchè "silente"? Le fratture (o deformità) vertebrali rappresentano la più comune complicazione dell’osteoporosi. Al tempo stesso, esse innescano un meccanismo a catena, esponendo il paziente ad un alto rischio di successive fratture, incluse quelle di femore: è stato dimostrato che 1 donna in menopausa su 5 con deformità vertebrali si fratturerà nuovamente nel giro di un anno. Ma proprio tali pericolose deformità vertebrali sono nella maggior dei casi "silenti", perché prive di sintomi: solo il 25-30% delle fratture vertebrali radiologicamente dimostrate è clinicamente rilevabile, quindi fino al 70% restano "silenti". Il solo modo pratico per verificare la presenza o meno di fratture vertebrali asintomatiche è eseguire un esame radiografico della colonna vertebrale (toracica e lombare). Per cui, un primo intervento per prevenire le ulteriori gravi complicanze potrebbe essere una maggiore diffusione dell’esame radiografico della colonna vertebrale, concentrandosi su quei pazienti osteoporotici ad alto rischio (es. per età, menopausa precoce, altri casi di osteoporosi in famiglia, uso concomitante di altri farmaci che provocano l’osteoporosi come i cortisonici, etc.) anche se non dovessero lamentare sintomi evidenti di deformità/fratture vertebrali.

Ma un’altra causa importante della sotto-valutazione delle deformità vertebrali risiede nella scarsa attenzione di clinici e radiologi nella lettura delle radiografie finalizzata alla diagnosi di eventuali deformità vertebrali. Ciò emerge da uno studio, presentato all’ASBMR, condotto in un Centro Universitario italiano (di Palermo), che ha coinvolto 193 soggetti che si erano rivolti al Centro e che avevano effettuato una radiografia della colonna vertebrale nei 3 mesi precedenti. Da nessuna delle radiografie era emersa la presenza di deformità vertebrali. Ogni radiografia è stata rianalizzata tramite uno specifico software (Spine-X Analyzer) che misura l’altezza delle vertebre e, quindi, evidenzia l’eventuale deformità. Le stesse radiografie sono state separatamente valutate da un radiologo del Centro, che le ha analizzate visivamente, senza aiuto del software. Il risultato è stato che nell’ 85% dei casi entrambe le valutazioni (computerizzata e manuale) hanno rilevato la presenza di almeno una deformità vertebrale, che non era stata diagnosticata precedentemente! Questa sottostima delle deformità vertebrali, confermata da tali dati, suggerisce da un lato la raccomandazione di un’attenta valutazione delle indagini radiologiche da parte di radiologi e clinici (ad esempio tramite Linee Guida per la corretta misurazione delle deformità vertebrali), dall’altro l’adozione di tecniche di misurazione delle deformità vertebrali più accurate ed avanzate (possibilmente computerizzate).

Nonostante l’enorme impatto al livello socio-economico delle fratture di femore, la percezione della loro frequenza e severità è ancora molto basso sia nella classe medica che nella popolazione, soprattutto se confrontata con altre patologie considerate "molto gravi", come per esempio l’infarto del miocardio. I dati del Ministero della Salute parlano di 57.569 casi di infarto negli uomini e di 28.531 nelle donne, ma l’importanza che viene data alla prevenzione primaria e secondaria per questa patologia è molto elevata, mentre l’importanza data alla prevenzione primaria e secondaria per le fratture di femore da osteoporosi è praticamente nulla, nonostante la loro diffusione e le conseguenze altrettanto drammatiche.

Basti pensare alla bassa percentuale di pazienti osteoporotici effettivamente trattati. Sempre lo studio ESOPO ha dimostrato che solo il 26% delle donne e il 3% degli uomini che hanno già avuto una frattura sono attualmente in trattamento con una terapia antiosteoporotica. Dati più dettagliati dimostrano che l’uso di bisfosfonati e calcio e vitamina D è molto basso: solo 1 donna su 10 ed 1 uomo su 100 già con una frattura è trattato con bisfosfonati.

Sicuramente la mancanza di sintomi evidenti di questa malattia, di cui si è detto, è uno dei motivi principali del mancato o ritardato intervento, per cui si conferma la necessità di una maggiore informazione dei cittadini. Ma anche la complessità dell’iter diagnostico descritto sopra (esame radiografico della colonna vertebrale, accurata misurazione dell’eventuale deformità vertebrale) contribuisce allo scarso intervento terapeutico. Infatti, le terapie più innovative per l’osteoporosi sono rimborsate dal Sistema Sanitario Nazionale solo al completamento del suddetto iter, cioè solo dopo la radiografia e l’accurata misurazione della deformità che, come si è visto, non sempre vengono effettuate. Una maggiore diffusione della radiografia nei pazienti ad alto rischio ed una più attenta e accurata valutazione della deformità (per es. tramite Linee Guida per i medici coinvolti) consentirebbero l’accesso al rimborso delle terapie antiosteoporosi a pazienti che già ne avrebbero diritto, con un conseguente risparmio complessivo per il Sistema Sanitario Nazionale (es. interventi chirurgici e ricoveri ospedalieri evitati).

Sarebbe, inoltre, auspicabile la valutazione dell’importanza della prevenzione primaria, cioè provare ad incidere sul periodo antecedente al verificarsi della prima frattura/deformità, magari in un gruppo di pazienti particolarmente esposti al rischio per la presenza di molteplici fattori di rischio (es. età, osteoporosi precoce, altri casi di osteoporosi in famiglia, uso concomitante di altri farmaci che provocano l’osteoporosi come i cortisonici, etc.). Ciò consentirebbe di intervenire più tempestivamente ed evitare i danni irreversibili e spesso progressivi generati dalla prima frattura osteoporotica, nonché i relativi costi sociali.
 
 


CONCLUSIONI E PROPOSTE


 






Le considerazioni sviluppate nell’arco di tutto il Rapporto, ma anche il mutamento di attenzione nei confronti delle cronicità, sia pure ispirato da ragioni legate alle difficoltà di sostenibilità economico-finanziaria del sistema, rendono conto della necessità di dedicare alle politiche di questa area specifica del nostro servizio sanitario e a ciò che ad esse si collega uno spazio ed una attenzione tutt’altro che episodici od occasionali. Il mondo delle cronicità, per ragioni che talvolta sono evidenti e perfino scontate, talaltra assai meno visibili, corre a rapidi passi verso la conquista, vera più che dichiarata, della centralità del nostro welfare sanitario. Ciò rende conto, peraltro, dei legami e degli intrecci evidenti, e per taluni versi indissolubili, tra le politiche per questa area e la generalità di ciò che si programma e si mette a disposizione dei cittadini in sanità.

Il dibattito poco più che ferragostano intorno al tema delle mutue integrative e/o sostitutive per la tutela dalla perdita della autosufficienza è un esempio concreto di tutto ciò.

Ma sono soprattutto talune istanze tipiche del mondo delle cronicità a rappresentare in maniera assai emblematica, ciò che i cittadini si attendono dal welfare del futuro. Pensiamo, per esempio, alla necessità di sviluppare un approccio integrato ai percorsi assistenziali, o alla richiesta di una attenzione diversa per la personalizzazione degli stessi, o al bisogno di disporre sempre di più della possibilità di essere presi incarico dal sistema e di non doversi preoccupare in prima persona, o attraverso i propri familiari, della ricomposizione di ciò che il servizio può offrire. Si tratta certamente di istanze legate ai bisogni del mondo delle cronicità, ma sempre di più abbracciate e sostenute dalla universalità dei cittadini destinatari dei servizi sanitari.

L’anno che ci lasciamo alle spalle ha avuto il pregio, al di là delle difficoltà non secondarie che ci ha regalato, di consentire l’emergere e il consolidamento di una serie di elementi che rappresentano, insieme ad altri, veri e propri punti di partenza per il rilancio, su nuove basi, della riflessione sul nostro sistema di protezione sociale, anche in ambito sanitario.

1. Il tema della sostenibilità, che è stato trattato prevalentemente se non esclusivamente come un tema di valenza economico-finanziaria, riveste in realtà una importanza non secondaria sul piano istituzionale e sociale, prima ancora che economico.

2. E’ evidente che si deve procedere, e con una certa coerenza, nella direzione della ridefinizione dei confini tra autonomia e responsabilità dei cittadini, delle comunità locali e dello Stato nelle sue diverse articolazioni. Non si può immaginare una sussidiarietà puramente redistributiva e un federalismo che si alimenti per mera sottrazione di ambiti di competenza istituzionale. Ciò richiede, peraltro, una assunzione di responsabilità di tutti questi pezzi del sistema nei confronti del paese, per evitare dinamiche e dialettiche improntate alla contrapposizione tra i diversi livelli di governo, che non giovano a nessuno. La concorrenza tra soggetti ed istituzioni non favorisce il sistema, complessivamente inteso.

3. Una ipotesi di sviluppo possibile per i prossimi anni potrebbe essere incentrata su un sistema sanitario nazionale nelle garanzie offerte a tutti e locale nelle forme e nelle modalità di gestione e di attenzione nei confronti delle preferenze e delle aspettative dei cittadini.

4. Universalità, solidarietà, eguaglianza sono stati sinora, pur tra mille pecche, inadeguatezze e inadempienze, i criteri ispiratori del nostro servizio pubblico. Questi tratti fondamentali devono restare alla base del sistema anche per il futuro, provando a rappresentare, peraltro, il collante attraverso il quale continuare a garantire, puntando su un assicuratore unico e pubblico, una nuova attenzione per la personalizzazione e l’integrazione dei servizi in una cornice di sostenibilità.

5. La transizione verso un assetto di tipo federalista richiede sempre, soprattutto nelle fasi di avvio e di messa a regime, la introduzione di patti ed accordi tra i diversi livelli di governo, tra loro e con i cittadini. Ciò significa che, se mai ce ne fosse bisogno, questo è un ulteriore elemento che spinge nella direzione del rafforzamento degli istituti di partecipazione, da quelli individuati dall’art. 14 del D. Lgs.vo 502/92 e succ. modificazioni e dall’art. 14 del D. L.gs.vo 229/99 a quanto previsto in tema di carte e conferenze dei servizi. Servono procedure di consultazione vere ed efficaci, che mettano effettivamente i cittadini nella condizione di intervenire sulle politiche sanitarie. I patti non esistono se non sono decisi di comune accordo e comunicati in maniera adeguata.

6. L’attenzione per gli standard di qualità, che dopo un avvio promettente ha subito il declino tipico del confinamento nell’ambito della riflessione di carattere tecnico, tra addetti ai lavori, deve recuperare per intero il suo legame con la partecipazione civica. Disporre di livelli essenziali di assistenza non garantiti sotto il profilo del rispetto degli standard di qualità può significare, a volte, disporre di una scatola vuota.

7. La necessità di puntare con decisione ad una diversa attenzione nei confronti della integrazione e personalizzazione dei percorsi e della verifica e del rispetto dei parametri essenziali di accessibilità, qualità e sicurezza richiede, tra l’altro, un impegno e un investimento assai più deciso, rispetto al passato, nei confronti dei distretti.

Al di là delle difficoltà evidenti che caratterizzano il sistema in questo momento, ci sembra che le riflessioni sviluppate, sia pure in maniera schematica e sintetica forniscano una serie di indicazioni molto concrete sull’orientamento della agenda per i prossimi mesi, indipendentemente dall’interlocutore di riferimento. Ad esse vanno affiancate molte delle indicazioni delle quali, in maniera più o meno esplicita, è disseminato l’intero Rapporto. Ci asterremo, come è costume di tutti i documenti ufficiali del Coordinamento, dalla indicazione di proposte specificamente inerenti le singole patologie. Indicheremo, invece, una serie di priorità che rappresenteranno una sorta di canovaccio delle priorità per i prossimi mesi.

1. Finanziamento della legge quadro sulla assistenza. Si tratta di una legge il cui valore risiede non solo nell’oggetto specifico, lo spettro estremamente ampio delle prestazioni socio-sanitarie, ma anche nel metodo ipotizzato per il raggiungimento dei diversi obiettivi. Una delle poche forme di attuazione possibile, già codificata all’interno delle norme, del nuovo articolo 118 della Costituzione.

2. Finanziamento della rete delle malattie rare. Bisognerà concentrare l’attenzione sulla istituzione dei centri di riferimento, per evitare che i contenuti della legge rimangano lettera morte. Ancora una volta la questione finanziamenti fa la differenza.

3. Legge quadro per la tutela delle cronicità. E’ una vecchia proposta del Coordinamento, che conserva intatta la sua validità. E’ indispensabile disporre di uno strumento che serva da riferimento generale e preveda, in maniera sufficientemente flessibile, le diverse tipologie di interventi socio-sanitari necessari per assicurare la tutela del diritto alla salute ad un malato cronico.

4. Testo unico delle leggi sanitarie. E’ previsto dall’ultima riforma della sanità, il Parlamento non è ancora riuscito a produrlo. Nella attuale fase di transizione del sistema, una iniziativa di questo genere avrebbe il pregio di essere utile a rappresentare, su molte questioni, una sorta di punto fermo.

5. Integrazione del Regolamento di individuazione delle malattie croniche ed invalidanti. E’ oramai possibile su iniziativa del Ministro della sanità, evitando nuovi passaggi parlamentari. E sono molte, ancora oggi, le patologie prive di qualunque riconoscimento e copertura.

6. Nuovo Nomenclatore tariffario nazionale. Va formalizzato al più presto, e approvato, un nuovo modello di Nomenclatore, più flessibile e capace di rispondere adeguatamente alle esigenze alle quali deve essere in grado di far fronte.

7. Proposta di legge per il sostegno alla ricerca sui farmaci orfani. E’ la strada già seguita da altri paesi, per esempio il Giappone e gli Stati Uniti, e che ha condotto al brevetto numerose molecole nuove da utilizzare nella terapia delle malattie rare. Si possono immaginare sgravi fiscali per le aziende che investono in questo settore, l’allungamento della validità del periodo di esclusività del brevetto, ecc.

8. Attuazione delle Leggi Bassanini. La piena attuazione delle forme di decentramento previste dalle Leggi Bassanini e l’estensione dei suoi benefici alla semplificazione delle procedure burocratiche di accesso al servizio per i malati cronici rappresentano, ancora, un obiettivo non raggiunto.

9. Riforma delle norme sul riconoscimento di invalidità. Mostrano, in tutta evidenza, di non essere più adeguate. Vanno ripensate, semplificate, riformulate in un’ottica di sburocratizzazione per i cittadini.

Come sempre l’individuazione di proposte concrete comporta anche la messa a fuoco degli interlocutori privilegiati con i quali dialogare. E’ evidente che la stessa tipologia di misure delineate individua nei diversi livelli di governo e nel Parlamento un interlocutore quasi naturale. Ma è altrettanto evidente che la gran parte delle affermazioni contenute in questo Rapporto rinvia alla necessità di avere nei cittadini e nelle loro organizzazioni un punto di riferimento essenziale e ineludibile. A loro spetta garantire in concreto la possibilità di coniugare i valori fondanti del nostro welfare, riuscendo al tempo stesso ad accettare la sfida per la sua modernizzazione. In altre parole, i cittadini guida della transizione e garanti della conservazione del sistema delle tutele.
 
 


APPENDICE METODOLOGICO-STATISTICA


 






La metodologia

Il Rapporto è basato fondamentalmente su dati e informazioni provenienti da quattro diversi insiemi:

• i dati ufficiali dell’ISTAT;

• i dati contenuti nel database della sala operativa centrale di PiT Salute, che ha sede presso la sede nazionale del Tribunale per i diritti del malato, nel quale sono registrati i contatti (telefonate, posta, posta elettronica, fax) che vengono gestiti direttamente dalla sede centrale;

• i dati provenienti dalla attività delle reti sul territorio e riguardanti tanto la gestione di richieste di intervento quanto, più in generale, segnalazioni sullo stato dei servizi sanitari;

• i dati e le informazioni provenienti dalle organizzazioni di tutela aderenti al CnAMC.

Per quanto attiene in particolare ai dati contenuti nel database della sala operativa centrale di PiT Salute, essi vengono sottoposti a cinque tipi di analisi.

Analisi dei contatti PiT

1. Si realizza in primo luogo una classificazione dei contatti per area di riferimento, allo scopo di individuare l’area specialistica o il settore del servizio sanitario dal quale con maggiore frequenza vengono segnalati problemi o richiesti interventi dai cittadini che si rivolgono al PiT.

2. In secondo luogo i contatti sono classificati per genere, distinguendo tra le segnalazioni di problemi e questioni e le richieste di assistenza, orientamento (cioè informazione qualificata), consulenza.

3. Quindi si prendono in considerazione gli oggetti dei contatti, mettendo a fuoco le situazioni, gli eventi, le questioni che hanno indotto il cittadino a mettersi in contatto con il PiT e a chiedere ad esso informazioni o aiuto. Ogni contatto viene classificato solo una volta per ciascuno dei cinque tipi di analisi, individuando e scegliendo l’aspetto prevalente.

4. Per ogni oggetto si identifica il principale attore del servizio sanitario coinvolto, allo scopo di raccogliere informazioni sugli interlocutori che, a seconda delle situazioni occorse ai cittadini che si sono rivolti al PiT, avrebbero dovuto agire e non lo hanno fatto o lo hanno fatto in modo ritenuto non soddisfacente.

5. I contatti sono stati classificati infine con riferimento ai 14 diritti dei cittadini contenuti nel Protocollo proclamato nel giugno 1995 dal Tribunale per i diritti del malato e da altre organizzazioni della cittadinanza attiva, allo scopo di ricavare informazioni sui diritti maggiormente violati o dei quali si richiede con più frequenza il rispetto.

E’ necessario sottolineare che i dati di PiT Salute raccolti e presentati in questo Rapporto non hanno rilevanza dal punto di vista statistico: essi, cioè, non sono espressione di un campione rappresentativo degli utenti del Ssn. C’è inoltre da considerare che quanti richiedono l’intervento del PiT sono incorsi in problemi o hanno incontrato difficoltà che non possono ovviamente essere estesi alla generalità dei cittadini.

Il significato dei dati utilizzati sta piuttosto nella loro capacità di costituire una sorta di termometro, vale a dire di essere spie o indicatori delle più rilevanti situazioni di malessere con le quali si misurano i cittadini nel loro contatto con il servizio sanitario. Le informazioni che emergono dal PiT possono infatti essere utili:

• per la registrazione di eventi sentinella, cioè di fatti o circostanze che non dovrebbero mai accadere e il cui verificarsi, anche una sola volta, indica l’esistenza di una situazione di emergenza o comunque patologica;

• per la scoperta di problemi nuovi e la indicazione di linee di tendenza emergenti;

• per la verifica dell’andamento di situazioni critiche per la tutela dei diritti dei cittadini.

A queste precisazioni e considerazioni va aggiunto che le informazioni contenute in questo Rapporto possono essere valutate nella loro portata - nella logica del termometro di cui si diceva prima - a partire da due considerazioni in relazione ai dati che normalmente vengono utilizzati per analisi, interpretazioni, previsioni sulla sanità in Italia:

• i dati ufficiali disponibili sono elaborati generalmente a distanza di due o tre anni dalla loro rilevazione, mentre le situazioni alle quali si riferiscono mutano assai rapidamente e tumultuosamente;

• essi consentono, nella quasi totalità dei casi, una fotografia dello stato delle cose in un dato momento, cioè una analisi sincronica, ma ciò di cui si avverte maggiore necessità è, al contrario, la disponibilità di dati e informazioni sulle linee di tendenza in atto.

Del resto, se un criterio di giudizio sul valore di qualunque produzione di informazioni è la utilizzabilità di esse, non si può sottacere che le precedenti Relazioni PiT sono state alla base di significativi mutamenti nella politica sanitaria, tanto dal punto di vista della definizione dell’agenda e delle priorità, che nella progettazione e nel varo di provvedimenti (ivi compresi quelli relativi alle leggi finanziarie), nei comportamenti degli attori, nella definizione dei criteri di valutazione delle azioni intraprese. Gli stessi programmi di azione del Tribunale per i diritti del malato, del Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici e del Tavolo dell’alleanza per la qualità nella sanitˆà tengono conto espressamente dei risultati della Relazione PiT.

La tabella che segue rende conto della suddivisione per classi di età dei cittadini che si sono rivolti al PiT nel corso dell’ultimo anno. I contatti riguardano per il 45,65% uomini e per il 54,35% donne, mentre la suddivisione per classi di età la seguente.
 
 


Tab. 1 Suddivisione per classi di età dei soggetti dei contatti con il PiT (%)

classe di età
oggi
2001
2000
1999
0-24
20,3
19,8
14,4
10,0
25-39
15,5
16,5
18,2
20,9
40-54
13,8
18,3
17,3
20,6
55-64
10,2
12,6
15,2
15,5
oltre 65
40,2
32,8
34,9
33,0
Non classificati
=
=
=
=
Totale
100,0
100,0
100,0
100,0
 
 

fonte: PiT Salute, 2001

L’utilizzazione del servizio da parte di soggetti che hanno superato i 65 anni di età appare sostanzialmente stabile: si tratta di una fascia di popolazione che vede le proprie esigenze ampiamente sottovalutate e, in parte, disattese, dal Ssn e ciò indubbiamente giustifica e spiega una percentuale di contatti così rilevante.

Per quanto riguarda la provenienza geografica dei contatti, essa risulta dalla tabella che segue.
 
 


Tab. 2 Provenienza geografica dei contatti del Pit

Regione
oggi
2001
2000
1999
Roma e provincia
47,1
49,0
53,4
34,9
Lombardia
8,4
10,2
6,0
9,4
Campania
4,2
5,0
4,6
7,2
Sicilia
6,1
4,8
3,8
6,0
Puglia
4,3
4,0
4,3
6,3
Veneto
3,7
3,7
3,4
3,8
Toscana
3,9
3,3
3,4
3,6
Lazio (senza Roma e prov.)
3,3
3,0
3,6
4,9
Piemonte
3,7
2,8
2,9
4,9
Calabria
2,5
2,7
2,5
3,7
Emilia Romagna
2,4
2,3
2,3
3,7
Sardegna
2,2
2,1
1,6
1,7
Abruzzo
2,0
1,6
1,6
1,4
Marche
1,0
1,1
1,4
2,0
Liguria
1,4
1,1
1,4
2,5
Umbria
0,8
0,8
0,8
0,1
Friuli-Venezia Giulia
0,8
0,7
0,8
1,3
Basilicata
0,6
0,6
0,9
0,6
Trentino
0,6
0,6
0,6
0,5
Molise
0,5
0,5
0,6
0,7
Estero
0,1
0,1
0,1
0,1
Valle d’Aosta
0,1
0,1
0,1
0,1
 
PiT Salute, 2001

La preponderanza dei contatti provenienti da Roma va ricondotta soprattutto a due fattori:

• un accesso al servizio facilitato dal minor costo delle telefonate;

• un miglioramento delle capacità del "sistema PiT" al livello regionale e locale di essere un punto di riferimento diretto per i cittadini, evitando per loro il ricorso alla sede centrale del servizio, il quale vede infatti sempre più aumentate le proprie funzioni di comunicazione, formazione e addestramento, facilitazione dei diversi "punti-rete".

Di fronte alla logica obiezione che una tale preponderanza di dati provenienti da Roma potrebbe ridurre il valore delle informazioni, può essere messo in rilievo il fatto che le informazioni che provengono dall’insieme dei punti-rete del PiT, e in particolare dai dati relativi ai contatti pervenuti alla centrale operativa da alcune sedi regionali e locali, oltre che dalle organizzazioni aderenti al Coordinamento, confermano pienamente le analisi e le interpretazioni derivanti dal database della sede centrale. Il tutto, lo ripetiamo, nei limiti conoscitivi già indicati sopra.
 
 


RINGRAZIAMENTI


 






Questo Rapporto nasce dal contributo del lavoro quotidiano di quanti, presso la sede nazionale del Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, cooperano alle attività ordinarie del Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici.. Un ringraziamento particolare va al presidente del Coordinamento, F. Tempesta, a C. Scattolon, che ha ricoperto sino allo scorso mese di ottobre l’incarico di responsabile del networking e ai componenti del Direttivo: Luisa Bartorelli, Giuliana Farinelli, Mariadelaide Franchi, Aurora L.Panizzi Ketmaier, M.Cristina Luchetti, Amalia Rossignoli.

Un ringraziamento va anche agli esperti che quotidianamente lavorano nella sede centrale del Tribunale per i diritti del malato. Per il PIT Salute: C.Berliri, M.Gentile, G.Mannella, M.Vitale per la parte front-line; tutti i consulenti e la responsabile dell’area medico legale, Carolina Petrangolini. Per i progetti: A. Lamanna, F.Moccia, E.Rosati, A.Terzi, G.Trentalance.

Si ringraziano, infine, i componenti della Scuola di Cittadinanzattiva e dei Dipartimenti amministrazione e organizzazione, relazioni esterne, networking e comunicazione per il lavoro svolto a sostegno delle iniziative connesse con questo Rapporto: A.Avenoso, G.Basso, A.Bizzarri, A.Bottiglieri, A.Cossu, B.D’Alessio, C.Dottori, V.Ferla, G.Geraci, A.Gaudioso, G.Grossi, G.Gubbiotti, A.Mandorino, R.Marchio, D.Mondatore, P.Pastore, C.Picciolo, B.Piermaria, C.Prost, G.Scaramazza, A.Tempesta.
 
 


L’ELENCO DELLE ASSOCIAZIONI CHE ADERISCONO AL COORDINAMENTO NAZIONALE DELLE ASSOCIAZIONI DEI MALATI CRONICI


 






AATC, Associazione amici traumatizzati cranici

ACT, Associazione per la cannabis terapeutica

ADIPSO, Associazione per la difesa degli psoriasici e vitiligine

AIC, Associazione italiana per la lotta contro le cefalee

AICE, Associazione italiana contro l'epilessia

AICH, Associazione italiana corea di Huntington

AID, Associazione italiana difesa diabetici

AIDIMA, Associazione italiana per la difesa degli interessi e dei diritti dei malati angiologici

AIDS ON LINE

AIE, Associazione italiana endometriosi

AIG, Associazione italiana morbo di Gaucher

AIMA, Associazione italiana malattia di Alzheimer

AINAD, Associazione italiana nutrizione artificiale domiciliare

AIPA, Associazione italiana pazienti anticoagulanti

AIP-BPCO Associazione pazienti broncopneumopatia cronica

AIPD, Associazione italiana persone down

AIRPI, Associazione italiana per la retinite pigmentosa e l'ipovisione

AISAC, Associazione per l'informazione e lo studio dell’acondroplasia

AISTOM, Associazione italiana atomizzati

AIUTIAMOLI, Associazione italiana famiglie ammalati psichici onlus

ALCMED, Associazione nazionale per la lotta contro la malattia emolitica da deficit di G6pd

ALICE Abruzzo , Associazione lotta ictus cerebrale

ALIR, Associazione lotta insufficienza respiratoria

ALMAR, Associazione laziale malati reumatici

ALMC, Associazione per la lotta alle malattie cardiovascolarI

ALOS, Associazione lotta osteoporosi

ALTS, Associazione per la lotta ai tumori del seno onlus

ALZHEIMER ITALIA- Federazione di 47 associazioni

AMAMI, Associazione malati anemia mediterranea AMAPO, Associazione malati di porfiria

AMB, Associazione italiana morbo di Behçet

AMIP, Associazione malati di ipertensione polmonare

AMOR, Associazione milanese di ossigenoterapia riabilitativa

ANEB, Associazione nazionale epidermolisi bollosa

ANED, Associazione nazionale emodializzati

ANF, Associazione neurofibromatosi

ANFFAS, Associazione nazionale famiglie disabili intellettivi e relazionali

ANIC, Associazione nazionale ipertesi cronici

ANIEP, Associazione nazionale per la promozione e la difesa dei diritti sociali e civili degli handycappati

Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici-Cittadinanzattiva 96 Terzo Rapporto sulle politiche della cronicità ELENCO DELLE ASSOCIAZIONI ADERENTI AL CNAMC

ANMAR, Associazione nazionale malati reumatici

ANTHAI, Associazione nazionale tutela handicappati e invalidi

ANTO, Associazione nazionale trapiantati organi

ANVAR, Associazione nazionale vittime abusivismo in riabilitazione

AP di Roma e del Lazio, Associazione paraplegici di Roma e del Lazio

APA, Associazione paziente allergico

APAI, Associazione patologie autoimmuni

ARAP, Associazione per la riforma dell'assistenza psichiatrica

ARD, Associazione italiana per la ricerca sulla distonia

ARI, Associazione retinica italiana

ARUO, Associazione regionale umbra osteoporosi

ASM, Associazione italiana studio malformazioni

ASSOCIAZIONE AURORA

ASSOCIAZIONE CIBO E’ SALUTE (sclerosi multipla)

ASSOCIAZIONE DIABETICI TORINO 2000

ASSOCIAZIONE EMOFILICI E THALASSEMICI

ASSOCIAZIONE LIGURE THALASSEMICI

ASSOCIAZIONE MALATI DI RENI

ASSOCIAZIONE PER LA LOTTA CONTRO LA RETINITE PIGMENTOSA

ASSOCIAZIONE PRADER WILLI

ASSOCIAZIONE PRIMAVERA E VITA (pro handicap)

ASSOCIAZIONE PROVINCIALE BAMBINO THALASSEMICO

AZIONE PARKINSON

CFS, Associazione italiana sindrome da fatica cronica

COMETA ASMME, Associazione studio malattie metaboliche ereditarie

COMETA, Coordinamento associazioni malattie metaboliche ereditarie

CONSULTA NAZIONALE THALASSEMICI

CUOREPIU’, Associazione cardiopatici in Campania

DIAPSIGRA, Associazione difesa ammalati psichici gravi

EUASA, Euroassociazione per la cura e la prevenzione delle patologie endocrine - ipofisarie – diabetiche e le patologie croniche rare ed orfane

FADOS, Federazione associazioni donne operate al seno

FAIP, Federazione associazioni italiane paraplegici

FAND, Associazione nazionale diabetici

FEDERASMA, Federazione associazioni asmatici allergici

FEDERAZIONE ASSOCIAZIONI EMOFILICI onlus

FINCO, Federazione italiana incontinenti

FONDAZIONE FUTURO SENZA THALASSEMIA

GILS, Gruppo italiano lotta alla sclerodermia

GRUPPO LES, Gruppo italiano per la lotta contro il lupus eritematoso sistemico

JDF ITALIA, Juvenile diabetes foundation Italia

LILA, Lega italiana per la lotta contro l’Aids

LILT, Lega italiana per la lotta contro i tumori

LINFA, lottiamo insieme contro la neurofibromatosi

LIOS, Lega italiana osteoporosi

MPS, Associazione italiana mucopolisaccaridosi

NATI, Nuova associazione thalassemici italiani

NUCLEO MOBILE DIALIZZATI

PARKINSON ITALIA

PRANARCEM, Privata associazione nazionale ricerca cure efficaci contro la mucoviscidosi

PROMETEO,Associazione per la promozione delle medicine e delle terapie olistiche (sclerosi multipla)

UILDM, Unione italiana lotta alla distrofia muscolare
 


Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici-Cittadinanzattiva 98



 
Torna alla Home page
Scrivi