Progetto Italia Federalea cura di Francesco Paolo Forti |
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di Pierre-Joseph Proudhon Ricordiamoci per prima cosa che tutte le costituzioni, differenti di tono e di colore, sono, in fondo, identiche: questo dato risulta già dall'enumerazione che ne abbiamo fatta; quanto segue ce lo dimostrerà sempre più. L'unità soprattutto è ciò di cui i sostenitori di ciascun sistema si mostrano più gelosi. È impossibile non riconoscere che essi ne fanno un principio. "Il potere è uno, indivisibile, universale, assoluto", dice l'autocrazia. Passi ancora, se non si trattasse che della prerogativa del monarca, rappresentante del gruppo politico. Come l'autorità paterna non deve affatto essere temuta, per la sua natura, nella famiglia, anzi è protettrice, benefica, devota; così si può perfettamente presumere che l'autorità regale, nello Stato, sia altrettanto buona e utile quanto razionale, poiché ha come base l'unità. Ma il dinasta vuole ben altro: per lui il gruppo politico sul quale comanda non ha confini; egli intende regnare su milioni di anime e su milioni di leghe quadrate, nello stesso modo in cui regna sul clan o sulla città di cui è il capo ereditario: pretesa tanto funesta quanto ingiuriosa ed assurda. In questo sta il principio della tirannia monarchica, la più antica di tutte. "La Repubblica è una e indivisibile", dicono a loro volta i democratici. Su questo non sbagliano, qualunque sia il senso che si dà al termine repubblica, associazione di cittadini, o anche di città, o governo. Qualunque repubblica divisa perirà: questo fatto è sicuro e certo e permette di giustificare, fino ad un certo, il culto dei repubblicani per l'unità e il loro terrore della divisione. Ma anch'essi cadono nell'errore e nella tirannia del despota, quando rifiutano di capire che, come i cittadini sono tutti uguali davanti alla legge e alle elezioni, le Città (cités), a loro volta, sono uguali nella sovranità e nel governo, come si conviene a personalità morali o a individualità collettive, e quando in conseguenza aspirano a sottomettere tutti i gruppi ad una unica autorità e ad un'unica amministrazione. In questo sta il principio della tirannia repubblicana o democratica, che è la più violenta e, perciò, la più passeggera. "La sovranità è una e indivisibile - riprende il juste-milieu - ma è esercitata collettivamente dal re (o dall'Imperatore), dalla Camera dei Pari (o dal Senato) e dalla Camera dei deputati". Ma che importanza ha questa collettività del governo, se, in uno stato grande come la Francia, per esempio, o anche solo come il Belgio, le Città (cités) restano indivise; se tutte le parti del corpo sociale sono, nei limiti del possibile, sottomesse alla stessa autorità, alla stessa legislazione, alla stessa giustizia, alla stessa amministrazione, alla stessa sorveglianza, alla stessa università, ecc.? Sotto qual punto di vista questa pretesa conciliazione del principio monarchico, dell'interesse borghese e dell'elemento democratico o repubblicano, è vera, e in che può essere utile? Si vede sempre meglio che tutta la differenza tra le costituzioni consiste nel fatto che, in una, il punto centrale del governo è un uomo; in un'altra, è un assemblea; in una terza sono due assemblee unitamente ad un re. L'ideale democratico vorrebbe che la moltitudine governata fosse nello stesso tempo moltitudine governante; che la società si identificasse con lo Stato, il popolo col governo, allo stesso modo che in economia politica produttori e consumatori sono gli stessi. Certamente non nego che queste differenti organizzazioni di governo, a seconda delle circostanze, e dal punto di vista del governo propriamente detto, non abbiano ciascuna un proprio valore: se l'estensione di uno Stato non dovesse mai oltrepassare quella di una città o di un comune, lascerei che ciascuno la pensi come vuole, e avrei detto tutto. Ma non dimentichiamo che si tratta di grossi agglomerati di territori, dove città, borgate, villaggi si contano a migliaia, e che i nostri uomini di Stato, da qualsiasi scuola provengano, hanno la pretesa di governare o regnare secondo le leggi del patriarcato, della conquista e della proprietà, cosa che io dichiaro, in virtù della legge stessa dell'unità, assolutamente impossibile. Insisto su questa osservazionc, che, in politica, è di capitale importanza. Tutte le volte che degli uomini, seguiti dalle loro donne e dai loro figli, si radunano in un luogo, uniscono le loro abitazioni e le loro culture, sviluppano nel loro seno industrie diverse, creano fra di loro relazioni di vicinato, e più o meno di buon grado si impongono delle condizioni di solidarietà, formano quello che io chiamo un gruppo naturale, che ben presto si costituisce in Città (cité) o in organismo politico, affermandosi nella sua unità, nella sua indipendenza, nella sua vita, nel suo movimento proprio (Autokînesis), e nella sua autonomia. Gruppi simili, lontani uno dall'altro, possono avere degli interessi comuni; e si può concepire che essi si accordino, si associno, e, tramite questa mutua assicurazione, formino un gruppo superiore; ma è inconcepibile che, unendosi per garantire i loro interessi comuni e per sviluppare la loro ricchezza, arrivino fino ad abdicare a sé stessi, per una sorta di autoimmolazione davanti a questo nuovo Moloch. E impossibile compiere un simile sacrificio. Tutti questi gruppi sono, indipendentemente da quanto pensano di sé stessi, e da quanto fanno, delle Città (cités), cioè degli organismi indistruttibili; tra i quali può certamente esistere un nuovo legame di diritto, un contratto di mutualità, ma che non possono spogliarsi della loro indipendenza sovrana più di quanto un membro della città possa, per la sua qualità di cittadino, perdere le sue prerogative di uomo libero, di produttore e di proprietario. Tutto quello che si otterrebbe, con una impresa del genere, sarebbe di creare un antagonismo irreconciliabile tra la sovranità generale e ciascuna delle sovranità particolari; di elevare autorità contro autorità; in una parola, mentre si immagina di sviluppare l'unità, di organizzare la divisione. Ora, voi potete modificare ogni sei mesi la vostra costituzione generale; potete moltiplicare all'infinito le variazioni del vostro sistema politico, ma se il principio dell'assorbimento unitario non viene modificato, se le Città (cités) o gruppi naturali sono sempre condannati a cancellarsi in seno all'agglomerato superiore, che si può definire artificiale, dal momento che non ha in sé nulla di necessario, e che, per suo obiettivo confessato, è il prodotto di un errore e tende all'impossibile, se infine l'accentramento resta la prima legge dello Stato, l'arcano del governo, allora la società, invece di progredire, girerà su se stessa, resterà rivoluzionaria, e, per poco che la situazione si aggravi, avanzerà rapidamente verso la decadenza e la rovina. I nostri legislatori e gli estensori delle nostre costituzioni, dopo il 1789, hanno avuto coscienza di questo pericolo. Hanno riconosciuto, senza mai comprenderne la causa, l'instabilità dei loro sistemi: perciò hanno accettato, in via di principio, la perfettibilità delle loro costituzioni. L'antico regime, o diritto divino, non aveva nemmeno supposto questa perfettibilità; ai suoi occhi, la fissità delle istituzioni era il sigillo della loro perfezione, sto per dire della divinità della loro origine. In questo l'antico regime non aveva ragione che per metà, come i teorici dell'89, con la loro perfettibilità costituzionale erano solo a metà in errore. I popoli, come abbiamo detto, sono trascinati in un cerchio governativo, che si può considerare come una fase preparatoria: da questo punto di vista, si può dire che, nella successione storica delle costituzioni, c'è una specie di progresso. Ma, quando la società ha ritrovato il suo equilibrio e vive la sua vita normale, la costituzione non cambia più, e sotto questo aspetto non si può più dire che ci sia un progresso. La perpetuità del movimento esclude una nozione simile. Per sovrappiù: ciascuno può vedere che misera risorsa abbia rappresentato per la Francia, dopo il 1789, questa pretesa perfettibilità costituzionale. I nostri governi non hanno avuto valore che per la fiducia che il paese ha loro concesso, e un po' anche per l'attrattiva della novità, che l'esperimento provoca sempre: una volta fatto l'esperimento, e consumata la fiducia, le dinastie sono cadute, senza che ci si sia degnati di proporre il minimo emandamento. Citiamo come prova il Consolato, i primi anni della Restaurazione e di Luigi Filippo. Chi pensa seriamente oggi a perfezionare la costituzione del 1852? Resterà quella che è, o sarà sostituita da un'altra, i cui autori, spero, non avranno la pretesa di annunciare la perpetuità della loro opera, mascherandola sotto il pretesto della perfettibilità e del progresso. Dopo quanto è successo con le costituzioni del 1791, 1795, 1848, 1852, che tutte avevano previsto e regolato anticipatamente la loro revisione, sarebbe puerile ripetere che la costituzione è perfettibile. Il vizio del sistema politico, vizio che si potrebbe chiamare costituzionale, consiste in questa condizione del potere: che le province e le Città (cités), dalle quali è composto lo Stato, e che, come gruppi locali, devono tutte godere della loro piena e completa autonomia, sono invece governate e amministrate, non più da loro stesse, ma da una autorità centrale, e come popolazioni conquistate. Ora, finché sarà mantenuta una simile condizione, che importa, ripeto, la forma del governo? E come immaginare che le pubbliche libertà, sacrificate a tal punto, trovino un rimedio nel perfezionamento della costituzione? Questo è privo di senso. Per diminuire il rigore di questa concentrazione mortale si è immaginato, oltre al perfezionamento legale della costituzione, di rendere il governo collettivo. Ho appena citato l'articolo della carta: "La sovranità, una e mdivisibile, è esercitata collettivamente dal re, dalla camera dei pari e dalla camera dei deputati". Il re è il rappresentante dell'unità, del potere centrale e della comunità degli interessi. I pari sono i notabili, di estrazione dipartimentale. I deputati sono eletti dai dipartimenti, proporzionalmente alla loro popolazione. Così ogni città, ogni provincia, ha, nelle camere, i suoi rappresentanti naturali. Il potere esecutivo è assegnato a dei ministri, venuti in maggioranza, se non tutti, dai dipartimenti, e che devono avere l'appoggio della maggioranza delle camere. Infine tutti i francesi hanno il diritto di criticare il governo; e hanno tutti parimenti il diritto di essere ammessi agli impieghi. Quante garanzie, non è vero? e di che fiducia non ha dovuto sentirsi penetrata la nazione, quando re Luigi XVIII le propose questa carta! Si dimenticò l'invasione, lo straniero presente nelle città, e tutte le disgrazie delle ultime guerre. Triste illusione! Considerate, lettori, ve ne supplico, anzitutto, che se la sovranità è esercitata in nome collettivo, essa è nondimeno, di per sé stessa, una e indivisibile, che la sua azione è essenzialmente unitaria, ch'essa si estende sulla totalità del paese e l'assorbe, che essa non può lasciare nulla fuori della propria portata, senza contraddire il proprio principio, senza andare contro il proprio scopo, senza esporsi a perire; in secondo luogo, che, rendendo questa sovranità collettiva voi non avete fatto altro che creare delle rivalità, delle opposizioni, degli antagonismi. Quanta pena per trovare in una maggioranza sette o otto uomini capaci di assolvere le funzioni ministeriali, che si intendano fra di loro, che siano di gradimento della corona, e che siano egualmente bene accetti alle due camere! Quante mutue concessioni sono indispensabili, e questo sempre, beninteso, a profitto dell'unità, a spese delle località particolari! Che fatica in parlamento! quanti intrighi! che posizione quella in cui si mette il principe!... Si è visto, sotto la monarchia di luglio, il giorno in cui Luigi Filippo non era più in grado di formare un ministero; lo si è visto divenir sospetto a tutte le fazioni della camera, imipopolare nella capitale e nei dipartimenti. Questa collettività del potere non è dunque che un eufemismo, che serve a nascondere la fatale dissoluzione alla quale sono in preda tutti i governi, qualunque sia il nome che si danno e la forma che ostentano. Per mantenere le loro prerogative e per combattere una dissoluzione sempre immmente, tutti i partecipi della sovranità si sforzeranno dunque di avocare a se stessi l'intero potere: il re lavorerà sottobanco per assicurarsi la maggioranza delle camere; il ministero vorrà essere più del re; l'opposizione denuncerà la camarilla; in breve, il paese avrà in questa santa collettività, lo spettacolo della discordia. Quanto a me, io non lo nascondo: trovo del tutto naturale che, scontato il principio di un governo accentratore, l'autore del 2 dicembre si sia subordinato il Senato e le Camere; il sistema, come del resto si sa, non è migliore; ma almeno è più logico; e dopo i dibattiti del periodo 1830-1851 questo silenzio ci era dovuto. Quanto al sistema di Sieyès, e alla maniera con la quale egli pretendeva di eludere la difficoltà, non era altro che un trucco da metafisico, tendente a reintrodurre addirittura la monarchia parlamentare. Essendo l'esercizio collettivo del potere senza risultato utile, e per di più illusorio, si è immaginato dì dividere quest'ultimo, purtuttavia senza attentare al principio d'unità: ed ecco come. Impadronendosi del principio economico della divisione del lavoro o separazione delle industrie, il legislatore ha detto: i poteri saranno separati nello stato; le funzioni e gli impieghi saranno distribuiti secondo la stessa legge. Questa è la condizione di un governo libero. In conseguenza, una cosa sarà il potere legislativo, e un'altra il potere esecutivo; un'altra l'amministrazione, e un'altra la giustizia; un'altra la chiesa e un'altra l'Università; e così di seguito, fino al giudice di pace, che non sarà la stessa persona che fa il giudice commerciale, fino alla guardia campestre, che non sarà la stessa che fa la guardia delle acque e delle foreste. Dio mi guardi dal riprovare un principio che io stesso ho lodato, e di cui nessuno potrebbe disconoscere la potenza e la fecondità. Ma qui chi non vede che il legislatore, librandosi sulle altezze costituzionali, ha perduto di vista la terra, e che dal vago in cui si aggirava il suo pensiero è caduto nel più pietoso degli equivoci? La separazione delle industrie avviene in due condizioni differenti: o le industrie separate sono indipendenti l'una dall'altra, e ogni imprenditore resta padrone assoluto delle sue operazioni: così il commerciante e il trasportatore, pur trattando insieme, non sono solidali e testano completamente liberi; così il medico e il farmacista; il macellaio e il rosticcere; il panettiere e il commerciante in farina, ecc. Forse che è questo quello che succede nel governo? Evidentemente no: la separazione dei poteri fatta così distruggerebbe l'unità, e non solo l'unità conquistatrice, che tende a sottomettere a un'autorità particolare dei gruppi indipendenti per natura, viventi di loro propria vita e affermanti la loro volontà; ma anche l'unità nazionale, che esercitandosi nei giusti limiti, esclude ogni idea di divisione. In una parola, non è solo l'accentramento imperiale che diverrebbe impossibile con una tale separazione dei poteri; è ogni specie di governo; e la Città stessa. Oppure la separazione industriale, limitata alle diverse manipolazioni di una stessa industria, di una sola impresa, si compie all'interno della manifattura o fabbrica; e si vedano gli esempi che ne ha dato Adam Smith per la fabbricazione degli spilli, e Jean-Baptiste Say per quella delle carte. In questo caso le funzioni separate non sono più indipendenti, sono messe sotto la superiore direzione del padrone, in nome e per conto del quale si eseguono i diversi lavori. Ed è così che sono stati organizzati i poteri nei nostri governi. Certamente l'ordine ne guadagna, il procedere degli affari è più sicuro; sotto tutti gli aspetti, il sistema funziona con maggiori vantaggi. Ma che cosa vuol dire questo, ancora una volta, per la libertà delle città e delle province, e conseguentemente per quella dei cittadini stessi? Che cosa vuol dire per la stabilità del governo? In che cosa sono diminuite la concentrazione e l'assorbimento? In che cosa è diminuito l'antagonismo? In che cosa sopite le discordie e le divisioni? E in che cosa, infine, scongiuriamo il rischio delle rivoluzioni? Il principio della separazione dei poteri, in quanto ha di veramente utile, è da noi anteriore alla rivoluzione dell'89, che non ha fatto altro che migliorarne l'applicazione: ora, dalla riforma dell'89 e con essa nel conto, noi abbiamo avuto dieci o dodici cambiamenti di governo. Il principio della divisione dei poteri, per il caso di cui ci occupiamo, è dunque assolutamente impotente. Si è cercato un contrappeso a questa centralizzazione opprimente in una organizzazione municipale e dipartimentale. Se ne parlava molto dal tempo di Luigi Filippo; se ne parlava sotto la Restaurazione; Napoleone I stesso se ne interessava, e se ne riparla più che mai sotto il suo erede. I sostenitori. del juste-milieu, che nel nostro paese sono sempre i più numerosi, sono quelli che insistono più vigorosamente su questo punto. Sembra loro che restituendo al comune una certa iniziativa, si darebbe un equilibrio stabile al potere; che si toglierebbe quello che ha di atroce la centralizzazione; che, soprattutto, si sfuggirebbe al federalismo, che è oggi loro così odioso come lo era, ma per altre ragicni, ai patrioti del '93. Questo tipo di persone ammira volentieri la libertà svizzera e americana; ce la ammanniscono nei loro libri; se ne servono per farci vergognare della nostra adorazione del potere; ma non consentirebbero per niente al mondo ad attentare a questa bella unità che costituisce, secondo loro, la nostra gloria, e che le nazioni, sempre secondo loro, ci invidiano. Dall'alto della loro impertinenza accademica, costoro trattano da esagerati e da intemperanti gli scrittori che, curanti della logica e fedeli alle pure nozioni del diritto e della libertà, chiedono di affrancarsi una buona volta dal dottrinario circolo vizioso. Edouard Laboulaye è uno di questi geni rammolliti, capaci di conoscere la verità e di mostrarla agli altri, ma per i quali la saggezza consiste nello snaturare i principi con delle conciliazioni impossibili; che vogliono sì limitare lo Stato, ma alla condizione di limitare anche la libertà; tagliare gli artigli al primo, purché si mozzino le ali alla seconda; la mente dei quali, infine, tremando davanti a una sintesi ampia e vigorosa, si compiace di oscuri arzigogoli. Laboulaye fa parte di un gruppo di persone che, mentre rivendicano contro l'autocrazia imperiale le cosiddette garanzie di luglio, si sono date per missione di conculcare le aspirazioni del socialismo e del federalismo. E lui che ha scritto quella bella frase, che ho avuto di primo acchito la tentazione di mettere come epigrafe di quest'opera: "Quando la vita politica è concentrata in una tribuna, il paese si spezza in due, opposizione e governo". Ebbene, che Laboulaye e i suoi amici, così zelanti in apparenza per i diritti comunali, si degnino di rispondere a una domanda, a una sola domanda. Il comune è per la sua stessa essenza, come l'uomo, come la famiglia, come ogni individualità o collettività intelligente e morale, un ente sovrano. In quanto tale il comune ha il diritto di governarsi da se stesso, di amministrarsi, di imporsi delle tasse, di disporre delle sue proprietà e dei suoi proventi, di creare delle scuole per la sua gioventù, di nominarvi degli insegnanti, di costituire la sua polizia, di avere la sua gendarmeria e la sua guardia civica; di nominare i suoi giudici; di avere i suoi giornali, le sue riunioni, le sue particolari associazioni, i suoi magazzini, il suo mercuriale, la sua banca ecc. Il comune prende delle delibere, emana delle ordinanze: che cosa impedisce che esso arrivi a darsi delle leggi? Il comune ha la sua chiesa, il suo culto, il suo clero, liberamente eletto; esso discute pubblicamente, in consiglio municipale, sui suoi giornali o nei suoi circoli, tutto quanto attiene ai suoi interessi o accende le sue idee. Ecco che cosa è un comune, perché questa è la vita collettiva, la vita politica. Ora la vita è una, intera, piena d'azione, e questa azione è universale; essa respinge ogni impedimento, non conosce altro limite che se stessa; ogni coercizione dall'esterno le è ripugnante e mortale. Che Laboulaye e i suoi correligionari politici ci dicano dunque come intendono accordare questa vita comunale con le loro riserve unitarie; come eviteranno i conflitti; come pensano di mantenere fianco a fianco la libertà locale e la prerogativa centrale; limitare questa e frenare quella, affermare contemporaneamente, nello stesso sistema, l'indipendenza delle parti e l'autorità del tutto. Che si spieghino, così che li si possa conoscere e giudicare. Non c’è via di mezzo: il comune sarà sovrano o sarà una succursale, tutto o niente. Dategli una parte tanto bella quanto volete: ma poiché questa non dipende più dal suo proprio diritto, poiché riconosce una legge più alta; poiché il gran gruppo che si chiama la repubblica, la monarchia o l'impero, di cui esso fa parte, è dichiarato suo superiore, e non espressione dei suoi rapporti federali, è inevitabile che un giorno o l'altro si trovi in contraddizione con esso e che nasca il conflitto. Ora, quando ci sarà conflitto, la logica e la forza vogliono che sia il potere centrale a riportar vittoria, e questo senza discussione, senza giudizio, senza transazione, essendo inammissibile, scandaloso, assurdo, il dibattito fra il superiore e il subalterno. E noi dunque torneremo sempre, dopo un periodo di agitazione dottrinaria e democratica alla negazione dell esprit de clocher, alla centralizzazione, all'autocrazia. L'idea di una limitazione dello Stato, là dove regna il principio di una centralizzazione dei gruppi, è dunque un'inconseguenza, per non dire un'assurdità. Non c'è un altro limite allo Stato che quello ch'esso s'impone da sé medesimo lasciando all'iniziativa municipale e individuale certe cose di cui provvisoriamente esso non si cura affatto. Ma, la sua azione essendo illimitata, può succedere che esso voglia estenderla alle cose che in un primo tempo aveva sdegnate; e poiché esso è il più forte, poiché non parla e non agisce mai se non in nome dell'interesse pubblico, non solo otterrà quello che chiede, ma davanti all'opinione pubblica e ai tribunali avrà ancora ragione. Poiché ci si dice liberali e si ha il coraggio di parlare dei limiti dello Stato, pur conservandone la sovranità, che si dica ancora quale sarà il limite della libertà individuale, corporativa, regionale, societaria, quale il limite di tutte le libertà. Che ci si spieghi, poiché ci si crede filosofi, che cosa è mai una libertà limitata, che subisce delle eccezioni, subordinata, strettamente vigilata; una libertà alla quale "si è detto, mettendole la catena e attaccandola al picchetto: vai fino a lì, non andare oltre. Come ultimo mezzo per bilanciare e contenere l'autorità centrale, e per proteggere contro i suoi travalicamenti le pubbliche libertà, si è organizzato il suffragio universale e diretto. Ne parleremo più oltre, terminando qui la critica generale delle Costituzioni. Testo tratto da: Pierre-Joseph Proudhon, "Contradictions politiques", in: Oeuvres complètes, Parigi, Rivière, 1952, cap. VI, pp.235-247. |
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