Progetto Italia Federale

Approfondimenti
a cura di Francesco Paolo Forti
Il federalismo sbagliato
(Giuseppe De Rita
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 Ultimo aggiornamento: Dicembre 2002
 
 
dal Corriere - 2 dicembre 2002

L’accesa dialettica politica tra i fautori della costruzione dello Stato federale e gli avversari della decostruzione dello Stato nazionale merita qualcosa in più dei toni infiammati. Comporta cioè il dovere, culturale, prima ancora che civile, di segnalare che sbagliano tutti, nella maggioranza come nell’opposizione. L’errore sta nella comune sottovalutazione del fatto che l’Italia è un arcipelago, segnata com’è da un grande policentrismo di soggetti, di situazioni territoriali e di poteri. E che è quindi del tutto inadatta al verticalizzato paradigma piramidale della nostra tradizione istituzionale. E tale alterità rende incoerenti con la realtà le varie incarnazioni del citato paradigma, sia esso interpretato dallo Stato nazionale o si traduca in venti piccole piramidi di governo regionale.

La piramide statuale, costruita a forza e per necessità dai nostri padri risorgimentali, ha dimostrato negli ultimi decenni di non resistere allo sfarinamento dal basso dei diversi poteri operanti nell’arcipelago italiano. La sua difesa oggi è ancora più problematica, visto che la globalizzazione e l’integrazione europea ne riducono il potere anche in alto; e tanto più che abbiamo visto negli ultimi decenni fallire i tentativi di rinsanguarne le funzioni e di articolarne le strutture (con le esperienze del parastato, delle partecipazioni statali, delle agenzie, delle stesse autorità indipendenti).
L’alternativa a questa irrevocabile destrutturazione dello Stato non può essere quella di riprodurne lo stampo, miniaturizzandolo in venti piccole piramidi per ognuna delle Regioni italiane. E invece questa è la strada, o il tunnel, che tutte le forze politiche hanno imboccato.

Hanno cioè pensato che un tessuto istituzionale coerente con il grande policentrismo italiano potesse essere garantito da un regionalismo forte (le Regioni come piccoli Stati), infiocchettato con i termini di federalismo o di devoluzione. L’incauta riforma del «Titolo V» compiuta dalla sinistra alla fine dell’ultima legislatura andava chiaramente in tale direzione, le proposte messe sul tappeto dell’attuale maggioranza pure. Non a caso, si mette oggi l’accento sul trasferimento delle due competenze che hanno storicamente fatto lo Stato (polizia e scuola) e di quella che dagli anni Sessanta innerva il Welfare State (sanità).

Venti piccole piramidi, fossero anche gestite con staliniano decisionismo regionale, non riusciranno mai a governare la policentrica articolazione dell’arcipelago italiano. Questa, che è sfuggita alla piramide statuale, non si farà incapsulare dalle piramidine regionali, anzi sarà più propensa ad affrancarsene: un potere centrale, quindi lontano, può anche essere accettato come potere di indirizzo generale; un potere regionalizzato, troppo prossimo e privo di prestigio culturale d’indirizzo, sarà sempre visto come burocratica sovrapposizione alla realtà socioeconomica quotidiana. E diventerà sempre più importante il rapporto con i poteri più legati alla vita delle comunità locali, dai Comuni alle Province, dalle comunità montane alle università, dalle camere di commercio agli enti fiera.

Bisogna cominciare a convincerci che con il regionalismo a paradigma piramidale non si costruiscono né devoluzione né federalismo né governo delle periferie. Non si costruisce devoluzione, perché una compiuta devoluzione richiede un’ulteriore fase di decentramento (di devolution della devolution) su cui oggi non c’è minima attenzione e concertazione con gli enti locali. Non si costruisce federalismo perché il federalismo è cosa più complessa in termini di respiro istituzionale che il rapporto più o meno vertenziale fra lo Stato e i venti governi regionali. E ancor più non si costruisce governo delle periferie perché il regionalismo forte (o presunto tale) è l’esatto contrario di uno Stato delle autonomie, dove i poteri si articolano in orizzontale e si condensano dal basso, fuori della logica discendente dall’alto di ogni piramide.

Se non si fosse all’irragionevole contrapposizione di facciata (di facce da non perdere) ci sarebbe da proporre una pausa di seria riflessione in cui tentare di fare il tessuto prima del vestito, cioè di riordinare dal basso il policentrismo dei poteri locali, sperimentando quella nuova distribuzione dei poteri sul territorio senza la quale ogni riforma costituzionale resta solo affermazione di principio, senza possibilità di atterrare sulla realtà. L’ipotesi apparirà improbabile per i tanti accesi propositori ed emendatori oggi in azione; ma forse converrebbe anche a loro, visto che il rischio più probabile è quello indicato da Massimo Cacciari, cioè che tutto diventi una bolla di parole, caldissima ma destinata a sgonfiarsi nel tempo.

di GIUSEPPE DE RITA