Progetto Italia Federale

Approfondimenti
a cura di Francesco Paolo Forti
Del Principio Federativo
di Pierre-Joseph Proudhon
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 Ultimo aggiornamento: Agosto 2000
 
Introduzione e traduzione a cura di Paolo Bonacchi

Ringrazio la cara amica Tiziana Rogora
per la collaborazione offerta nella traduzione
e nella correzione del testo.

Paolo Bonacchi


Premessa

Abbiamo tradotto dal francese questo libro per far conoscere il Federalismo nella purezza dei suoi principi secondo il pensiero del più grande dei federalisti moderni: Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865). Forse nessuno come lui ha saputo descriverlo in modo tanto efficace e comprensibile anche per i non addetti ai lavori.

Forze oscure agiscono contro gli uomini come contro la società. Queste forze si riassumono nell'ignoranza e nel potere che per dominare impediscono con la loro azione la crescita delle coscienze. Molti cittadini, anche colti, si pongono davanti al tema della politica con grande superficialità e con una concezione dello Stato altrettanto arbitraria di quella che dell'universo avevano gli uomini del Medioevo. Tuttavia alcuni di loro si prestano al gioco della politica, più per soddisfare le proprie ambizioni o per i vantaggi economici che sperano di ottenere, che per un reale sentimento di servizio nei confronti della collettività

Non è facile al tempo d'oggi per un cittadino comune come per un politico, avere la pazienza e la buona volontà necessarie per leggere un libro di politica scritto più di un secolo fa. Lo scempio che viene quotidianamente perpetrato contro lo spirito della società da chi detiene il potere delle informazioni, ha allontanato gli italiani dalla passione della politica e dalla partecipazione alla vita collettiva. Tuttavia quelli che si vorranno cimentare nell'impresa di leggere "Del principio federativo" e si sforzeranno di capire quanto in esso contenuto, si renderanno conto di quali siano le ragioni ed i principi del federalismo, di cui molti oggi parlano senza conoscerlo

La gente in genere crede che per ottenere uno Stato federale sia sufficiente portare le istituzioni "un pò più vicine ai cittadini". Ma non è affatto così, perché la prima condizione del federalismo è che lo Stato sia un effetto della loro volontà. Le istituzioni poste più vicine ai cittadini, sono una conseguenza del federalismo, non certamente la sua causa.

La grande difficoltà nell'essere dei veri federalisti consiste nel fatto di conoscere le sue origini, i suoi principi e le ragioni sulle quali poggia. Chi si dichiara contrario al federalismo, poi, dovrebbe almeno avere il pudore di giustificare l'avversione con argomentazioni che dimostrino la conoscenza di ciò che avversa.

Del resto non si può neppure continuare ad avere la pretesa di cambiare lo Stato in senso federale, presentando ai cittadini un'immagine assurda, falsa, incompleta o di comodo di ciò che esso è, come in genere fanno i politici.

La trasformazione dello Stato in senso federale che essi propongono non è che una gigantesca truffa, un inganno, una miserabile menzogna; nelle loro intenzioni di federalismo non c'è assolutamente niente.

Sebbene siano sconosciute al grande pubblico, le opere di Proudhon sono state studiate da sociologi, filosofi ed economisti ed il suo pensiero è stato condiviso sia da conservatori sia da progressisti, da sindacalisti riformisti o rivoluzionari, da circoli di estrema destra e da circoli di estrema sinistra, da liberali e da comunisti ed anche da reazionari.

I più attribuiscono ciò alle contraddizioni del suo pensiero in cui ognuno può vedere quello che gli torna comodo. La verità non ha definizioni, non ha partiti né correnti, né indirizzi particolari. Per trovarla, è però necessario cercare con attenzione, guardare in profondità, e non limitarsi a leggere superficialmente o isolatamente solo le parti che corrispondono al nostro punto di vista.

Forse è per questo che nelle opere di Proudhon destra e di sinistra possono ritrovare le proprie ragioni ed avere una idea errata della frammentarietà e del disordine delle sue analisi. Leggendo tutte le sue opere e riflettendo sul loro contenuto, è facile trovare la radice unitaria e quindi senza contraddizioni del suo pensiero.

Alla traduzione del testo non abbiamo aggiunto alcun commento personale, né abbiamo riportato giudizi o osservazioni di scienziati della politica, o di filosofi, sociologi ed economisti.

Ci è capitato di conoscere le opere di Proudhon per caso, da semplici cittadini che ad un certo punto della vita, alcuni anni orsono, hanno voluto occuparsi della politica.

Abbiamo cercato di capire il federalismo al di fuori degli schemi, dei partiti, delle fazioni, degli indirizzi, e ci siamo convinti che ognuno deve farsi una sua idea personale di cosa esso sia e speriamo che l'opera che qui presentiamo tradotta in italiano possa aiutare il lettore a capire su quali principi inviolabili esso si regga.

Le note, le classificazioni, gli accostamenti, le divergenze, le esaltazioni e le condanne, oppure i tagli suggeriti dalla convenienza ideologica di chi ha voluto interpretare questo autore con spirito di parte, avrebbero potuto influire negativamente sulla libertà di giudizio del lettore. Che ognuno giudichi da sé, secondo la propria capacità, esperienza e spirito di osservazione: pensiamo che questo sia il modo migliore per apprezzare la sua opera ed entrare in sintonia col federalismo.

Il lavoro, a parte il rigore della traduzione, non ha alcuna pretesa scientifica. E' bene lasciare agli scienziati il compito di analizzare ed approfondire le singole parti dell'opera. In Del principio federativo Proudhon si rivolgeva direttamente ai suoi lettori, che erano più che altro semplici operai, artigiani, piccoli commercianti: gente comune che aveva poca o nessuna dimestichezza con le scienze sociali. Ci siamo limitati a riproporre il suo pensiero con le sue stesse parole. Ognuno potrà poi valutare quanto grandi fossero le sue intuizioni politiche con ciò che l'esperienza di questo secolo ci ha dimostrato, e capire quanto ingiustificati fossero i giudizi negativi di coloro che, per convenienza personale o politica, lo hanno condannato o dimenticato.

Via via che il libro scorrerà davanti ai vostri occhi vi renderete conto delle enormi forze che in ogni tempo agiscono nella società; della natura e dell'origine del potere; delle sue degenerazioni attraverso i partiti; di come la debolezza e l'eterna variabilità degli uomini influiscano sulla politica; ed ancora del perché si formi uno Stato unitario accentrato, che con le sue infinite leggi permette lo sviluppo e la crescita della corruzione e dello spreco e come esso generi naturalmente l'elefantiasi della burocrazia; conoscerete le ragioni per cui il capitale si allea volentieri con i partiti e come il popolo, in una democrazia, possa finire col non contare quasi niente; come le elezioni, in un regime democratico, possano essere solo una finzione, una maschera del potere; ed ancora perché le leggi dello Stato non riflettano tanto la volontà del popolo, quanto quella dei gruppi economici che attraverso i partiti ed i sindacati lo dominano. Vi sembrerà che il libro sia stato scritto ieri e non centotrentacinque anni fa.

In poche parole: chi avrà la pazienza di leggere tutto il libro e di meditarlo capirà come col federalismo, che Proudhon presenta nella sua vera natura, ogni società possa progredire tranquillamente nella sicurezza e nel maggiore benessere, perché ognuno sa che lo Stato, costruito dal popolo per il popolo, gli è amico e gli rende più libera, facile, serena, dignitosa e sicura la vita di ogni giorno.

Ancora una cosa chiediamo ai lettori: non abbiate pregiudizi su Proudhon, senza aver letto le sue opere. Egli ha sempre avuto contro il potere economico, il potere politico ed il potere della Chiesa; ma il modo in cui essi, nel suo secolo ed in quello in cui viviamo, abbiano rappresentato una economia, un potere, ed uno Spirito al servizio dell'uomo, è storia che tutti conoscono.
 
 





Introduzione

 






Abbiamo detto che le opere di Proudon sono pressoché sconosciute in Italia. L'anatema di Marx contro di lui in Miseria della filosofia,comunemente citato col nome Anti-Proudhon, che scrisse in risposta al libro di Proudhon Le contraddizioni economiche o Filosofia della miseria, è valido ancora oggi. A nulla serve osservare che prima di aver letto Le contraddizioni economiche, ben diverso era il giudizio di Marx su Proudhon. Lo aveva definito "Il Rousseau-Voltaire di Luigi Bonaparte".

Esclusi coloro che lo conoscono per motivi di studio, per molti altri Proudhon è ricordato per la risposta che lui stesso diede ad una domanda che era anche il titolo di un suo libro: " Che cosa è la proprietà?", "La proprietà è un furto" affermò.

In realtà Proudhon non intendeva affatto la proprietà in sé come un furto, anzi sosteneva che " La proprietà è la libertà ", tuttavia essa lo diventa quando è " la somma degli abusi odiosi della ricchezza" che genera povertà e miseria per i più deboli e per i fanciulli che senza colpa devono subirla.

Abbiamo voluto fare questa breve premessa, per rendere un poco di giustizia a questo straordinario pensatore francese condannato ingiustamente ad essere dimenticato o mal interpretato.
 
 






Il socialista, l'ateo e l'anarchico.

 




Torniamo, dunque, al Proudhon che viene presentato come socialista, anarchico ed ateo. Togliamoci il paraocchi dei pregiudizi e delle false informazioni e giudichiamolo, se ciò è opportuno, dalle sue stesse opere.

Per lui essere socialista, significava probabilmente definire, isolare e conoscere le forze che agiscono nella società per effetto della natura e del comportamento degli uomini. Egli dimostra in ogni suo scritto di riufiutare e di non identificarsi sia nelle tendenze comuniste che hanno preceduto Marx, come nella teoria politica ed economica da questo affermata. Le sue origini modestissime gli fecero presto comprendere quanto ingiusta fosse la miseria soprattutto per i fanciulli innocenti che come lui, senza colpa dovevano subirla e si chiese, allora ancora ragazzo, dove dovesse ricercarsi la causa che genera la povertà.

Già in una delle sue prime opere, De la célébration du Dimanche, si propose di: "trovare uno stato di eguaglianza che non sia né comunismo, né dispotismo, né dispersione, né anarchia ma libertà nell'ordine, ed indipendenza nell'unità." Pur dichiarandosi socialista, non nasconse mai a se stesso l'impotenza, nella pratica, di questa concezione politica a causa soprattutto del suo altalenante velleitarismo riformista e della sua incoerenza; in una parola, delle sue debolezze eterne.

Egli forse si definiva socialista perché aveva una concezione spirituale della società in cui, in contrasto col suo ateismo, cercava " un' ipotesi d' un Dio" senza la quale gli era "impossibile andare innanzi ed essere capito".

" Se io seguo, attraverso le sue trasformazioni successive l'idea di Dio, trovo che questa idea è innanzitutto sociale; intendo dire che essa è piuttosto un atto di fede nel pensiero collettivo che un concetto individuale."

E' probabile che nel suo pensiero dalla società emergesse un principio superiore, dotato di forza e di una ragione segreta, quasi un Essere che lui non riusciva ad identificare nel Dio delle religioni e della storia.

Gli uomini, afferma, non possono ingabbiare il destino di quell'Essere in un dogma, poiché si riassume nell'imprevedibilità del divenire, nell'imperscrutabilità dei disegni della natura, che si realizzano nella società umana con la continua ricerca di equilibrio fra le forze che in essa devono operare e che, scontrandosi continuamente, generano conflitti, contrasti, lotte, ribellioni e rivoluzioni di ogni genere.

Nel federalismo, trovò il punto di equilibrio fra queste forze, e vide che dal loro equilibrio derivava l'eliminazione della finzione della ragion di Stato e del potere che la determina, che per la Chiesa discende da Dio, per il comunismo dalla proprietà, per gli Stati sovrani dal bisogno di un qualsiasi ordine sociale riferito ad una ideologia e per il federalismo, finalmente, non più dalle finzioni, ma dalla somma delle volontà concrete e reali (contratto politico), degli individui che collettivamente organizzati su un territorio sono Stato.

Egli vide, con enorme anticipo sugli eventi, come il comunismo, eliminando semplicemente la proprietà e sostituendola col piano, disegnava una società in cui tutto è semplice e previsto; il suo Dio è il dogma, guai ad allontanarsene, guai a tradirlo, guai a contraddirlo. In esso, tutto é facile da capire e da condividere; le sue soluzioni ai problemi che emergono nella vita della società, sono incredibilmente semplici e comprensibili per tutti: soddisfano il bisogno di giustizia e di uguaglianza, aboliscono tutti mali dell'uomo attraverso la dittatura del piano e la dittatura di una classe.

La semplicità del comunismo, fu certamente la causa dei suoi successi e dei grandi entusiasmi che suscitò nelle masse. Ma i suoi princìpi rispondevano più al bisogno di dare una risposta razionale alla tendenza violenta dell'anima collettiva di emergere dalla barbarie della disuguaglianza e della povertà, che ad una osservazione esauriente della realtà sociale e dei fenomeni che nella società continuamente si generano.

La sua attuazione pratica, se dal un lato portò nel tempo al fallimento dei regimi comunisti, dall'altro generò un'insperato indebolimento della fede nelle ideologie, la cui affermazione negli Stati determina tirannia e violenza, servitù e regresso, oppure corruzione e degrado dell'ordine sociale.

I risultati del fallimento comunista sono sotto gli occhi di tutti: determinato dalle cause che Proudhon, il profeta, aveva enunciato molti decenni prima che esso apparisse nella storia.

Da parte loro i socialisti, incapaci di valutare con chiarezza il pensiero politico del socialista Proudhon, si sono sempre vestiti con abiti comunisteggianti che egli non avrebbe mai accettato né condiviso. Diceva infatti che "Per lui (per il socialismo, n.d.t) l'economia politica, considerata da molti come la fisiologia della ricchezza, non è altro che la pratica organizzata del furto e della miseria; come la giurisprudenza, decorata dai legisti del nome di ragione scritta, non è altro ai suoi occhi (per il socialismo), che la compilazione delle rubriche del brigantinaggio legale e ufficiale,- e per dirlo in una sola parola , della proprietà.- Considerate nei loro rapporti queste due pretese scienze, l'economia politica ed il diritto formano, a detta del socialismo, la teoria completa della iniquità e della discordia. Passando poi dalla negazione all'affermazione, il socialismo oppone al principio di proprietà quello di associazione e si vanta di restaurare da cima a fondo l'economia sociale, ossia di costruire un nuovo diritto, una novella politica, istituzioni e costituzioni diametralmente opposte alle forme antiche. Come si vede, la linea di separazione fra il socialismo e l'economia politica è netta e l'ostilità flagrante. L'economia politica inclina alla consacrazione dell'egoismo, il socialismo pencola verso l'apoteosi e la comunanza."

Per lungo tempo i socialisti hanno quasi completamente dimenticato Proudhon. Di qui, forse, la ragione dell'incoerenza che li ha portati all' insuccesso politico irreversibile. Se solo lo avessero preferito a Marx ed alle sue teorie, se avessero diffuso le sue opere ed il suo pensiero, il socialismo sarebbe sempre apparso in tutta la sua profonda diversità dal comunismo.

Dopo più di cinquanta anni di compromessi catto-social-comunisti, provate a chiedere nelle librerie qualche opera di Proudhon; la risposta sarà quasi sempre negativa. Andate per le biblioteche a chiedere i suoi libri; forse troverete qualche sua opera in francese, in edizioni vecchie di decine e decine di anni. Quelle che sono state tradotte in italiano a volte sono indisponibili, altre sono scomparse, altre ancora mai restituite.

Non parliamo poi dell'università dove fino a poco tempo fa le sue opere erano quasi all'indice e guai a presentare una tesi su Proudhon o sul federalismo, mentre infinite erano quelle presentate anche sugli aspetti più marginali del marxismo.

Per cambiare, bisogna essere disposti ad osare, a rischiare, a volere con tutte le forze. Escludere Proudhon dal dibattito sul federalismo, sarebbe come escludere Gesù da un dibattito sul cristianesimo, oppure Maometto da uno sull'islamismo.

A cosa è servito che pochi socialisti zelanti lo presentassero talvolta solo come avversario della libertà di mercato e della proprietà? Proudhon era un uomo Libero: non tanto un socialista nel senso che noi oggi attribuiamo a questa parola, ma un uomo che poneva la libertà personale e collettiva, anche di mercato, alla base del progresso e della civiltà. Il resto è ciarlataneria politico culturale.

Proprio a causa del suo grande senso della libertà, non poteva appartenere ad una Religione: ma il dubbio di un Dio, di un Essere, di uno Spirito, rimane incessante in lui. I suoi scritti affermano il suo rifiuto, ma traspare sempre evidente che il suo cuore ha ragioni che la ragione non conosce.

Nelle Contraddizioni afferma ad un certo punto: " Si ricorda anche, qualche volta, che se il sentimento della Divinità affievolisce fra gli uomini; se l'ispirazione dall'alto si ritira progressivamente per far posto alle deduzioni dell'esperienza, se vi è scissione sempre più flagrante fra l'uomo e Dio; se questo progresso, forma e condizione della nostra vita, sfugge alle percezioni di una intelligenza infinita, e per conseguenza antistorica; se, per dir tutto, il richiamo alla Provvidenza per parte di un governo è nello stesso una codarda ipocrisia ed una minaccia alla libertà; nulladimeno il consenso universale dei popoli, manifestato con lo stabilimento di tanti diversi culti, e la contraddizione per sempre insolubile che tocca l'umanità nelle sue idee, le sue manifestazioni e le sue tendenze, indicano un rapporto segreto della nostra anima, e per essa dell'intera natura, con l'infinito, rapporto la cui determinazione esprimerebbe nello stesso tempo il senso dell'universo e la ragione della nostra esistenza."

Probabilmente, nel segreto della sua coscienza, egli covava una segreta fede nello Spirito di Dio, che vedeva emergere dalla società degli uomini come un Essere fantastico, denso di motivi di stupore e di misteri. Forse per nessuno come per lui, la spiritualità non era sinonimo di religiosità. Egli fu quindi un credente dello Spirito, mai un uomo religioso

Ma sempre alla ricerca delle ragioni e delle vie del progresso per favorire l'evoluzione dello Spirito, che vedeva come proiezione della società, dedicò la sua vita e la sua opera geniale alla ricerca delle contraddizioni umane, sociali e politiche, ed economiche, la cui ordinata composizione considerava come condizioni essenziali dell'equilibrio universale. Nel silenzio del suo cuore, egli cercava di capire "....se l'umanità tende a Dio secondo l'antico dogma, oppure se essa stessa diventa Dio".

Come molti, Proudhon aveva cercato, ma non aveva trovato; ma il suo cercare lo libera dall'ateismo, che forse la maschera di una potente ragione gli imponeva.

Il suo spirito libero e la profondità della sua coscienza, lo condussero a definirsi anarchico. Ma cosa intendeva egli per anarchia? Vale la pena, per chiarezza, ripetere la sua concezione della società formulata ad appena trenta anni in Célébration du Dinamiche: "Trovare uno stato di eguaglianza sociale che non sia né comunismo, né dispotismo, né frazionamento, né anarchia, ma libertà nell'ordine ed indipendenza nell'unità." Dice ancora molti anni più tardi nel suo Del principio federativo: " Come variante del regime liberale, ho indicato l'ANARCHIA o governo di ognuno da parte di se stesso, in inglese self-government. L'espressione di governo anarchico implica una sorta di contraddizione, la cosa sembra impossibile e l'idea assurda. Non c'è qui che da rivedere il termine ; la nozione di anarchia, in politica è razionale e positiva come nessun'altra. Essa consiste nel fatto che, una volta ricondotte le funzioni politiche alle funzioni della produzione, l'ordine sociale risulterebbe solo dal fatto delle transazioni e degli scambi. Ognuno allora potrebbe dirsi autocrate di se stesso. Il che è l'estremo opposto dell'assolutismo monarchico. .......... Malgrado il richiamo potente della libertà, né la democrazia né l'anarchia nella pienezza ed integrità della loro idea, si sono realizzate in nessun luogo."

Volendo combattere un principio oppure un'idea, non esiste metodo migliore che denigrare il suo sostenitore, di condannarlo ieri al rogo della carne, oggi a quello delle opere. Così le due grandi Chiese dell'umanità degli ultimi due secoli, quella cattolica e quella marxista, applicando alle sue opere una collaudata esperienza di mistificazione e di condanna, hanno confinato Proudhon nell'oscurità. Ma il loro giudizio non è altro che la condanna di sè stesse: all'intolleranza, alla discriminazione, alla falsità, all'incomprensione. Accusato di ateismo dalla Chiesa, di liberalismo e di essere un borghese dai comunisti, di comunista dai liberali, Proudhon è passato alla storia come uno dei pensatori più contraddittori della sua epoca. Ma proprio la storia ha poi mostrato che la contraddizione non era nel suo pensiero, ma nella natura stessa delle cose e degli uomini e niente più del comunismo, del socialismo, dello stesso liberalismo oggi tanto di moda, lo hanno dimostrato e lo dimostreranno.

La contraddizione vera è nelle ideologie, nelle religioni, e nelle costruzioni logiche della mente umana, che partendo da un'analisi sempre incompleta e personale della realtà, pur contenendo una parte di verità, hanno la pretesa di possedere la ricetta della felicità universale e della verità eterna; le prime per ciò che è materiale, le seconde per ciò che è spirituale.

Per Proudhon questa ricetta non esiste, come non esisterà per lungo tempo la mente che in un lampo di genio concepirà la struttura di una società in perfetta armonia con le leggi materiali della vita e con le attese dello Spirito. Egli era un osservatore, un profondo analizzatore della società e degli uomini e per di più dotato di una eccezionale intuizione. Comprese che i rapporti sociali ed individuali sono soggetti a continue contraddizioni e possono essere composti nel modo migliore lasciando i cittadini liberi di darsi gli ordinamenti che sembrano a loro i più adatti, in relazione al variare dei tempi e degli interessi, per perseguire gli scopi materiali e spirituali in cui credono e che vogliono affermare.

Capì che questo avrebbe comportato inevitabilmente una forte restrizione dell'azione dello Stato nella società, ed avrebbe determinato l'avvento del regime della libertà e della democrazia.
 
 





Genesi dell'opera

 




"Del principio federativo", è comunemente considerato il testamento politico di Poudhon. L'origine del libro si deve ad un articolo pubblicato il 7 settembre 1862 sul giornale Office de pubblicitè a Bruxelles, dal titolo Garibaldi et l'unité italienne, che seguiva di poco un altro articolo su Mazzini ( Mazzini et l'unité italienne, 13 luglio 1862 ). Entrambi ebbero vasta risonanza sia sulla stampa che nell'opinione pubblica del tempo.

L'interesse di Proudhon verso l'Italia era dovuto al fatto che da noi gli spiriti democratici propugnavano una repubblica unitaria in nome di una ancora inesistente nazionalità, che doveva essere ottenuta con ogni mezzo e ad ogni costo. Egli aveva affermato a più riprese la sua idea della democrazia "che si spaccia continuamente per liberale, repubblicana, socialista, mentre il suo vero scopo è solo "l'unità". La democrazia tiene ben poco conto delle libertà individuali e del rispetto delle leggi, poiché è incapace di governare a condizioni diverse da quelle dell'unità, che non è altro che il dispotismo. ......La democrazia è innanzitutto centralizzatrice e unitaria, ha orrore del federalismo......essa considera l'indivisione del potere come la grande molla, l'ancora di salvezza del governo...la democrazia inclina fortemente al comunismo: ed è solo attraverso il comunismo che concepisce l'uguaglianza. La democrazia ha come principio l'unità; il suo obiettivo è l'unità; il suo mezzo, l'unità; la sua legge, sempre l'unità. L'unità è per essa l'alfa e l'omega, la sua formula suprema, la sua estrema ratio".

Proudhon sapeva bene che le origini della democrazia erano da ricercarsi in una concezione unitaria dell'uguaglianza e della giustizia che sfocia nella comunanza che è finalizzata all'interesse preminente della collettività e non del singolo; l'idea del "comunismo" non era ancora istituzionalizzata.

L'impossibilità di realizzare nella pratica della vita della società i principi determinatori della democrazia fu una, se non la principale, causa del suo lento fallimento e della sua scomparsa come sistema di governo presso i popoli della Grecia antica.

La storia dell'Italia, dal tempo della sua unificazione, ha mostrato che alla lunga il principio di unità attraverso l'uniformità porta o alla corruzione ed all'ingiustizia o all'idea di potenza e di violenza. A differenza di Mazzini, che sosteneva l'indipendenza solo nell'unità, Proudhon chiedeva " l'indipendenza nella diversità", attraverso la federazione degli Stati che allora componevano l'Italia. Era naturale che la stampa unitaria ed i fanatici del principio romantico delle nazionalità lo attaccassero violentemente, per le sue ferme e decise prese di posizione federaliste e perciò naturalmente antiunitarie e contrarie all'accentramento.

Deciso a chiarire gli equivoci determinati dall'apparire dei due articoli su Mazzini e su Garibaldi, in cui la stampa belga aveva ravvisato un invito a Napoleone III ad annettere il Belgio alla Francia, il 1 ottobre 1862, in una nota all'articolo La stampa belga e l'unità italiana, scriveva: "Ho sostenuto nel modo più chiaro possibile sia nel mio articolo su Mazzini sia in quello su Garibaldi, che il principio di unità è per sua natura illiberale e sfavorevole al progresso, alla sovranità delle nazioni, ed anche al principio della separazione dei poteri; di conseguenza, non lo vorrei per nessuno; che, se in questo momento ci sono delle esagerazioni di unità in Francia, questa è una ragione in più per opporre loro un contrappeso in Italia; che mi dispiace che la democrazia italiana non abbia approfittato del trattato di Villafranca e delle disposizioni dell'Imperatore, per inaugurare in Europa una politica di federazione, che l'unità italiana, lungi dall'abbattere il Papato, gli prepara un trionfo; che l'effetto da temere maggiormente da questo allettamento verso l'idea unitaria, che tormenta gli spiriti in Italia ed in Germania, sarà di abbandonare alla Francia la riva sinistra del Reno e di sacrificare il Belgio, cosa che evidentemente sono lontano dal desiderare, poiché mi servo di questa previsione come di un argomento contro l'unità".

La reazione di Proudhon ebbe un effetto contrario a quanto egli si aspettava. In pratica, faceva balenare davanti agli occhi dell'opinione pubblica belga l'idea di una possibile annessione del Belgio alla Francia. Le reazioni della stampa e dell'opinione pubblica furono violentissime. I giornalisti belgi non capirono la sua posizione antiunitaria e la sua intenzione di metterli in guardia contro le tendenze annessionistiche. Le critiche feroci e le violente reazioni popolari, lo costrinsero ad un rapido rientro in Francia dove parimenti dovette difendersi dagli attacchi della stampa unitaria. Decise perciò di chiarire il suo pensiero sviluppando l'idea della teoria federativa.
 
 




Nascita e sviluppo dell'idea di federazione

 




Prima di spiegare cosa intenda per federazione, Proudhon dedica alcune pagine del libro a ricordare l'origine e la filiazione dell'idea, che subito pone come conclusione necessaria della teoria generale dei governi. Per sostenere il perno della sua concezione di federazione gli è indispensabile questa premessa: che tutti i sistemi di governo, compresa la federazione, si basano " sull'Equilibrio dell'Autorità per mezzo della Libertà e viceversa."

Passa poi alla descrizione delle forme di governo che aveva precedentemente classificato in base alla indivisione ed alla divisione dei poteri.

Nella prima categoria pone la Monarchia ed il Comunismo. E' interessante notare come Proudhon accosti queste due forme estreme di governo, accomunandole nell'indivisione del potere. Nella seconda pone la Democrazia e l'Anarchia.

Questa analisi sulle diverse forme di governo lo conduce a concludere che ...Tutti i governi di fatto, qualunque siano le loro ragioni o riserve, si riconducono così all'una o all'altra di queste due formule: subordinazione dell'Autorità alla Libertà; oppure subordinazione della Libertà all'Autorità.

Proudhon afferma che ogni ordine politico può riposare solo su due principi: l'Autorità e la Libertà. Da questi derivano due regimi contrari: il regime assolutista o autoritario, ed il regime liberale. A loro volta essi generano rispettivamente l'indivisione e la separazione dei poteri. Nessun governo può sfuggire alla logica fondamentale della politica, in cui la fedeltà ai principi esiste solo in teoria, essendo ogni governo, nella pratica, costretto ad accettare compromessi di ogni genere. Da ciò risulta che l'arbitrario entra fatalmente nella politica, la corruzione diventa presto l'anima del potere, e la società è trascinata senza riposo né misericordia sulla china senza fine delle rivoluzioni....... Sempre la bandiera della libertà è servita a mascherare il dispotismo, sempre le classi privilegiate, per proteggere i loro privilegi, si sono circondate di istituzioni liberali ed egualitarie; sempre i partiti hanno mentito sui loro programmi; e sempre l'indifferenza è succeduta alla fiducia, la corruzione allo spirito civico, gli Stati si sono disgregati per lo sviluppo dei concetti sui quali si erano fondati....... Si tratta di sapere se la società può arrivare a qualcosa di regolare, di giusto e di stabile, che soddisfi la ragione e la coscienza, oppure se siamo condannati per l'eternità a questa ruota di Issione.

Proudhon parte da queste considerazioni, per sviluppare la sua idea di federazione. Rileva come il regime liberale o contrattuale tenda a prevalere ogni giorno sul regime autoritario ed afferma che è all'idea di contratto che dobbiamo richiamarci, come idea dominante della politica.

A questo punto Proudhon introduce una nota in cui, con straordinaria lucidità, raffronta il sistema federativo da lui proposto col Contratto sociale di Rousseau :

"Nella teoria di J.J. Rousseau, che è quella di Robespierre e dei Giacobini, il Contratto sociale è una finzione di legista ( così chiama Proudhon il legislatore), immaginata per rendere conto, senza ricorrere al diritto divino, all'autorità paterna o alla necessità sociale, della formazione dello Stato e dei rapporti fra il governo e gli individui. Questa teoria, mutuata dai Calvinisti, costituiva nel 1764 un progresso, poiché aveva per scopo di ricondurre ad una legge razionale ciò che fino allora era stato considerato come un appannaggio della legge di natura e della religione. Nel sistema federativo il contratto sociale è più che una finzione, è un patto positivo, effettivo, che è stato realmente proposto, discusso, votato, adottato, e che si modifica regolarmente secondo la volontà dei contraenti. Fra il contratto federativo e quello di Rousseau e del 93, c'è tutta la differenza che passa fra la realtà e l'ipotesi".

Proudhon, così prosegue: "Ciò che costituisce l'essenza ed il carattere del contratto federale, su cui desideravo richiamare l'attenzione del lettore, è che in questo sistema i contraenti, capifamiglia, comuni, cantoni, province o Stati, non solo si obbligano bilateralmente e commutativamente gli uni verso gli altri, ma si riservano individualmente, nel dar vita al patto, più diritti, libertà e proprietà, di quanta ne cedono."

Enunciata l'idea di un contratto politico o sociale come dominante dell'azione politica e riconosciuto che questo tipo di contratto è per eccellenza quello di federazione, Proudhon ricerca un principio superiore che determini l'equilibrio e metta d'accordo i due principi contrari che sono alla base di ogni ordine politico l'Autorità e la Libertà. In quale modo ciò possa avvenire, è spiegato nel capitolo sulla Costituzione progressiva: il principio superiore regolatore dell'equilibrio è la Legge, intesa come contenuto del contratto, che imponendosi alle due forze le mette d'accordo e determina la stabilità dell'ordine politico.

Continua affermando: per fondare una società, non è sufficiente formulare semplicemente un'idea, ma un atto giuridico, formare un vero contratto. .... Tutti gli articoli di una Costituzione possono essere ricondotti ad un articolo unico, quello che concerne il ruolo e la competenza di quel gran funzionario che è lo Stato.... la definizione del ruolo dello Stato è una questione di vita o di morte, per la libertà collettiva ed individuale.

Ci fermeremo qui con le citazioni di Proudhon, per fare alcune brevi considerazioni. La prima è che, chiunque volesse affrontare il tema del federalismo, farebbe bene a leggersi Del principio federativo. Il giovamento culturale e politico che ne trarrà gli sarà di grande aiuto per le sue scelte, se sarà un semplice cittadino; ad un politico, in genere, eviterà di fare brutte figure.

La seconda considerazione che vogliamo fare è che nessuno si è accorto che, centotrentacinque anni fa, Proudhon aveva annunciato il fallimento di tutte le ideologie politiche e dei regimi frutto di compromessi ideologici come il nostro. Egli considerava le ideologie, quella comunista, socialista, liberale, ed anche la stessa democrazia, come costruzioni logiche dello spirito, paradisi sociali immaginari, sogni di felicità universale, a cui non può corrispondere la realtà della vita sociale, perché è impossibile per chiunque immaginare la sua complessità e la sua variabilità. Proudhon sosteneva che l'ideologia politica è per sua natura unitaria ed accentratrice. Tutte le leggi dello Stato ideologico infatti, devono corrispondere al suo dogma al fine di realizzarlo in tutti gli aspetti della società. Per questa ragione ogni ideologia non può sfuggire alla richiesta di unità. Stato unitario è sinonimo di accentramento e questo a sua volta, a causa della debolezza e dell'imperfezione della natura umana, è sinonimo o di corruzione o di violenza.

Sebbene la storia abbia mostrato centinaia di volte questi eventi, gli uomini stentano a comprenderli e continuano a rifugiarsi nei miti fideistici e nelle ideologie salvifiche: quella comunista e socialista ieri, quella liberale e libertaria oggi.

La vera profezia di Proudhon è il fallimento inevitabile di tutti gli Stati sorti dalle ideologie. Egli aveva trovato nello Stato Contrattuale o Federale la formula per la Libertà dell'umanità futura, ma aveva anche intuito che il percorso verso la federazione sarebbe stato lungo e difficile. Sapeva che il potere, comunque costituito, avrebbe cercato di contrastare con tutti i mezzi l'idea di federazione, perché questa poneva effettivamente nella responsabilità e nella libertà di scelta di tutti i cittadini il destino di tutta la società. L'indivisione, affermava, è la maggior garanzia di durata del potere comunque costituito.

La terza considerazione che vogliamo fare, è che pochi si sono accorti del rapporto fra federalismo e libertà. Secondo Proudhon, lo Stato federale o contrattuale è per sua stessa natura lo Stato della libertà politica, dalla cui realizzazione deriva la libertà economica.

Questa concezione dello Stato federale o contrattuale è la grande scoperta scientifica di Proudhon. Per mezzo di essa la Costituzione, come Legge fondamentale dello Stato, diventa Progressiva e sempre aderente alle attese, ai bisogni ed alla coscienza dei cittadini.

Questo è il principio del federalismo, che attraverso il procedimento democratico realizza la Repubblica. Finalmente il popolo è Stato, e possiamo cominciare a parlare dell'Italia " Una nella diversità dei suoi popoli", libera, democratica e repubblicana, perché federale. Proudhon lo aveva capito e splendidamente descritto in questo libro quasi un secolo e mezza fa. Da lui abbiamo appreso che il federalismo presentato dai nostri politici è solo vaniloquio.

Probabilmente per secoli ancora l'uomo cercherà la soluzione che saprà conciliare il bisogno di uguaglianza col bisogno della libertà. Le società moderne ripongono oggi fede assoluta nel primato dell'economico sull'umano e restano in genere indifferenti dinanzi alle sofferenze di milioni di creature. Tuttavia, costrette dalle loro stesse contraddizioni derivanti dall'indefinito confine della libertà con l'arbitrio, l'abuso, il capriccio, esse saranno costrette a ricercare ordinamenti diversi, in cui il furto derivante dagli eccessi della proprietà, dalla soddisfazione dei capricci, dall'arbitraria interpretazione delle leggi della vita, sia sempre più limitato dall'avvento di una nuova e più vasta coscienza individuale e collettiva.

A questo mirava Proudhon con tutte le sue forze. Tale tempo è forse lontano da noi, ma le enormi disuguaglianze fra i popoli, la violenza, la povertà, le guerre, l'ignoranza, il sottile e sempre più evidente asservimento degli Stati al grande capitale, costringeranno gli uomini ed i popoli a questa ricerca, oppure per gran parte del genere umano perdurerà lo stato di miseria e di sofferenza, per continuare a permettere quello che Proudhon definiva come l'ingiusto furto di pochi a danno di molti.

A questo egli cercava una soluzione fin da giovane. La trovò molti anni più tardi, ormai ammalato, nei principi del Federalismo che egli intendeva come patto fra uomini basato su un rapporto di cooperazione e di comprensione reciproca per perseguire la giustizia ed il bene comune attraverso la Legge intesa come stato arbitrale della volontà umana: principio di equilibrio fra l'Autorità e la Libertà.

Paolo Bonacchi
 
 






 

Cenni sulla vita e sulle opere


 




1809

Pierre Joseph Proudhon nacque a Besancon, il 15 gennaio, da Claude-Francois Proudhon, bottaio e birraio, e da Catherine Simonin, contadina; fu il quinto di cinque fratelli. La moralità e la lealtà del padre ed il carattere fiero ed energico della madre, assieme alla singolare figura del nonno paterno, detto Tournesì, sempre in lotta contro la prepotenza e l'arroganza dei potenti, ebbero un' influenza determinante sulla sua formazione. Senza questa scuola di vita e la povertà in cui trascorse tutta la sua giovinezza, probabilmente non sarebbe stato in grado di affrontare le dure prove a cui in seguito l'avrebbe sottoposto l'esistenza.

1820

Trascorsa l'infanzia a servire in birreria ed ad custodire mucche nei campi, grazie all'aiuto di un amico di famiglia ottiene una borsa di studio ed entra come esterno nel collegio reale di Besancon, dove, nonostante la modestia delle sue condizioni economiche, ottiene brillanti risultati. Povero in mezzo ai ricchi, non ha neppure i libri di studio e deve per questo affidarsi alla sua memoria soprattutto per le traduzioni dal latino. Dice spesso di aver dimenticato i libri a casa, per nascondere il fatto che non li possiede e, per questo, prese oltre di un centinaio di punizioni; calza zoccoli e per non disturbare col rumore, li lascia fuori dalla scuola. Trascorre il tempo libero a lavorare nei campi, oppure a far provviste di legno nel bosco, per rifornire l'attività del padre bottaio. Nonostante tutto, è uno dei migliori allievi del collegio. Racconta che un giorno, tornato a casa dopo aver ricevuto un lusinghiero riconoscimento, non trovò da mangiare. E' attraverso queste dure esperienze che Proudhon si imprime nella mente e non dimentica mai l'ingiustizia dell'inferiorità sociale, che lo separa dai compagni di studio e di gioco e che lo spinge a chiedersi, ancora giovanissimo, che cosa fosse mai la povertà, questo male oscuro di cui si sente innocente.

1824

Frequenta assiduamente la biblioteca, divorando libri su libri. Legge il Traitè de l'existence de Dieu di Fénelon. La lettura del libro mette in crisi la sua fede religiosa : " ...d'improvviso ha aperto la mia intelligenza ed illuminato il mio pensiero." Gli rimarrà sempre nel ricordo il giorno della premiazione d'exellence come egli stesso dice: mentre i genitori dei suoi compagni premiati li applaudivano per i loro trionfi, la sua famiglia attendeva l'esito di un processo in tribunale. Tornato a casa, trova ...la madre in lacrime perché il processo era stato perduto. Quella sera cenammo tutti a pane ed acqua.

1827

Per aiutare la famiglia, è costretto ad interrompere gli studi. Trova lavoro presso la tipografia Bellevaux e Battant di Besancon. Ha diciotto anni.

1828

Lavora come correttore di bozze nella tipografia dei fratelli Gauthier. Per il suo lavoro legge molti libri, soprattutto di carattere religioso.

1829

Conosce Gustave Fallot, che diventa il suo tutore spirituale. La sua amicizia ha grande e benefica influenza sul giovane Proudhon. Fallot è povero come lui e, sebbene sia solo di due anni più anziano, si pone come suo fratello maggiore e consigliere. Morirà di colera nel 1836 e la sua morte sarà un durissimo colpo per Proudhon.

1830

Lavora nella tipografia Deis.

1831

Lavora come maestro al collegio Gray. Lascia Besancon e viaggia per la Francia in cerca di lavoro. L'amico Fallot, gli predice un avvenire eccezionale, "......voi sarete, Proudhon, malgrado voi stesso, inevitabilmente, per il fatto del vostro destino, uno scrittore, un autore; voi sarete un filosofo; sarete una delle luci del secolo, ed il vostro nome avrà il suo posto nei fasti del XIX secolo. Questa sarà la vostra sorte....Il vostro posto é segnato sulla terra e non potrà restare vuoto."

1832

Si reca a Parigi, dove già era l'amico Fallot. Non trova lavoro e gira per la Francia e la Svizzera in cerca di una occupazione come stampatore. Lavora come tipografo a Neuchatel, in Svizzera, a Marsiglia, a Draguignan. Alla fine raggiunge Tolone; in tasca ha solo tre franchi.

1833

Gli muore un fratello durante il servizio militare. La sua famiglia non è informata della morte. Lavora in una tipografia di Besancon come capo operaio responsabile della direzione e della esecuzione dei lavori. Rifiuta l'offerta del fourierista Just Muiron di entrare nella redazione del giornale L'Impartial, dicendo di non voler entrare nelle dispute politiche.

1836

Acquista con due soci, Lambert e Maurice, una tipografia che chiuderà nel '43. Muore di colera l'amico carissimo Gustave Fallot. Uno dei due soci, Lambert, si uccide. Proudhon sprofonda nella più cupa disperazione. Una lunga malattia gli impedisce di continuare a lavorare. Riprende a studiare.

1837

Scrive e pubblica la sua prima opera Essai de grammaire général, e la aggiunge come appendice ad una edizione degli Eléments primitifs des langues di Bergier. La scarsa accoglienza che riceve lo delude.

1838

La cattiva gestione della tipografia lo mette in gravi difficoltà finanziarie. Si trasferisce a Parigi. Concorre per l'assegnazione di una borsa di studio triennale (Pension Suard) dell'Accademia di Besancon sul tema " Dell'utilità della celebrazione della domenica sotto i rapporti dell'igiene e della morale, delle relazioni familiari e civiche." Per partecipare, Proudhon presenta una memoria nella quale afferma: " Nato ed allevato nella classe operaia, alla quale appartengo ancora per il cuore e per gli affetti, la mia più grande gioia, se otterrò i vostri suffragi, sarà, non dubitatene, quella di lavorare senza posa, per mezzo della scienza e della filosofia, con tutta la forza del mio spirito, al fine del miglioramento morale ed intellettuale di coloro che amo chiamare i miei fratelli e compagni; di poter diffondere tra loro i semi di una dottrina che considero come la legge del mondo morale; e, nell'attesa del successo dei miei sforzi, diretti dalla vostra prudenza, di trovarmi già, in qualche modo, come il loro rappresentante presso di voi." Ottenuta la borsa di studio, si reca a Parigi, dove non segue alcun corso regolare di studi e frequenta assiduamente le biblioteche.

1839

Pubblica De la Célébration du Dimanche e la invia all'Accademia di Besancon .

1840

Pubblica la prima delle tre Mémoire sur la propriété, dal titolo Qu'est-ce que la Proprieté?, che dedica all' Accademia di Besancon. E' il successo, ma anche lo scandalo, come lui stesso aveva previsto. L'economista Adolphe Blanqui interviene in suo favore e riesce a sottrarlo al processo.

1841

L'Accademia di Besancon discute il libro di Proudhon per la conferma della pensione. La proposta di sospensione non viene accolta, perché non é raggiunta la maggioranza di due terzi ( 16 voti per la sospensione, contro 14 ed 1 astenuto). Pubblica la seconda Mémoire sotto forma di Lettre a M. Blanqui sur la proprieté, che in un rapporto all'Accademia delle Scienze morali aveva apprezzato il suo rigore scientifico e lo aveva difeso davanti alle autorità. .

1842

Pubblica la terza Memoire col titolo Avertissement aux Propriétaires, ou lettre a M.Considerant. Il volume viene subito sequestrato. L'Accademia di Besancon gli toglie la borsa di studio. Proudhon viene denunciato per oltraggio alla religione, alla proprietà e per aver incitato i cittadini all'odio di classe e contro il governo. Il processo, tenuto a Besancon il 3 febbraio 1842, si conclude con la sua assoluzione per tre capi d'accusa, ma viene condannato per attacco alla proprietà.

1843

Indebitato fino al collo, vende la tipografia ed accetta un impiego presso una ditta di trasporti fluviali a Lione. Inizia a scrivere i Carnets, che continuerà fino al '64. Pubblica De la Creation de l'Ordre dans l'Humanité ou Principes d'organisation politique, che viene stampata prima a Besancon poi a Parigi.

1844

A Parigi si incontra col gruppo di economisti tedeschi lì rifugiati, fra i quali A.Grun studioso di filosofia e del socialismo, C. Marx e Bakunin.

1846

Gli muore il padre. Accetta con alcune riserve la proposta di Marx di tenere con lui una regolare corrispondenza. Pubblica il Systéme des contradictions economiques, ou Philosophie de la misére, a cui Marx risponderà, criticandolo violentemente con il libro Miseria della filosofia nel 47.

1847

Muore sua madre. Lascia il lavoro a Lione e fa ritorno a Parigi. Si dedica al giornalismo e dirige Le représentant du Peuple. Nel suo Carnet Proudhon scriverà: " Non ho più famiglia, né domicilio né Stato, né impiego dopo che ho lasciato Lione." E' il tempo dello scontro con Marx

1848

Partecipa, senza condividerne troppo i propositi, alle barricate dei rivoluzionari durante le giornate di febbraio. Nelle elezioni supplementari del 4 giugno viene eletto all'Assemblea Costituente, dove illustra un suo progetto di legge per realizzare il credito gratuito. Il progetto viene respinto. Dopo tre sequestri, cessa le pubblicazioni di " Le Représentant du Peuple". Subito dopo riapre un nuovo giornale: " Le Peuple". Incontra Luigi Bonaparte, di cui annota sul Carnet, di non fidarsi. Vota contro la Costituzione.

1849

Costituisce la Banca del Popolo. Su Le Peuple attacca più volte Luigi Napoleone. Accusato di delitto di stampa, l'Assemblea nazionale, di cui fa parte, autorizza a procedere contro di lui e viene condannato a tre anni di reclusione dalla Corte di Assise della Senna. Considerando la condanna probabile, Proudhon liquida la Banca del Popolo e parte per il Belgio. Ai primi di giugno torna a Parigi e viene arrestato e messo in prigione. Vi resterà fino al 1852. Ottiene il materiale per lavorare e, dalla prigione, riprende gli attacchi contro Luigi Napoleone su un nuovo giornale: La voix du Peuple. A causa di ciò, viene posto in isolamento. In ottobre pubblica Les confessionons d'un Revolutionnaire.

1850

Il 31 dicembre dell'anno prima, sposa in carcere Eufrasia Piegard, una giovane operaia di Parigi, che due anni prima aveva incontrato casualmente per strada. Gli darà quattro figlie. Proudhon ha un vero culto della famiglia. In una lettera a Tissot scritta nel '51 spiega con queste parole questo suo atteggiamento: " Ho fatto questo matrimonio, senza passione e con premeditazione, per essere a mia volta padre di famiglia, vivere la mia vita compiutamente, e conservare presso di me, nel vortice in cui mi trovo gettato, un'immagine della semplicità e della modestia di mia madre ." Sostiene l'indissolubilità del matrimonio in coerenza con i suoi principi di reciprocità e di scambio su cui deve fondarsi ogni rapporto umano che deve realizzarsi nel rispetto dei diritti dell'altra parte verso la quale ci siamo impegnati. Considera la famiglia ed il matrimonio, "La vera religione del genere umano." Nasce la figlia Catherine che morirà nel 1947.

1851

Pubblica l' Idée générale e la Revolution au XIX siécle e lavora a Philosophie du Progrés.

1852

Pubblica La Révolution sociale démontrée par le Coup d'Etat du Deux Décembre, in cui auspica la riconciliazione fra delle classi ed elogia la borghesia. Il suo proposito è quello di alleare il proletariato con le classi medie, escludendo da questa alleanza la grande borghesia capitalista. Il 4 giugno esce di prigione. A settembre gli é proposta la candidatura elettorale, ma la rifiuta, come rifiuta un impiego governativo. In prigione, aveva mantenuto la famiglia con i ricavi della vendita dell' Idée ma resta povero ed indebitato, tuttavia deciso a tirare avanti con i guadagni derivanti dalla sua attività di pubblicista. Gli nasce la seconda figlia Marcelle.

1853

Pubblica Philosophie du progres e Manuel du speculateur a la Bourse, commissionatogli dall'editore Garnier. Lo considera un lavoro " ripugnante e penoso" e non lo firmerà. Gli nasce la terza figlia Stéphanie

1854

Medita sui problemi della guerra delle nazionalità e dell'ordine europeo. Con tutta la famiglia, è colpito da un'epidemia di colera. Gli muore una delle figlie, Marcelle

1855

Tenta di nuovo inutilmente di realizzare il credito gratuito. Ripubblica, e questa volta lo firma, il Manuel du speculateur a la bourse.

1856

Comincia una grande opera: De la Justice dans la Révolutione et dans l'Eglise. Oltre che con la povertà, deve ora lottare anche con la salute e con delle crisi che lo tormenteranno fino alla morte. Gli nasce la quarta figlia, Charlotte, che morirà dopo alcuni mesi.

1857

Decide di non presentare la propria candidatura alle elezioni legislative di primavera a Lione, Parigi, Saint-Etienne e si pronuncia a favore dell'astensionismo elettorale. .

1858

Pubblica il libro cominciato nel 56 De la Justice dans la Revolution et dans l'Eglise, che dedica al vescovo di Besancon. Pochi giorni dopo la sua pubblicazione, l'opera è sequestrata. Proudhon è arrestato e rilasciato. Viene successivamente condannato a tre anni di carcere ed a 4.000 franchi di ammenda per oltraggio alla morale pubblica e religiosa. Ricorre in appello. Scrive in sua difesa " La Justice poursuivie par l'Eglise", che viene pubblicato a Bruxelles dove, in attesa della sentenza, si è rifugiato. La famiglia lo raggiunge dopo alcuni mesi..

1859

Riprende gli studi di politica internazionale e cerca di elaborare una teoria della pace e della guerra. Scrive a Giuseppe Ferrari, suo buon amico, che "...non vuole lasciare passare la mistificazione atroce di una indipendenza italiana per mezzo dell'esercito bonapartista." Contrario agli Stati unitari ed accentrati ed al principio di nazionalità, sostiene per l'Italia una federazione. Con incredibile intuizione, si rende conto che i maggiori pericoli di guerra sarebbero venuti dall'Europa centrale ed orientale, a causa dell'incertezza della frontiere, dove " non si può creare alcuno Stato che comprenda una popolazione di una sola nazionalità."

1860

Un decreto imperiale di amnistia gli condona la pena, ma Proudhon la rifiuta e preferisce restare in esilio. Conosce Tolstoj. Gli editori Garnier si rifiutano di pubblicare il suo libro La guerre et la paix.

1861

Pubblica La Guerre et la Paix presso gli editori Lévy. Partecipa ad un concorso bandito dal Cantone svizzero di Vaud, sul sistema fiscale. Vince il concorso. La votazione unanime della giuria, gli assegna il primo premio consistente in 1.000 franchi. Il saggio presentato al concorso viene pubblicato con il titolo Théorie de l'impot.

1862

A Bruxelles pubblica sull' Office de publicité due saggi sull'unificazione italiana, intitolati uno a Mazzini, Mazzini et l'unité italienne, l'altro a Garibaldi, Garibaldi et l'unitè italienne. Gli articoli hanno larga risonanza e fanno scandalo. A differenza di Mazzini e di tutti coloro che concepiscono l'indipendenza dell'Italia solo nell'unità politica, Proudhon chiede la stessa indipendenza degli Stati italiani attraverso la federazione. Per chiarire gli equivoci generatesi per effetto della sua presa di posizione, in una nota dell'articolo La presse belge et l'unité italienne, scrive: " Ho sostenuto ... in termini più chiari possibili, sia nel mio articolo su Mazzini che in quello su Garibaldi, che il principio di unità è per sua natura illiberale, sfavorevole al progresso, alla sovranità delle nazioni, come al principio di separazione dei poteri; che se, in quel momento, c'erano delle esagerazioni unitarie in Francia , era una ragione di più per opporgli un contrappeso in Italia, e mi dispiaceva che la democrazia italiana non avesse approfittato del trattato di Villafranca e delle disposizioni dell'Imperatore per inaugurare in Europa una politica di federazione, che l'unità italiana, lungi da abbattere il Papato, gli preparava un trionfo; che l'effetto ancora più temibile di questo allettamento verso l'idea di unità che tormenta gli spiriti in Italia ed in Germania, sarà di abbandonare alla Francia la riva sinistra del Reno e di sacrificare il Belgio, cosa che evidentemente io sono lontano da volere, poichè mi servo di questa previsione come di un argomento contro l'unità." Nelle sue parole si crede di ravvisare un invito a Napoleone III ad annettere il Belgio alla Francia. Seguono reazioni violentissime e manifestazioni di ostilità nei suoi confronti, per cui è costretto a tornare in patria. Da questo episodio trae origine il desiderio di esporre con chiarezza i termini della teoria federativa concretizzata in Du principe fédératif.
 

1863

Pubblica Les démocrates assermentés et le réfractaires, in cui sostiene che la democrazia è un corollario del principio federativo o non é nulla. Sostiene con successo l'astensionismo elettorale. Pubblica anche Du principe fédératife et de la nécessitè de reconstituer le parti de la revolution e Si les Traités del 1815 ont cessé d'exister. Actes du futur Congrès

1864

Il suo stato di salute si aggrava. Scrive Lettre aux ouvrières e inizia la De la Capacité politique des classes ouvrières come risposta ad un gruppo di operai che aveva deciso di presentare propri candidati alle elezioni supplementari del 64. Non la terminerà.

1865

Torna a Besancon, sperando in una ripresa delle sue condizioni di salute, Proudhon si aggrava sempre più e muore il 19 gennaio, alle due di notte, quattro giorni dopo il suo 56° compleanno. Il giorno dopo migliaia di popolani gli rendono l'estremo omaggio.



 
 



Pierre Joseph Proudhon

DEL PRINCIPIO

FEDERATIVO

PREFAZIONE


 



Quando qualche mese orsono, a proposito di un articolo sull'Italia nel quale io difendevo la federazione contro il sistema unitario, i giornali belgi mi accusarono di propagandare l'annessione del loro paese alla Francia, la mia sorpresa fu grande. Non sapevo cosa credere: se ad una allucinazione del pubblico oppure ad un tranello della polizia, e la mia prima reazione fu allora di domandare ai miei accusatori se mi avessero letto: in questo caso se fosse serio che mi facessero una simile accusa. Si sa come finì per me questa incredibile disputa. Certo non mi ero affrettato, dopo un esilio di più di quattro anni, ad approfittare dell'amnistia che mi autorizzava a rientrare in Francia; traslocai rapidamente.

Ma quando, ritornato in patria, ho visto con lo stesso pretesto, la stampa democratica accusarmi di abbandonare la causa della rivoluzione, inveire contro di me, non più come se io fossi un annessionista ma come apostata, confesso che la mia sorpresa è arrivata al colmo. Mi sono chiesto se fossi un Epinemide uscito dalla sua caverna dopo un secolo di sonno o se per caso non fosse la stessa democrazia francese, prendendo esempio dal liberalismo belga, ad aver subito un processo involutivo. Mi appariva chiaro che federazione e contro rivoluzione o annessione fossero termini incompatibili; ma mi ripugnava credere alla defezione in massa del partito al quale fino allora ero stato vicino, e che, non contento di rinnegare i suoi principi, arrivava, nella sua febbre di unificazione, perfino a tradire il suo paese. Ero impazzito, oppure il mondo si era messo a mia insaputa a girare in senso contrario? Come il topo di la Fontaine,
 
 



sospettando che sotto ci fosse qualche macchinazione


 




pensai che la scelta più saggia fosse di aggiornare la mia risposta e di osservare per qualche tempo, gli stati d'animo. Sentivo che avrei dovuto prendere una risoluzione energica ed avevo bisogno, prima di agire, di orientarmi su un terreno che, da quando ero uscito dalla Francia, mi sembrava che fosse stato sconvolto, ed in cui gli uomini che avevo conosciuto mi apparivano come figure estranee.

Dov'è oggi il popolo francese, mi chiedevo? Cosa accade nelle differenti classi della società? Quale idea è germogliata nell'opinione pubblica e quali sono le aspirazioni della massa? Dove va la nazione ? Dov'è l'avvenire? Chi seguiremo ed in che cosa crediamo?

Andavo avanti così, interrogando uomini e cose, cercando nell'angoscia e raccogliendo solo risposte desolate. Il lettore mi permetta di esprimergli alcune mie considerazioni: serviranno come giustificazione per una pubblicazione il cui tema, lo confesso, è essere molto al di sopra delle mie forze.

Per prima cosa ho preso in esame la classe media, un tempo anche chiamata borghesia, e che ormai non può più portare questo nome. L'ho trovata fedele alle sue tradizioni alle sue tendenze ai suoi principi benché avanzi con passo celere verso il proletariato. Se la classe media dovesse ritornare padrona di se stessa e del Potere; se dovesse essere chiamata a rifarsi una costituzione secondo le sue idee ed una politica secondo il suo cuore, si potrebbe senza dubbio prevedere cosa accadrebbe. Astraendo da ogni preferenza dinastica, la classe media ritornerà al sistema del 1814 e del 1830, forse con una lieve modifica concernente la prerogativa regia, analoga all'emendamento apportato all'art.. 14 della Carta, dopo la rivoluzione di luglio. La monarchia costituzionale, in una parola, ecco qual è ancora la fede politica e la segreta speranza della maggioranza borghese. Ecco la misura della fiducia che essa ha in se stessa; né il suo pensiero, né la sua determinazione vanno oltre. Ma, proprio a causa di questa predilezione per la monarchia, la classe media, nonostante abbia numerose e forti radici nel presente e benché, per l'intelligenza, la ricchezza, il numero, essa costituisca la parte più considerevole della nazione, non può essere considerata come l'espressione dell'avvenire; si rivela come il partito per eccellenza dello statu quo, è lo statu quo personificato.

Ho portato in seguito la mia attenzione sul governo, sul partito di cui è più propriamente l'organo e, devo dire, li ho trovati in fondo sempre gli stessi, fedeli all'idea napoleonica, malgrado le concessioni che strappano loro lo spirito del secolo da un lato e dall'altro l'influenza di quella classe media senza la quale e contro la quale non è possibile alcun governo. Che l'Impero sia reso a tutta la sincerità della sua tradizione, che la sua potenza sia pari alla sua volontà, e domani avremo con gli splendori del 1804 e del 1809 le frontiere del 1812; rivedremo il terzo Impero d'Occidente con le sue tendenze all'universalità e la sua autocrazia inflessibile. Ora, è precisamente a causa di questa fedeltà alla sua idea che l'impero, pur essendo l'attualità stessa, non può dirsi l'espressione dell'avvenire, poiché, affermandosi come conquistatore ed autocratico, negherebbe la libertà, poiché esso stesso, promettendo un coronamento dell'opera, si è posto come governo di transizione. L'impero è la pace, ha detto Napoleone III . Sia; ma allora l'impero non essendo più la guerra non potrebbe essere lo statu quo?

Ho osservato la Chiesa e le rendo volentieri giustizia; è immutabile. Fedele al sua dogma, alla sua morale, alla sua disciplina, come al suo Dio, non fa concessioni al secolo se non nella forma; non fa suo lo spirito del tempo e non cammina con lui. La Chiesa sarà l'eternità, se volete, la più alta espressione di statu quo: non è il progresso; né potrebbe essere l'espressione dell'avvenire.

Come la classe media ed i partiti dinastici, come l'Impero e la Chiesa, anche la Democrazia è frutto del presente; lo sarà finché esisteranno delle classi superiori ad essa: una monarchia e delle aspirazioni di nobiltà, una Chiesa ed un sacerdozio; fintantoché non sarà compiuto un livellamento politico, economico e sociale.

Dopo la Rivoluzione francese, la democrazia ha scelto il motto: Libertà, Uguaglianza. Poiché per sua natura e funzione, essa, è il movimento, la vita, la sua parola d'ordine è: Avanti! La democrazia poteva dunque dirsi e sola può essere l'espressione dell'avvenire; questo è in effetti ciò che il mondo ha creduto dopo la caduta del primo impero e al tempo dell'avvento della classe media. Ma per esprimere l'avvenire, per mantenere le promesse, sono necessari dei principi, un diritto, una scienza, una politica, tutte cose di cui la Rivoluzione sembrava aver posto le basi. Ora, ecco che, cosa inaudita, la Democrazia si mostra infedele a se stessa; ha rotto con le sue origini, mostra la schiena ai suoi destini. Da tre anni la sua condotta è stata un'abdicazione, un suicidio. Senza dubbio fa ancora parte del presente, ma come partito dell'avvenire non esiste più. La coscienza democratica è vuota: un pallone sgonfiato, che qualche consorteria, qualche intrigante politico si lancia, ma che nessuno ha il segreto per farla gonfiare di nuovo. Ormai non ci sono più idee: al loro posto fantasie romantiche, miti, idoli. L'89 è stato accantonato, il 48 messo alla berlina .Quello che resta non ha più senso politico, né senso morale, né senso comune; è l'ignoranza completa, l'ispirazione dei grandi giorni totalmente perduta. La posterità non potrà credere che fra la moltitudine di lettori che una stampa privilegiata mantiene ce n'è appena uno su mille che sospetti cosa significhi la parola federazione. Senza dubbio, gli annali della Rivoluzione non ci hanno fatto capire grandi cose al riguardo; ma insomma non si può essere il partito dell'avvenire fossilizzandosi nelle passioni di un'altra epoca; il vero compito della Democrazia è di produrre le sue idee, di modificare per conseguenza la propria parola d'ordine. La Federazione è la parola nuova sotto la quale la Libertà, l'Uguaglianza, la Rivoluzione, con tutte le sue conseguenze, sono apparse nell'anno 1859 alla Democrazia. I liberali ed i democratici, non vi hanno visto altro che un complotto reazionario !

Dopo l'istituzione del suffragio universale, la Democrazia, considerando che era venuto il suo regno, che il proprio governo aveva superato le prove, che non c'era altro da discutere che la scelta degli uomini, e che essa si riteneva la forma suprema dell'ordine, ha voluto infine costituirsi a sua volta come partito dello statu quo. Lungi dall'essere padrona degli affari, già si accomoda per l'immobilismo. Che fare dunque quando ci si considera Democrazia, si rappresenta la Rivoluzione e si è arrivati all'immobilismo? La Democrazia ha ritenuto che la sua missione fosse quella di riparare le antiche ingiustizie, di risollevare le nazioni oppresse, in una parola , di rifare la storia! E' ciò che essa esprime col termine Nazionalità, scritto come intestazione del suo nuovo programma. Non contenta di farsi partito dello statu quo, si è fatta partito reazionario. E siccome la Nazionalità, nel senso in cui la comprende e l'interpreta la Democrazia, ha per corollario l' Unità , essa ha messo il sigillo alla sua abiura, dichiarandosi definitivamente potere assoluto, indivisibile ed immutabile.

La Nazionalità e l'Unità, ecco cos'è al giorno d'oggi la fede, la legge, la ragion di Stato, ecco quali sono gli Dei della Democrazia. Ma la Nazionalità per essa non è che una parola, perché nel pensiero dei democratici essa non rappresenta che un'utopia. Quanto all' Unità, vedremo nel corso di questo scritto ciò che bisogna pensare del regime unitario. Ma posso dire nel frattempo, a proposito dell' Italia e dei rimaneggiamenti a cui è soggetta la carta politica di questo Paese, che questa unità che ha suscitato un così vivo entusiasmo dei cosiddetti amici del popolo e del progresso, nel pensiero dei furbi è soltanto un affare, un grosso affare, mezzo dinastico e mezzo bancocratico, verniciato di liberalismo, ammantato di cospirazione ed al quale onesti repubblicani male informati o ingannati, servono da chaperon.

Tale Democrazia, tale giornalismo. Dall'epoca in cui condannavo, nel Manuale dello speculatore di borsa, il ruolo mercenario della stampa, nulla è cambiato; essa non ha fatto che allargare il giro dei suoi affari. Tutto ciò che un tempo essa possedeva di ragione, di spirito, di critica, di conoscenza, di eloquenza, si è ridotto, salvo rare eccezioni, a queste due parole che ho preso in prestito dal gergo del mestiere: DIFFAMAZIONE e Pubblicità. Essendo stata affidata ai giornali la questione italiana, proprio come se si trattasse di una società in accomandita, questi stimati pezzi di carta, come una claque che obbedisce al segnale del capo, hanno cominciato a trattarmi da mistificatore, da giullare, da borbonico, da papalino, da Erostrato da rinnegato, da venduto: abbrevio la litania. Dopo, assumendo un tono più calmo, si sono messi a ricordare che io ero stato l'irriducibile nemico dell' Impero e di ogni governo, della Chiesa e di ogni religione, come di tutta la morale: un materialista, un anarchico, un ateo, una sorta di Catilina letterario che sacrifica tutto, pudore e buonsenso, alla smania di far parlare di se, e la cui tattica ormai scoperta consisteva nell'associare subdolamente la causa dell' Imperatore a quella del Papa, spingendoli entrambi contro la democrazia, al fine di screditare gli uni mediante gli altri, tutti i partiti e tutte le opinioni, e di elevare un monumento al mio orgoglio sulle rovine dell'ordine sociale. Tale è stato il senso delle critiche di fondo del Siècle, dell' Opinion nationale, di La presse, di l'Echo de la Presse, di la Patrie, del Pays, dei Débats: alcuni li ometto, perchè non li ho letti tutti. Si è ricordato, in questa occasione, che io ero stato la principale causa della caduta della repubblica; e si sono trovati dei democratici assai rammolliti di cervello per dirmi all'orecchio che un simile scandalo non si sarebbe ripetuto, che la democrazia era reduce dalle follie del 1848, e che il primo a cui essa destinava le sue balle conservatrici ero io.

Non vorrei affatto attribuire a certe violenze ridicole, degne dei fogli che le ispirano, più importanza di quanta ne meritino; le cito come esempio dell'influenza del giornalismo contemporaneo e come testimonianza dello stato degli animi. Ma se il mio amor proprio d'individuo se la mia coscienza di cittadino sono al di sopra di simili attacchi, la stessa cosa non è per la mia dignità di scrittore interprete della Rivoluzione. Ne ho abbastanza degli oltraggi di una democrazia decrepita e dei soprusi dei suoi giornali. Dopo il 10 dicembre 1848, vedendo la maggior parte del Paese e tutta la potenza dello Stato rivolti contro ciò che mi sembrava essere la Rivoluzione, tentai di avvicinarmi ad un partito che, sebbene sprovvisto di idee valeva ancora per il numero. Questo fu uno sbaglio, che ho amaramente rimpianto, ma a cui posso ancora rimediare. Dobbiamo essere noi stessi, se vogliamo essere qualcosa: formiamo, se è il caso, con i nostri avversari ed i nostri rivali delle federazioni, mai delle fusioni. Quel che mi sta accadendo da tre mesi, mi ha fatto decidere, irreversibilmente. Fra un partito caduto nel romanticismo, che in una filosofia del diritto ha saputo scoprire un sistema di tirannia e nelle manovre della speculazione una forma di progresso; per il quale i sistemi dell'assolutismo sono virtù repubblicana e le prerogative della libertà sinonimo di rivolta; fra quel partito, io dico, e l'uomo che cerca la verità della Rivoluzione e la sua giustizia, non vi può essere niente in comune. La separazione è necessaria e, senza risentimento né timore, io la compio.

Durante la prima rivoluzione, i giacobini, avvertendo di volta in volta il bisogno di ritemprare la società, effettuavano su loro stessi quello che allora si chiamava epurazione. E' ad una prova di questo genere che io invito quello che resta degli amici sinceri ed illuminati dalle idee dell'89. Sicuro dell'appoggio di una élite, potendo contare sul buonsenso delle masse, io rompo, da parte mia, con una fazione che non rappresenta più niente. Dovessimo essere non più di un centinaio, questo è abbastanza per ciò che oso incominciare. In ogni tempo la verità ha servito i propri persecutori; ma anche se dovessi cadere vittima di quelli che sono deciso a combattere, avrei almeno la consolazione di pensare che, una volta spenta la mia voce, il mio pensiero otterrà giustizia e che prima o poi i miei nemici saranno i miei apologeti.

Ma che cosa dico? non ci sarà né processo né esecuzione: il giudizio del pubblico mi ha già scagionato. Non era forse corsa la voce, riportata da molti giornali, che la risposta che pubblico in questo momento avrebbe avuto per titolo: gli Iscarioti? ... Niente è valido quanto la giustizia della pubblica opinione. Ahimè! A torto darei al mio opuscolo questo titolo cruento, anche se troppo meritato per qualcuno. Dopo due mesi che esamino gli stati d'animo, mi sono reso conto che, se la democrazia brulica di Giuda, vi si trovano ancor più San Pietro ed io scrivo per questi almeno quanto per quelli. Ho dunque rinunciato alla gioia d'una vendetta; mi riterrò molto fortunato se, come il gallo della Passione, potrò far rientrare in sé tanti deboli di coraggio, e restituir loro con la coscienza l'intelligenza.

Poiché in una pubblicazione, la cui forma era piuttosto letteraria che didattica, si è cercato di non cogliere il pensiero che ne costituiva lo spirito, sono costretto a ritornare ai procedimenti della scuola e ad argomentare secondo le regole. Divido dunque questo lavoro, molto più lungo di quanto avessi voluto, in tre parti: la prima, la più importante per i miei ex correligionari politici, la cui ragione sta soffrendo, avrà per scopo quello di enunciare i principi della materia; - nella seconda applicherò questi principi alla questione italiana ed allo stato generale degli affari, dimostrando la follia e l'immoralità della politica unitaria; nella terza, risponderò alle obbiezioni di quei Signori giornalisti, benevoli o ostili, che hanno creduto di doversi occupare del mio ultimo lavoro, e farò vedere, per mezzo del loro esempio, il rischio che corre la ragione delle masse, sotto l'influenza di una teoria distruttrice di ogni individualità.

Prego quelle persone, di qualsiasi opinione esse siano, che, senza condividere la sostanza delle mie idee, hanno accolto le mie prime osservazioni sull'Italia con qualche attenzione, di accordarmi ancora la loro simpatia. Non spetterà a me, nel caos intellettuale e morale nel quale siamo sprofondati, in quest'ora in cui i partiti si distinguono, come i cavalieri che combattono nei tornei, solo per il colore dei loro nastri, che gli uomini di buona volontà, giunti da ogni punto dell'orizzonte, trovare finalmente una terra consacrata sulla quale possano almeno tendersi una mano leale e parlare un linguaggio comune. Questa terra è quella del diritto, della morale, della libertà e del rispetto per l'umanità in tutte le sue manifestazioni: individuo famiglia, associazione, Stato; questa è la terra della giustizia pura e franca in cui fraternizzano, senza distinzione di partiti, di scuole, di culti, di rimpianti, di speranze, tutte le anime generose. Quanto a quella frazione malandata della democrazia, che ha creduto di diffamarmi con ciò che essa definisce gli applausi della stampa legittimista, clericale e imperiale, non le dirò per il momento che una parola: che l'infamia, se infamia c'è, fosse tutta sua. Stava ad essa applaudirmi; il più grande servizio che potrò renderle sarà di averglielo dimostrato.
 
 



CAPITOLO I

DUALISMO POLITICO. - AUTORITA' E LIBERTA':

OPPOSIZIONE E

CONNESSIONE DI QUESTE DUE NOZIONI


 



Prima di dire cosa si intende per federazione conviene ricordare, nello spazio di poche pagine, l'origine e la filiazione dell'idea. La teoria del sistema federativo è del tutto nuova: credo di poter dire che non è ancora stata formulata da nessuno. Ma essa è intimamente legata alla teoria generale dei governi; diciamo, più precisamente, che ne è la conclusione necessaria.

Fra tante costituzioni che la filosofia propone e che la storia mette alla prova, una sola riunisce le condizioni di giustizia, di ordine, di libertà e di durata, senza le quali la società e l'individuo non possono vivere. La verità è una come la natura: sarebbe strano che fosse diversamente per lo spirito e per la sua opera più grandiosa, la società. Tutti i pubblicisti hanno ammesso questa unità della legislazione umana e, senza negare la varietà delle applicazione che la differenza dei tempi e dei luoghi e lo spirito proprio che ogni nazione reclamano; senza disconoscere il ruolo che spetta alla libertà in tutti i sistemi politici, tutti si sono sforzati di conformarvi le loro dottrine. Io cerco di dimostrare che questo tipo di costituzione unica, che alla fine sarà riconosciuta come la più grande conquista della ragione dei popoli, non è altro che il sistema federativo. Ogni forma di governo che si allontana da essa, deve essere considerata come una creazione empirica, un abbozzo provvisorio, più o meno comodo, sotto la quale la società trova riparo un istante e che, come la tenda dell'Arabo, si leva la mattina dopo averla montata la sera. E' dunque qui indispensabile una analisi severa, e la prima verità importante che il lettore deve conquistare da questa lettura, è la convinzione che la politica, variabile all' infinito come arte di applicazione, è, quanto ai principi che la reggono, una scienza dimostrativa esatta né più né meno che la geometria e l'algebra.

L'ordine politico riposa fondamentalmente su due principi contrari, l'AUTORITA', e la libertà: il primo iniziatore, il secondo determinatore; avente questo per corollario la ragione libera, quello la fede che induce all'obbedienza.

Penso che contro questa prima proposta, non possa alzarsi alcuna voce. L'Autorità e la Libertà sono tanto antiche nel mondo quanto la razza umana: esse nascono con noi, e si perpetuano in ciascuno di noi. Osserviamo solamente una cosa, alla quale pochi lettori presterebbero essi stessi attenzione: questi due principi formano, per così dire una coppia di cui i due termini, indissolubilmente legati l'uno all'altro, sono nondimeno irriducibili l'uno contro l'altro e restano, qualunque cosa noi facciamo, in lotta perpetua. L'Autorità suppone inconfutabilmente una libertà che la riconosca o che la neghi; la Libertà a sua volta, nel senso politico della parola, suppone un'autorità che tratti con essa, frenandola o tollerandola. Sopprimetene l'una, l'altra non avrà più senso: l'autorità senza una libertà che discuta, resista o si sottometta è una parola vana; la libertà senza una autorità che gli faccia da contrappeso è un non-senso.

Il principio di autorità, principio familiare, patriarcale, magistrale, monarchico, teocratico, tendente alla gerarchia, alla centralizzazione, all'assorbimento, è dato dalla natura, dunque essenzialmente fatale o divino, come si preferisce. La sua azione, combattuta, impedita dal principio contrario, può estendersi indefinitamente , ma senza mai poter scomparire.

Il principio di libertà, personale, individualista, critico; fattore di divisione, di elezione, di transazione, è dato dallo spirito. Principio essenzialmente arbitrale di conseguenza superiore alla natura di cui si serve, alla fatalità che domina; illimitato nelle sue aspirazioni; suscettibile come il suo contrario, di estensione e di riduzione, ma incapace quanto esso di esaurirsi per il suo sviluppo, come di estinguersi per costrizione.

Ne consegue che in ogni società, anche la più autoritaria, una parte è necessariamente riservata alla libertà; parimenti in ogni società, anche la più liberale, una parte è destinata all'autorità. Questa condizione è assoluta; nessun sistema politico può sottrarsi ad essa. A dispetto della ragione il cui sforzo tende incessantemente a risolvere la diversità nell'unità, i due principi rimangono a confronto e sempre in opposizione. Dalla loro tendenza contraria ed inevitabile e dalle loro reciproche reazioni, risulta la dinamica della politica.

Tutto questo, lo confesso, non è forse molto nuovo, e più di un lettore si chiederà se questo è tutto ciò che io ho da fargli capire. Nessuno nega i concetti di natura e di spirito per quanto oscuri possano apparire; nessun pubblicista si sogna di smentire, contro l'autorità o la libertà, benché la loro conciliazione o la loro eliminazione, sembrino ugualmente impossibili. Dove dunque mi propongo di arrivare ripetendo questo luogo comune?

Lo dirò subito: che tutte le costituzioni politiche, tutti i sistemi di governo, compresa la federazione, possono ricondursi a questa formula, l'Equilibrio dell'Autorità per mezzo della Libertà e vice versa; è in conseguenza di questo che le categorie adottate dopo Aristotele dalla moltitudine degli autori e grazie ai quali i tipi di governo si classificano, gli Stati si differenziano, le nazioni si distinguono, monarchia, aristocrazia, democrazia, ecc., eccetto la federazione, si riducono a delle costruzioni ipotetiche, empiriche, dalle quali la ragione e la giustizia non ottengono che una soddisfazione imperfetta; è che tutti questi sistemi, fondati sugli stessi dati incompleti, diversi solo per gli interessi, i pregiudizi, le consuetudini, in fondo si assomigliano e si equivalgono; che quindi, se non fosse per il disagio causato dall'applicazione di questi falsi sistemi, e per le passioni esasperate, gli interessi disconosciuti, le aspettative deluse, che spingono ad accusarsi gli uni con gli altri, saremmo, alla fine molto vicini a comprenderci; perché infine tutte queste divisioni di partiti fra i quali la nostra immaginazione scava degli abissi, tutte quelle diversità di opinioni che ci sembrano inconciliabili, tutti questi antagonismi fortuiti che ci appaiono senza rimedio, troveranno finalmente il loro equilibrio definitivo nella teoria del governo federale.

Quante cose, direte voi, in una contrapposizione grammaticale: AUTORITA'-Libertà!....- Ebbene! si. Ho osservato che le intelligenze comuni, che i bambini colgono meglio la verità ricondotta ad una formula astratta, più che dalla pesantezza di un volume di dissertazioni e di fatti. Ho voluto comunque abbreviare questo lavoro per quelli che non possono dedicarsi troppo alla lettura, e renderlo più incisivo lavorando su delle semplici nozioni. AUTORITA'-Libertà, due idee opposte una all'altra, condannate a vivere in eterna lotta o a perire insieme: ecco, ciò certamente non è difficile da comprendere. Abbiate soltanto la pazienza di leggermi, amici lettori, e se avete compreso questo capitolo molto corto, mi direte in seguito le vostre impressioni.



 
 



CAPITOLO II

CONCETTI A PRIORI SUGLI ORDINAMENTI

POLITICI : REGIME DI AUTORITA'

REGIME DI LIBERTA'


 



Conosciamo i due principi fondamentali ed antitetici di ogni governo: autorità , libertà.

In virtù della tendenza propria dello spirito umano a ricondurre tutte le idee ad un unico principio, e per conseguenza ad eliminare quelle che gli sembrano inconciliabili con questo principio, si possono dedurre, a priori, due regimi differenti da queste due nozioni primordiali, secondo la preferenza o la priorità accordata all'una o all'altra: il regime di Autorità ed il regime di Libertà.

Inoltre, poiché la società è composta da individui, si può concepire il rapporto dell'individuo col gruppo, dal punto di vista politico, in quattro modi differenti, ne risultano quattro forme di governo, due per ogni regime:
 
 




I. Regime di Autorità.

A) Governo di tutti da parte di uno: MONARCHIA O PATRIARCATO

a) Governo di tutti da parte di tutti: Comunismo o Panarchia.

Carattere essenziale di questo regime nelle sue due specie è L' INDIVISIONE del potere.

II. Regime di Libertà.

B) Governo di tutti da parte di ognuno: DEMOCRAZIA;

b) Governo di ognuno da parte di ognuno: Anarchia o Autogoverno.

Carattere essenziale di questo regime, nelle due specie, è la DIVISIONE DEL POTERE.


 



Niente di più, niente di meno. Questa classificazione data a priori dalla natura delle cose e razionalmente deducibile, è matematica. Finché la politica sarà considerata come il risultato di una costruzione sillogistica, come naturalmente la ritengono i vecchi legislatori, non può restare di qua, né andare di là. Questo semplicismo è degno di nota; ci mostra fin dalle origini e sotto tutti i regimi, come il potere dello Stato si sia sforzato di dedurre le sue costituzioni da un solo elemento. La logica e la buona fede sono primordiali in politica; qui sta precisamente la trappola.

Osservazioni.

- I° Noi sappiamo come si configura il governo monarchico, espressione primitiva del principio di autorità. De Bonald ce l'ha detto: è a causa dell'autorità paterna. La famiglia è l'embrione della monarchia. I primi Stati furono generalmente costituiti da famiglie o tribù governate dal loro capo naturale, marito, padre, patriarca, ed alla fine re.

Sotto questo regime lo sviluppo dello Stato si realizza in due modi: 1°) con la generazione o la moltiplicazione naturale della famiglia, tribù o razza; 2°) con l'adozione, cioè con l'incorporazione volontaria o forzata, delle famiglie e tribù vicine, ma in modo tale che le tribù riunite facciano con la tribù madre, una sola famiglia, una stessa casata. Questo sviluppo dello Stato monarchico può raggiungere dimensioni immense, che vanno fino a centinaia di milioni di uomini, sparsi per centinaia di miglia quadrate.

La panarchia, pantocrazia o comunismo, sorge naturalmente con la morte del monarca o capo della famiglia, con la dichiarazione dei sudditi, fratelli, figli, o associati, di voler rimanere indivisi, senza eleggere un nuovo capo. Questa forma politica è rara, tanto che non ci sono esempi, essendo in essa l'autorità più pesante e l'individualità più oppressa che sotto qualsiasi altra. Essa è stata adottata quasi esclusivamente da associazioni religiose, che in tutti i paesi e sotto tutti i culti hanno teso all'annientamento della libertà. Ciò non di meno l'idea è posta a priori, come l'idea della monarchia; essa potrà trovare la sua applicazione nei governi di fatto ed è per questo che noi dobbiamo menzionarla almeno per memoria.

Così la monarchia, sorta dalla natura, giustificata per conseguenza nella sua idea, ha una sua legittimità ed una sua moralità: e lo stesso accade per il comunismo. Ma vedremo presto come queste due varietà dello stesso regime non possano, malgrado si fondino su dati concreti e deduzioni ragionevoli, mantenersi nel rigore dei loro principi e nella purezza della loro essenza, e come esse siano condannate a rimanere sempre nello stato di ipotesi. Infatti, malgrado la loro origine patriarcale, il loro temperamento pacifico, l'attrattiva di assolutismo e di diritto divino, la monarchia ed il comunismo, conservando nel loro sviluppo la sincerità della loro origine, non si sono realizzati in nessun luogo.

II. Come si pone a sua volta il governo democratico, espressione spontanea del principio di libertà? Jean-Jacques Rousseau e la Rivoluzione ce l'hanno insegnato in base alla convenzione. Qui la fisiologia non c'entra niente; lo Stato appare come il prodotto, non più della natura organica, della carne, ma della natura intelligibile che è lo spirito.

Sotto quest'altro regime lo sviluppo dello Stato ha luogo per accesso o per libera adesione. Nello stesso modo in cui si considera che tutti i cittadini abbiano aderito al contratto, anche lo straniero che accede alla cittadinanza è considerato aderente a sua volta; è a questa condizione che ottiene i diritti e le prerogative di cittadino. Se lo Stato deve sostenere una guerra e diventa conquistatore, il suo principio lo porterà ad accordare alle popolazioni conquistate gli stessi diritti di cui godono i propri concittadini: è ciò che si chiama isonomia. Tale era, presso i Romani, la concessione del diritto di cittadinanza. I giovani stessi, una volta maggiorenni, sono tenuti a giurare il patto; in realtà, non è perché sono figli di cittadini che divengono cittadini a loro volta, come avviene nella monarchia in cui i figli dei sudditi sono sudditi per nascita, o come avveniva nelle comunità di Licurgo e di Platone, in cui appartenevano allo Stato: per essere membro di una democrazia, bisogna, indipendentemente dalla qualità di ingenuus, aver scelto il sistema liberale.

La stessa cosa avrà luogo per l'adesione di una famiglia, di una città, di una provincia: è sempre la libertà che ne è il principio e ne fornisce le ragioni.

Così, allo sviluppo dello stato autoritario, patriarcale monarchico o comunista, si contrappone lo sviluppo dello stato liberale, contrattuale e democratico. E siccome non ci sono limiti naturali all'estensione della monarchia, cosa che in tutti i tempi e presso tutti i popoli ha suggerito l'idea di una monarchia universale o messianica, non esistono neanche dei limiti naturali all'estensione dello stato democratico, e questo suggerisce ugualmente l'idea di una democrazia o repubblica universale.

Come variante del regime liberale, ho indicato l'ANARCHIA o governo di ognuno da parte di se stesso; in inglese, self-government. Poiché l'espressione di governo anarchico implica una sorta di contraddizione, la cosa sembra impossibile e l'idea assurda. c'è soltanto da rivedere il termine; la nozione di anarchia, in politica, è razionale e positiva come nessun'altra. Essa consiste nel fatto che, una volta ricondotte le funzioni politiche alle funzioni della produzione, l'ordine sociale risulterebbe solo dal fatto delle transazioni e degli scambi. Ognuno allora potrebbe dirsi autocrate di se stesso, il che è l'estremo opposto dell'assolutismo monarchico.

Nello stesso modo, del resto, la monarchia ed il comunismo, giusti secondo la natura e la ragione, hanno la loro legittimità e la loro etica senza che mai essi possano realizzarsi nel rigore e nella purezza della loro idea; nello stesso modo la democrazia e l'anarchia fondate sulla libertà e sul diritto, perseguendo un ideale coerente col loro principio, hanno la loro legittimità e la loro moralità. Ma noi vedremo anche che, a dispetto della loro origine giuridica e razionale, esse non possono, a causa della crescita e dello sviluppo della popolazione e del territorio, mantenersi nella severità e nella purezza dei loro principi e che sono condannate a rimanere nello stato dei perpetui desiderata. Malgrado il richiamo potente della libertà, né la democrazia né l'anarchia, nella pienezza ed integrità della loro idea, si sono realizzate in alcun luogo.



 
 



CAPITOLO III

FORME DI GOVERNO


 



E' tuttavia con l'aiuto di questi giochetti metafisici che si sono stabiliti fin dall'inizio del mondo tutti i governi della terra, ed è con questi che giungeremo a chiarire l'enigma politico, per poco che noi vogliamo darcene pena. Che mi si perdoni dunque l'insistenza, come si fa con i ragazzi a cui si insegnino gli elementi della grammatica.

In quel che precede non si troverà una parola che non sia la più perfetta possibile. Non si procede diversamente nella matematica pura. Il nostro errore principale non è nell'uso delle nozioni, bensì nelle esclusioni che, sulla base di pretesti della logica, ci permettiamo di fare nella loro applicazione.

a) Autorità-Libertà; ecco dunque i due poli della politica. La loro posizione, diametralmente opposta, contraddittoria, è per noi una garanzia sicura che un terzo termine è impossibile, che non esiste. Fra il si ed il no, come fra l'essere ed il non essere, la logica non ammette niente (a).

b) La connessione di queste stesse nozioni, la loro irriducibilità, la loro dinamica sono ugualmente dimostrate. Esse non procedono l'una senza l'altra; non si può né sopprimere questa o quella, né risolverle in una espressione comune. Quanto alla loro dinamica, basta metterle a confronto affinché, tendendo scambievolmente ad assorbirsi, a svilupparsi l'una a spese dell'altra, entrino subito in azione.

c) Da queste due nozioni risultano per la società due diversi regimi, che noi abbiamo chiamato regime di autorità e regime di libertà; ciascuno dei quali può rivestire in seguito due forme diverse, né più né meno. L'autorità appare in tutta la sua magnificenza solo nella collettività sociale; per conseguenza essa non può esprimersi, agire, soltanto attraverso la collettività stessa, o attraverso un soggetto che la impersonifichi; similmente la libertà non è perfetta fino a che non è garantita a tutti, sia che tutti partecipino al governo, sia che l'incarico non sia stato delegato a nessuno. Impossibile sfuggire a queste alternative: Governo di tutti da parte di tutti, oppure governo di tutti da parte di uno solo: ecco il regime di autorità; governo con la partecipazione di tutti da parte di ognuno oppure governo di ognuno da parte di se stesso: ecco il regime di libertà. Tutto questo è inevitabile come l'unità e la pluralità, il caldo ed il freddo, la luce e le tenebre. Ma, mi dirà qualcuno, non si è forse visto il governo essere appannaggio di una parte più o meno considerevole della nazione, con l'esclusione del resto: aristocrazia (governo delle classi elevate); oclocrazia, (governo della plebe), oligarchia (governo di una fazione)?....L'osservazione è giusta, questo si è visto; ma questi governi sono governi di fatto, frutto di usurpazione, di violenza, di reazione, di transizione, d'empirismo, in cui tutti i principi sono simultaneamente adottati, e poi ugualmente violati, misconosciuti e confusi; e noi stiamo ora considerando i governi a priori, concepiti secondo la logica e su un solo principio.

Nella politica razionale, ancora una volta, niente di arbitrario, che prima o poi non si debba distinguere dalla politica pratica. L'arbitrario in realtà non è un prodotto né della natura né dello spirito: non è né la necessità delle cose né la dialettica infallibile delle idee che lo generano. Sapete di chi è figlio l'arbitrario? Il suo nome ve lo dice: del libero ARBITRIO, della Libertà. Cosa meravigliosa! Il solo nemico contro il quale la Libertà deve stare in guardia, non è in fondo l'Autorità, che tutti gli uomini adorano come se fosse la Giustizia, ma è la Libertà stessa, la libertà del principe, la libertà dei grandi, la libertà delle moltitudini, mascherata d'Autorità.

Dalla definizione a priori delle diverse specie di governo, passiamo ora alle loro forme.

Si chiamano forme di governo i modi in cui si distribuisce e si esercita il Potere. Naturalmente e logicamente queste forme sono in rapporto col principio, la formazione e la legge di ogni regime.

Allo stesso modo in cui il padre nella famiglia primitiva, il patriarca nella tribù, è allo stesso tempo padrone della casa, del carro o della tenda, herus, dominus, proprietario del suolo, delle greggi e dei loro prodotti, coltivatore, industriale, amministratore, commerciante, gran sacerdote, guerriero; così è nella monarchia, in cui il principe è contemporaneamente legislatore, amministratore, giudice, generale, pontefice. Egli ha il dominio completo della terra e della rendita; è il capo delle arti e dei mestieri, del commercio, dell'agricoltura, della marina, della pubblica istruzione , è investito di tutto il diritto e di tutta l'autorità. In due parole il re è il rappresentante della società, la sua incarnazione; lo Stato è lui. La concentrazione o indivisione dei poteri è la caratteristica della monarchia. Al principio di autorità che caratterizzava il padre di famiglia ed il monarca, viene a ricongiungersi come corollario il principio dell'universalità delle attribuzioni. Un condottiero, come Giosuè; un giudice, come Samuele; un sacerdote, come Aronne: un re, come David; un legislatore, come Mosè, Solone, Licurgo, Numa; tutti questi titoli sono riuniti nella stessa persona; tale è lo spirito della monarchia, tali sono le sue forme.

Ben presto, a causa dell'estensione dello Stato, l'esercizio dell'autorità eccede le forze di un solo uomo. Il principe allora si fa assistere da consiglieri, ufficiali o ministri, scelti da lui e che agiscono per suo conto ed al suo posto, come suoi inviati e procuratori nei confronti del popolo. Come il principe che rappresentano, questi delegati, satrapi, proconsoli o prefetti, cumulano nel loro mandato tutti gli attributi dell'autorità. Ma si intende che devono rendere conto della loro gestione al monarca, che è il loro padrone, nell'interesse e nel nome del quale essi governano, da cui ricevono le direttive, e che li fa sorvegliare in modo da assicurarsi sempre il totale mantenimento dell'autorità, l'onore del comando, i benefici dello Stato, ed in modo da preservarsi da ogni usurpazione, da ogni sedizione. In quanto alla nazione, essa non ha diritto a chiedere resoconti e gli agenti del principe non sono tenuti a rendergliene. In questo sistema la sola garanzia dei sudditi è nell'interesse del sovrano, che del resto non riconosce altra legge che il suo consenso.

Nel regime comunista le forme di governo sono le stesse, cioè il potere è esercitato in modo indiviso da tutta la collettività sociale, cosi come lo era prima per il solo re. Allo stesso modo accadeva nei campi di maggio dei Germani, in cui il popolo intero, senza distinzione di età e di sesso, deliberava e giudicava; è così che i Cimbri ed i Teutoni, accompagnati dalle loro donne, combattevano contro Mario: non conoscevano niente della strategia e della tattica, che cosa se ne facevano dei generali? E' per un residuo di questo comunismo che in Atene le sentenze per i criminali erano rese dalla massa intera dei cittadini; è per una suggestione dello stesso genere che la Repubblica del 1848 si diede novecento legislatori, dolendosi di non poter riunire nella stessa assemblea i dieci milioni di elettori, che dovette contentarsi di convocare allo scrutinio. I progetti di legislazione diretta per il o per il no, proposti ai nostri giorni, sono usciti di lì.

Le forme di Stato liberale o democratico corrispondono ugualmente al suo principio di formazione ed alla legge che determina lo sviluppo di questo stato; in conseguenza, si differenziano radicalmente da quelle della monarchia. Esse consistono nel fatto che il Potere, invece di essere esercitato collettivamente e congiuntamente come nella comunità primitiva, è ripartito fra cittadini in due modi. Se si tratta di un compito suscettibile di essere materialmente diviso, come la costruzione di una strada, il comando di una flotta, la polizia di una città, l'istruzione della gioventù, si divide il lavoro per sezioni, la flotta per squadre o perfino per navi, la città per quartieri, l'insegnamento per classi; su ciascuna delle quali si stabilisce un imprenditore, un commissario, un ammiraglio, capitano o maestro. Gli Ateniesi avevano l'abitudine, nelle loro guerre, di nominare dieci o dodici generali, dei quali ognuno comandava per un giorno a turno; uso che oggi sembrerebbe molto strano, ma la democrazia ateniese non tollerava niente di più. Se la funzione è indivisibile, si lascia intera oppure si nominano diversi titolari, malgrado il precetto di Omero che dice che la pluralità dei comandanti è una pessima cosa. Così, là dove noi mandiamo un solo ambasciatore, gli antichi ne spedivano una compagnia. Oppure ci si contenta, per ogni funzione, di un solo funzionario che ci si dedichi e ne faccia a poco a poco la propria professione, la propria specializzazione: ciò tende ad introdurre nel corpo politico una classe particolare di cittadini, conosciuti come pubblici funzionari. A partire da questo momento la democrazia è in pericolo: lo Stato si distacca dalla nazione; il suo personale torna ad essere pressappoco quello che era sotto la monarchia , più devoto al superiore che alla nazione ed allo Stato. In compenso da ciò è scaturita una grande idea, una delle più grandi della scienza, l'idea della divisione o separazione dei Poteri. Grazie a questa idea, la Società prende una forma decisamente organica; le rivoluzioni possono succedersi come le stagioni, c'è in essa qualcosa che non morirà più, cioè la costituzione del pubblico potere per categorie: Giustizia, Amministrazione, Guerra, Finanze, Culti, Istruzione pubblica, Commercio, ecc.

L'organizzazione del governo liberale o democratico è più complicata, più competente, di una pratica più laboriosa e meno appariscente rispetto a quella del governo monarchico: e per conseguenza è meno popolare. Quasi sempre le forme di governo libero sono state accusate di aristocrazia dalle masse, che hanno loro preferito l'assolutismo monarchico. Da ciò si genera quella specie di circolo vizioso nel quale si dibattono e si dibatteranno ancora per lungo tempo i progressisti. Naturalmente è in vista di un miglioramento delle condizioni delle masse che i repubblicani reclamano delle libertà e delle garanzie; è dunque sul popolo che devono cercare di appoggiarsi. Ora è sempre il popolo che, per diffidenza o indifferenza verso le forme democratiche, ostacola la libertà (b).

Le forme dell'anarchia possono essere -indifferentemente, secondo la volontà di ogni individuo, e nel limite dei suoi diritti- quelle della monarchia o della democrazia.

Tali sono nei loro principi e nelle loro forme, i quattro governi elementari, dati a priori dall'intelligenza umana, per servire come materiale per tutte le costruzioni politiche dell'avvenire. Ma, lo ripeto, questi quattro tipi, benché suggeriti dalla natura delle cose, così come dal sentimento della libertà e del diritto, per il rigore delle loro leggi non sono affatto destinate alla realizzazione. Esse sono delle concezioni ideali, delle formule astratte, secondo le quali si costituiranno empiricamente e intuitivamente tutti i governi di fatto, ma che esse stesse non saprebbero tradurre in stato di fatto. La realtà è complessa per sua natura, il semplice non può uscire dall'ideale, non arriva al concreto. Noi possediamo in queste formule antitetiche i dati di una costituzione regolare, della costituzione futura dell'umanità; ma bisogna che passino dei secoli, che una serie di rivoluzioni si succeda, prima che la formula definitiva si liberi dal cervello che la deve concepire, che è il cervello dell'umanità.

Note:

(a) Il divenire non è, qualunque cosa abbiano detto certi filosofi più mistici che profondi, una posizione di mezzo fra l'essere ed il non essere; il divenire è il movimento dell'essere nella sua vita e nelle sue manifestazioni.

(b) Ciò che importa tenere bene a mente, è che i governi si distinguono per la loro essenza non per il titolo dato al governante. Così, l'essenza della monarchia è nell' indivisione dei poteri governativi ed amministrativi, nell'assolutismo del principe, uno o collettivo, e nella sua irresponsabilità. L'essenza della democrazia, al contrario, è nella separazione dei poteri, nella distribuzione dei compiti, il controllo e la responsabilità. La corona e la sua stessa ereditarietà non sono qui che degli accessori simbolici. Indubbiamente è per il padre-re, per l'ereditarietà e per la consacrazione, che la monarchia si rende tangibile: ciò ha fatto credere al volgo che, mancando i segni, la cosa non esisteva più. I fondatori della democrazia, nel 93, credettero di aver fatto cosa meravigliosa a tagliare la testa al re, ed intanto decretavano la centralizzazione. Ma è un errore che non deve più ingannare nessuno. Il consiglio dei DIECI a Venezia era un vero tiranno, e la repubblica un dispotismo atroce. Al contrario, date un principe col titolo di re ad una repubblica come la Svizzera; se la costituzione non cambia, sarà come se aveste messo un cappello di feltro sulla statua di Enrico IV.
 
 



CAPITOLO IV

TRANSAZIONE FRA I PRINCIPI: ORIGINE

DELLE CONTRADDIZIONI DELLA POLITICA.


 





Poiché i due principi sui quali riposa ogni ordine sociale, L'Autorità e la Libertà da un lato sono contrari l'uno all'altro e sempre in lotta, e dall'altro non possono escludersi né annullarsi, è inevitabile una transazione fra di loro. Qualunque sia il sistema preferito, monarchico, democratico, comunista o anarchico, l'istituzione non sopravviverà solo per il tempo in cui avrà saputo appoggiarsi in misura più o meno considerevole sulle caratteristiche del suo antagonista. Per esempio si sbaglierebbe di molto se si immaginasse che il regime di autorità, col suo carattere paternalistico, le sue usanze familiari, la sua iniziativa assoluta, possa far fronte con la sua sola forza ai suoi bisogni. Per poco che lo Stato si ingrandisca, questa venerabile paternità degenererà rapidamente in impotenza, confusione irragionevolezza e tirannia: Il principe è incapace di provvedere a tutto; deve affidarsi ad intermediari che lo ingannano, lo derubano, lo discreditano, lo svalutano presso l'opinione pubblica, lo soppiantano ed infine lo detronizzano. Questo disordine, inerente al potere assoluto, con la corruzione che ne consegue e le catastrofi che lo minacciano incessantemente, sono la peste della società e degli Stati. Pertanto si può stabilire come regola la considerazione che il governo monarchico è tanto più benevolo, morale, giusto e sopportabile e pertanto durevole (tralascio in questo momento le relazioni esterne), quanto più le sue dimensioni sono modeste e si avvicinano maggiormente al quelle di una famiglia; e viceversa, lo stesso governo sarà tanto più insufficiente, oppressivo. odioso ai suoi sudditi e conseguentemente instabile, quanto più lo Stato sarà diventato vasto. La storia ha conservato il ricordo ed i nostri tempi ci forniscono gli esempi di queste spaventose monarchie, mostri informi, veri mastodonti politici, che una civiltà migliore, deve progressivamente far scomparire. In tutti questi Stati l'assolutismo è in ragione diretta della massa dei sudditi e si regge in virtù del proprio prestigio; in un piccolo Stato, al contrario, la tirannia non si può sostenere che per mezzo delle truppe mercenarie; altrimenti, vista da vicino, si dissolve.

Per ovviare a questo vizio della loro natura, i governi monarchici sono stati costretti a concedere, in misura più o meno ampia, le forme della libertà, in particolare la separazione dei poteri o la divisione della sovranità.

La ragione di questa modifica è facile da capire. Se un solo uomo è appena sufficiente a coltivare con difficoltà un fondo di cento ettari, condurre una manifattura che occupa alcune centinaia di operai, provvedere all'amministrazione di un comune di cinque-seimila abitanti, come potrebbe sopportare il peso di un impero di quaranta milioni di uomini? Ecco dunque che la monarchia ha dovuto inchinarsi a questo duplice principio, improntato ai concetti dell'economia politica: 1° la maggior quantità di lavoro è svolto e il maggior valore è prodotto quando il lavoratore è libero e può agire per suo conto come imprenditore o proprietario; 2° la qualità del prodotto o servizio prestato è tanto migliore quanto più il produttore conosce il suo mestiere e vi si consacra esclusivamente. C'è ancora una ragione che spiega questo prestito fatto dalla monarchia alla democrazia, ed è che la ricchezza sociale aumenta proporzionalmente alla divisione delle attività ed alla organizzazione delle industrie, e questo significa, in politica, che il governo sarà migliore ed offrirà maggiore sicurezza per il principe, se le funzioni saranno meglio distinte ed equilibrate: cosa, questa, impossibile nel regime assoluto. Ecco come i principi sono stati indotti a repubblicanizzarsi, per così dire, da se stessi, allo scopo di sfuggire ad una inevitabile rovina. Gli ultimi anni ci hanno offerto esempi clamorosi, in Piemonte, in Austria ed in Russia. Nella situazione deplorevole in cui lo zar Nicola aveva lasciato il suo impero, non è di scarso rilievo, tra le riforme adottate da suo figlio Alessandro (a), l'introduzione della distinzione dei poteri nel governo russo.

Fatti analoghi, ma inversi, si osservano nel governo democratico.

Ammettiamo pure di stabilire, con tutta la sagacità e la precisione possibile, i diritti ed i doveri dei cittadini, le competenze dei funzionari, prevedere le situazioni, le eccezioni, le anomalie; la fecondità dell'imprevisto supera di molto la prudenza dell'uomo di Stato e, più si legifera, più nascono i contrasti. Tutto questo esige, da parte dei rappresentanti del potere, una facoltà di iniziativa e di arbitraggio, che, per farsi valere, hanno solo un modo, quello di costituirsi come autorità. Togliete al principio democratico, togliete alla libertà questa suprema sanzione, l'autorità, e lo Stato si disgregherà all'istante. E' chiaro, tuttavia, che in tal caso non ci troviamo più nel libero contratto, a meno che non si sostenga che i cittadini sono d'accordo, in caso di controversia, di accettare la decisione di uno di loro designato precedentemente, e cioè di un giudice: cosa che significa esattamente rinunciare al principio democratico e adottare quello monarchico.

La democrazia può moltiplicare tanto quanto vuole con i funzionari, le garanzie legali ed i mezzi di controllo, può subissare i suoi agenti di formalità, chiamare senza posa i cittadini alle elezioni, al voto: per amore o per forza i suoi funzionari sono uomini d'autorità, la parola è recepita; e se fra il personale dei pubblici funzionari se ne trova uno o più di uno incaricato della direzione generale degli affari, questo capo, individuale o collettivo, del governo è ciò che anche Rousseau ha chiamato principe, per un nulla sarà re.

Si possono fare osservazioni analoghe sul comunismo e sull'anarchia. Non si sono mai avuti esempi di una comunità perfetta; ed è poco probabile, qualunque sia il grado di civiltà, di moralità, di saggezza che raggiunga il genere umano, che ogni traccia di governo ed autorità scompaiano. Ma mentre la comunità rimane il sogno della maggioranza dei socialisti, l'anarchia è l'ideale della scuola liberista, che tende soprattutto a sopprimere ogni tipo di governo ed a costituire la società sulle sole basi della proprietà e del lavoro libero.

Non farò altri esempi. Ciò che ho detto è sufficiente a dimostrare la validità della mia tesi, cioè che la monarchia e la democrazia, il comunismo e l'anarchia, non potendo realizzarsi nella purezza del loro ideale, sono costretti a completarsi l'uno con l'altro per mezzo di concessioni reciproche.

Certamente, c'è di che umiliare l'intolleranza dei fanatici che non possono sentir parlare di un'opinione contraria alla loro senza provare una sorta di sdegno. Che apprendano dunque, gli infelici, che proprio essi stessi sono necessariamente infedeli ai loro principi, che la loro fede politica è tessuta di incoerenze ed auguriamoci che anche il potere possa a sua volta giungere a non attribuire a chi discute dei differenti sistemi di governo alcuna intenzione faziosa. Convincendosi una buona volta che questi termini di monarchia, democrazia, ecc., non esprimono che delle concezioni teoriche, molto lontane dalle istituzioni che sembrano tradurle, il monarchico alle parole del contratto sociale, di sovranità del popolo, di suffragio universale, ecc., resterà calmo; il democratico, sentendo parlare di dinastia, di potere assoluto, di diritto divino, conserverà sorridendo il suo sangue freddo. Non c'è nessuna vera monarchia, non esiste nessuna vera democrazia. La monarchia è la forma primitiva, fisiologica e per così dire patronimica dello Stato; essa vive nel cuore delle masse e si realizza sotto i nostri occhi con forza, per mezzo della generale tendenza all'unità. La democrazia a sua volta germoglia da ogni parte; affascina le anime generose e conquista dovunque le élite della società. Ma è per la dignità della nostra epoca che si deve rinunciare alla fine a queste illusioni, che troppo spesso degenerano in menzogne. La contraddizione è nella sostanza di tutti i programmi. I tribuni popolari senza rendersene conto si affidano alla monarchia; i re alla democrazia e all'anarchia. Dopo l'incoronazione di Napoleone I°, la formula Repubblica francese, si lesse a lungo su una delle due facce delle monete, che portavano dall'altra, con l'effige di Napoleone, il titolo Imperatore dei Francesi. Nel 1830 la monarchia di Luigi Filippo fu designata da La Fayette come la migliore delle repubbliche; ed egli non è forse stato soprannominato il re dei proprietari? Allo stesso modo Garibaldi ha reso a Vittorio Emanuele lo stesso servizio di La Fayette a Luigi Filippo. Più tardi, è vero, La Fayette e Garibaldi, sono apparsi pentiti; ma il loro giudizio iniziale deve essere accettato, tanto più che, come tutte le ritrattazioni sarebbe illusoria. Nessun democratico può dirsi del tutto immune da ogni atteggiamento monarchico; nessun partigiano della monarchia può ritenere di essere del tutto esente da ogni atteggiamento repubblicano. Dato che la democrazia, non ha mai saputo ripugnare l'idea dinastica più che l'idea unitaria, i fautori dei due sistemi non hanno il diritto di scomunicarsi a vicenda, si impone loro la tolleranza reciproca.

Ora, che cos'è la politica, se ad una società è impossibile costituirsi esclusivamente sul principio che essa preferisce; se, qualunque cosa faccia il legislatore, il governo qui ritenuto monarchico, lì democratico, resta pur sempre un composto ambiguo, in cui elementi opposti si mescolano in proporzioni arbitrarie in balia del capriccio e degli interessi; in cui le definizioni più precise conducono fatalmente alla confusione ed alla promiscuità; in cui, per conseguenza, tutte le conversioni, tutte le defezioni sono possibili ed il trasformismo passa come virtù? Che campo aperto alla ciarlataneria, all'intrigo, al tradimento! Quale Stato potrebbe sopravvivere in queste condizioni tanto degradanti? Lo Stato non è ancora costituito, che già porta nella contraddizione della sua idea il suo principio di morte. Strana creatura, in cui la logica rimane impotente, mentre l'incoerenza sembra essere la sola pratica razionale.

Note:

(a) E' dalla necessità di separare i poteri e di distribuire l'autorità che dopo Carlomagno nacque, in parte, la feudalità. Da questo anche quella falsa aria di federalismo che rivestì, per la sfortuna dei popoli e dell' Impero. La Germania, costretta nello Statu quo di una costituzione assurda, risente ancora di quelle lunghe lacerazioni. L'Impero si è frantumato e la nazionalità è stata compromessa.

(b) Si potrebbe scrivere un'opera interessante sulle Contraddizioni politiche, da abbinare alle Contraddizioni economiche. Ci ho pensato più di una volta; ma, scoraggiato dalla cattiva accoglienza della critica, distratto da altri lavori, ho rinunciato. L'impertinenza dei recensori si sarebbe ancora rallegrata sull' antinomia, la tesi e l' antitesi; lo spirito francese, talvolta così penetrante e così giusto, si sarebbe rivelato nella persona dei signori giornalisti, molto sciocco, molto ridicolo e stolto; la fatuità gallica avrebbe contato un nuovo trionfo, e tutto sarebbe stato detto. Avrei risparmiato ai miei compatrioti una mistificazione, fornendo loro subito la soluzione che avrei dovuto comunque dare, se avessi esposto davanti a loro tutte le difficoltà del problema.



 
 

CAPITOLO V

GOVERNI DI FATTO : DISSOLUZIONE SOCIALE.


 




Poiché la monarchia e la democrazia, le sole di cui ormai mi occupo, sono dunque due principi validi nella teoria, ma irrealizzabili nel rigore dei loro termini, è stato inevitabile, come ho appena detto, rassegnarsi nella pratica a transazioni di ogni specie: da queste transazioni obbligate sono derivati tutti i governi di fatto. Questi governi, costruzioni dell'empirismo, variabili all'infinito, sono dunque essenzialmente e senza eccezioni dei governi composti o misti.

Osserverò a questo proposito che i pubblicisti si sono ingannati e che hanno introdotto nella politica un dato tanto falso quanto pericoloso, allorché, non distinguendo la teoria dalla pratica, la realtà dall'ideale, hanno posto sullo stesso piano i governi di pura concezione, non realizzabili nella loro interezza, come la monarchia e la democrazia pura ed i governi di fatto o misti. La verità, lo ripeto, è che non esiste né possono esistere governi della prima specie se non in teoria: ogni governo di fatto è necessariamente misto, non importa che si chiami monarchia o democrazia. Questa osservazione è importante. Essa sola permette di ricondurre ad un errore di dialettica le innumerevoli delusioni, corruzioni, rivoluzioni della politica.

Tutte le varietà di governo di fatto, in altra parole, tutte le transazioni costituzionali, attuate o proposte fin dai tempi più antichi fino ai nostri giorni, si riducono a due specie principali, che chiamerò con le loro denominazioni attuali: Impero e Monarchia costituzionale. Ma questo richiede una spiegazione.

Poiché la guerra e l'ineguaglianza delle condizioni fin dalle origini hanno caratterizzato la condizione dei popoli, la società si è divisa naturalmente in un certo numero di classi: Guerrieri, Nobili, Preti, Proprietari, Mercanti, Navigatori, Industriali, Contadini. La dove esiste un monarca, si costituisce una casta a sé, la prima di tutte: questa è la dinastia

La lotta delle classi fra di loro, l'antagonismo dei loro interessi, il modo in cui questi interessi si coalizzano, determinano il regime politico, conseguentemente la scelta di governo, le sue innumerevoli varietà e le sue varianti ancora più numerose. A poco a poco tutte queste classi si riducono a due: una superiore, Aristocrazia, Borghesia o Patriziato; una inferiore, Plebe o Proletariato entro le quali oscilla la monarchia, organo del potere, espressione dell'autorità. Se l'Aristocrazia si unisce alla monarchia, il governo che ne risulterà sarà una monarchia temperata, oggi detta costituzionale; se è il popolo che si coalizza con l'autorità, il governo sarà un impero, o democrazia autocratica. La Teocrazia del medioevo consisteva in un patto fra il sacerdote e l'imperatore; il Califfato era una monarchia religiosa e militare. A Tiro, Sidone, Cartagine, la monarchia si appoggiò sulla classe dei mercanti, fino al momento in cui questa si impadronì del potere. Sembra che a Roma la monarchia, nei primi tempi, abbia avuto rispetto per i patrizi ed i plebei; successivamente queste due classi si coalizzarono contro la corona, la monarchia fu abolita e lo Stato prese il nome di Repubblica. Tuttavia il patriziato rimase prevalente. Questa costituzione aristocratica, però, fu turbolenta come la democrazia ateniese; il governo visse di espedienti, ma, mentre la democrazia ateniese soccombette al primo urto, con la guerra del Peloponneso, a Roma, invece, il Senato romano fu costretto a tenere impegnato il popolo tanto da giungere-come risultato- alla conquista del mondo. Data la pace al mondo, seguì la guerra civile ad oltranza; e per porvi fine, la plebe si dette un capo, distrusse il patriziato e la Repubblica, e creò l' impero.

Ci si stupisce che il governo fondato sotto gli auspici della borghesia o di un patriziato, d'accordo con una dinastia, sia in genere più liberale di quello fondato da una moltitudine sotto la guida di un dittatore o di un tribuno. La cosa, in effetti, deve sembrare altrettanto stupefacente, in quanto in fondo la plebe è più interessata e realmente più incline alla libertà che la borghesia. Ma questa contraddizione, punto critico della politica, si spiega con la situazione dei partiti, situazione che in caso di vittoria popolare, fa ragionare ed agire la plebe come autocrate ed in caso di prevalenza della borghesia, la fa ragionare ed agire questa come repubblicana. Torniamo al dualismo fondamentale: Autorità, Libertà e lo comprenderemo.

Dalla divergenza di questi due principi nascono in primo luogo, sotto l'influenza delle passioni e degli interessi contrari, due tendenze inverse, due correnti di opinione opposte: dato che i sostenitori dell'autorità tendono a riservare alla libertà, sia individuale sia corporativa o locale, lo spazio minore ed a sfruttare sulla base di ciò, a loro profitto personale ed a detrimento della moltitudine, il potere da essi appoggiato; i sostenitori del regime liberale, al contrario, tendono a limitare indefinitamente l'autorità ed a vincere l'aristocrazia per mezzo della determinazione incessante delle funzioni pubbliche, degli atti del potere e delle sue forme. Per effetto della sua posizione, per l'umiltà della sua condizione, il popolo cerca nel governo l'uguaglianza e la libertà; per la ragione contraria, il patriziato proprietario, capitalista ed imprenditore, è più incline verso una monarchia protettrice delle grandi fortune, capace di assicurare l'ordine a suo profitto e che, per conseguenza, assegna la parte maggiore all'autorità, la minore alla libertà..

Tutti i governi di fatto, qualunque siano le loro ragioni o riserve, si riconducono così all'una o all'altra di queste due formule: subordinazione dell'Autorità alla Libertà; oppure subordinazione della Libertà all'Autorità.

Ma la stessa causa che spinge l'una contro l'altra la borghesia e la plebe fa fare presto ad entrambe un voltafaccia. La democrazia, per assicurare il suo trionfo, ignara d'altra parte della logica del potere, incapace di esercitarlo, si dà un capo assoluto, davanti al quale scompaia ogni privilegio di casta ; la borghesia, che teme il dispotismo come l'anarchia, preferisce consolidare la sua posizione, favorendo lo stabilirsi di una monarchia costituzionale. Così, in fin dei conti, è il partito che ha più bisogno della libertà e dell'ordine legale che crea l'assolutismo; mentre il partito dei privilegiati dà vita al governo liberale, imponendogli per sanzione la restrizione dei diritti politici.

Da ciò si vede che, astrazion fatta dalle considerazioni economiche inerenti al dibattito, borghesia e democrazia, imperialismo e costituzionalismo o qualsiasi nome si dia a questi governi ispirati a principi di antagonismo, tutti si equivalgono quindi a questioni come le seguenti: se il regime del 1814 non valesse più che quello del 1804; se non sarebbe vantaggioso per il paese, tornare dalla costituzione del 1852 a quella del 1830; se il partito repubblicano si fonderà nel partito orleanista o se si riavvicinerà all'impero; simili questioni -dico io- dal punto di vista del diritto e dei principi, sono puerili. Un governo che nasca dalle condizioni considerate non vale che per i fatti che lo hanno prodotto e per gli uomini che lo rappresentano ed ogni disputa teorica a questo riguardo è vana e non può portare che a delle aberrazioni. Le contraddizioni della politica, i cambiamenti di rotta dei partiti, l'inversione perpetua dei ruoli, sono così frequenti nella storia, occupano un così gran posto negli eventi umani, che non posso fare a meno di insistervi. Il dualismo dell'Autorità e della Libertà ci fornisce la chiave di tutti questi enigmi; senza questa precisazione originaria, la storia degli Stati sarebbe la disperazione delle coscienze e lo scandalo della filosofia.

L'aristocrazia inglese ha fatto la Magna Carta; i puritani hanno prodotto la dittatura di Cromwell. In Francia, è la borghesia che pone le basi imperiture di tutte le nostre costituzioni liberali. A Roma, il patriziato aveva organizzato la repubblica; la plebe inventò i Cesari ed i pretoriani. Nel sedicesimo secolo, la riforma è inizialmente aristocratica; la massa resta cattolica o si sceglie dei messia come Giovanni di Leida; esattamente l'inverso di quanto si era visto quattrocento anni prima, quando i nobili bruciavano gli albigesi. Quante volte, questa osservazione è di Ferrari, il medio evo ha visto i Ghibellini farsi Guelfi ed i Guelfi cambiarsi in Ghibellini! Nel 1813, la Francia combatte per il dispotismo, la coalizione per la libertà, proprio il contrario di ciò che era avvenuto nel 1792. Oggi i legittimisti ed i clericali sostengono la federazione, i democratici sono unitari. Non si finirebbe mai di citare simili esempi; ciò non significa però che le idee, gli uomini e le cose non debbano essere sempre classificati per le loro tendenze naturali e per le loro origini, che i blu non siano sempre blu ed i bianchi sempre bianchi.

Il popolo, per il fatto stesso della sua inferiorità e della sua miseria, formerà sempre l'armata della libertà e del progresso; il lavoro è repubblicano per natura ed il contrario sarebbe una contraddizione. Ma, a causa della sua ignoranza e dei suoi istinti primitivi, della violenza dei suoi bisogni, dell'impazienza dei suoi desideri, il popolo è incline alle forme sommarie di autorità. Ciò che cerca non sono le garanzie legali, di cui non ha alcuna idea e non concepisce la portata; non è affatto una combinazione di meccanismi o un equilibrio di forze, di cui non sa che fare, è un capo della cui parola possa fidarsi, le cui intenzioni gli siano chiare e che si dedichi ai suoi interessi. A questo capo conferisce autorità senza limiti, il potere massimo. Il popolo, considerando giusto tutto ciò che giudica essergli utile, considerato che è il popolo, se ne ride delle formalità, non tiene in alcun conto le condizioni imposte ai depositari del potere. Pronto al sospetto ed alla calunnia, ma incapace di una discussione metodica, non crede in definitiva che alla volontà umana, non spera che nell'uomo, non confida che nelle sue creature: in princibus, in filiis hominum; il popolo non si aspetta niente dai princìpi, che soli possono salvarlo; non ha la religione delle idee.

E' così che la plebe romana, dopo settecento anni di regime progressivamente liberale ed una serie di vittorie riportate da esso sul patriziato, credette di togliere di mezzo tutte le difficoltà annientando il partito dei tribuni, dette a Cesare la dittatura perpetua, fece tacere il senato, abolire i comizi e, per uno staio di grano, annona, fondò l'autocrazia imperiale. Ciò che c'è di curioso è che questa democrazia era sinceramente convinta del suo liberalismo, e si vantava di impersonare il diritto, l'uguaglianza ed il progresso! I soldati di Cesare, idolatri del loro imperatore, erano pieni di odio e di disprezzo per i re: se gli assassini del tiranno non furono immolati sul posto, fu perché Cesare era stato visto alla vigilia della sua uccisione cingersi il capo calvo con l'insegna regale. Così i seguaci di Napoleone I°, usciti dal club dei Giacobini, nemici dei nobili, dei preti e dei re, trovarono del tutto normale fregiarsi con i titoli di barone, di duca, di principe e fare la corte all'imperatore; non gli perdonarono, però, di aver preso in moglie una principessa Asburgica.

Lasciata a se stessa o condotta dai suoi tribuni, la moltitudine non ha creato mai niente. Ha la testa girata indietro: presso di lei non si forma alcuna tradizione, nessun spirito di gruppo, nessuna idea che assuma la forza della legge. Della politica non comprende che l'intrigo, del governo solo le elargizioni e la forza, della giustizia solo la vendetta; della libertà non conosce altro che la possibilità di erigersi degli idoli che essa demolisce all'indomani. L'avvento della democrazia apre un'era di regresso che condurrebbe la nazione e lo Stato alla morte, se essi non si sottraessero alla fatalità che li minaccia con una rivoluzione in senso inverso, che si tratta ora di valutare.

Quando la plebe che vive giorno per giorno, senza proprietà, senza imprese, esclusa dai pubblici impieghi, è al riparo dai rischi della tirannia, di cui non si dà pensiero, tanto la borghesia, che ha possedimenti, traffici e produce, avida di terre e di guadagni, è interessata a prevenire le catastrofi e ad assicurarsi l'appoggio del potere. Il bisogno di ordine la riconduce alle idee liberali: da ciò derivano le costituzioni che essa impone ai suoi re. Nello stesso momento in cui essa riveste il governo di apparati legali e l'assoggetta al voto di un parlamento, limita i diritti politici ad una categoria di contribuenti ed abolisce il suffragio universale; ma si guarda bene dal toccare l'accentramento amministrativo, contrafforte della feudalità industriale. Se la separazione dei poteri le è utile per bilanciare l'influenza della corona ed impedire la politica personale del principe, se d'altra parte il privilegio elettorale la serve ugualmente bene contro le aspirazioni popolari, non le è meno preziosa la centralizzazione; anzitutto perché ha bisogno degli amministratori, che mettono la borghesia a parte del potere e delle imposte, poi perché le agevola lo sfruttamento pacifico delle masse. Sotto un regime di centralizzazione amministrativa e di suffragio ristretto dove la borghesia, grazie alla sua maggioranza, resta padrona del governo, tutta la vita locale è soffocata ed ogni reazione facilmente repressa, sotto un tale regime- io dico- la classe dei lavoratori, chiusa nelle sue officine è naturalmente votata al salariato. La libertà esiste, ma nella sfera della società borghese, cosmopolita come i suoi capitali; quanto alla moltitudine, ha dato le sue dimissioni, non solo politiche ma anche economiche.

Devo aggiungere che la soppressione o la conservazione di una dinastia non cambierebbe niente al sistema? Una repubblica unitaria ed una monarchia costituzionale sono una sola ed unica cosa: non c'è che una parola diversa ed un funzionario di meno.

Ma se l'assolutismo democratico è instabile, il costituzionalismo borghese non lo è di meno. Il primo è retrogrado senza freni, senza princìpi, dispregiatore del diritto, ostile alla libertà, distruttivo di ogni sicurezza e fiducia. Il sistema costituzionale, con le sue forme legali, il suo spirito giuridico, il suo temperamento misurato, le sue solennità parlamentari, si rivela chiaramente, in fin dei conti, come un vasto sistema di sfruttamento e d'intrigo, dove la politica si accompagna all'aggiotaggio, in cui l'imposta non è che l'elenco civile di una casta ed il potere monopolizzato è l'ausiliario del monopolio economico. Il popolo ha il vago sentimento di questa immensa usurpazione: le garanzie costituzionali lo toccano poco e lo si è visto, soprattutto nel 1815, preferire il suo imperatore, malgrado le sue infedeltà, ai suoi re legittimi, malgrado il loro liberalismo.

L'alternarsi di insuccessi, ripetuti, della democrazia imperiale e della costituzionalità borghese, hanno come risultato quello di creare un terzo partito che, alzando la bandiera dello scetticismo, non credendo in alcun principio, profondamente e sistematicamente immorale, tende a regnare come qualcuno ha detto con la bilancia, cioè per la rovina completa dell'autorità e della libertà, in una parola per mezzo della corruzione. E' ciò che è stato chiamato sistema dottrinario. Accolto inizialmente dall'odio e dall'esecrazione dei vecchi partiti, questo sistema ha fatto rapidamente fortuna, sostenuto dallo scoraggiamento crescente e giustificato in qualche modo dallo spettacolo della contraddizione universale. In poco tempo è diventato la fede segreta del Potere, al quale il pudore e la decenza impediranno sempre di fare professione pubblica di scetticismo; ma è anche la fede confessata della borghesia e del popolo che, non più frenati da alcuna considerazione, lasciano esplodere la loro indifferenza e se ne vantano. Allora, smarrito negli animi il senso dell'autorità e della libertà, considerate come vane parole la giustizia e la ragione, la società si disgrega, la nazione decade. Ciò che rimane è soltanto materia e forza bruta; una rivoluzione diviene imminente, pena il suicidio morale. Cosa ne verrà fuori? La storia è qui per rispondere, gli esempi si contano a migliaia. Al sistema condannato succederà, grazie alla spinta delle generazioni immemori, senza posa rinnovate, una transazione che avrà lo stesso svolgimento, e che, logora a sua volta e disonorata per la contraddizione delle sue idee, farà la stessa fine. E questo continuerà finché la ragione umana non abbia scoperto il modo di dominare i due opposti principi e non avrà trovato l'equilibrio della vita sociale per mezzo della regolamentazione dei suoi antagonismi.
 
 




CAPITOLO VI

POSIZIONE DEL PROBLEMA POLITICO.

PRINCIPIO DI SOLUZIONE


 




Se il lettore ha seguito con diligenza l'esposizione precedente, la società umana deve apparirgli una creazione fantastica, piena di cose di cui stupirsi e di misteri. Ricordiamo brevemente i vari termini:

a) L'ordine politico riposa su due principi connessi opposti ed irriducibili: l'Autorità e la Libertà.

b) Da questi due principi derivano parallelamente due regimi contrari: il regime assolutista o autoritario ed il regime liberale.

c) Le forme di questi due governi sono tanto diverse fra loro, incompatibili ed inconciliabili, come le loro nature; noi le abbiamo definite in due termini: Indivisione e Separazione.

d) La ragione vuole che ogni teoria debba realizzarsi seguendo il suo principio, tutto l'esistente prodursi secondo la sua legge: la logica è la condizione della vita, come del pensiero.

Ma è proprio il contrario che si manifesta in politica: né l'Autorità né la Libertà possono costituirsi separatamente, dando luogo ad un sistema che sia esclusivamente proprio di ciascuna; lungi da ciò, esse sono condannate, nelle loro rispettive istituzioni, a farsi continue reciproche concessioni.

e) La conseguenza è che la fedeltà ai principi, in politica, non esiste che in teoria, essendo in pratica costretta ad accettare compromessi di ogni genere; il governo in ultima analisi si riduce, malgrado la migliore volontà e tutta la virtù immaginabile, ad una creazione ibrida, equivoca ad una promiscuità di regimi che la logica severa ripudia, e davanti alla quale arretra la buona fede. Nessun governo sfugge a questa contraddizione.

f) Conclusione: l'arbitrario entra fatalmente nella politica, la corruzione diventa presto l'anima del potere e la società è trascinata senza riposo né misericordia, sulla china senza fine delle rivoluzioni.

Il mondo è a questo punto. E non è né l'effetto di una diavoleria, né di una mancanza della nostra natura, né di una condanna della divina provvidenza, né di un capriccio della fortuna o di un segno del Destino: la realtà è questa, ecco tutto. Sta a noi trarre quanto di meglio sia possibile da questa singolare situazione.

Consideriamo che da più di ottomila anni - le nostre conoscenze storiche non vanno oltre - tutte le varietà di governo, tutte le combinazioni politiche e sociali, sono state successivamente sperimentate, abbandonate, riprese, modificate, trasformate, sfruttate e che l'insuccesso ha costantemente ricompensato lo zelo dei riformatori e deluso la speranza dei popoli. Sempre la bandiera della libertà è servita a mascherare il dispotismo; sempre le classi privilegiate, per proteggere i loro privilegi, si sono circondate di istituzioni liberali ed egualitarie; sempre i partiti hanno mentito sui loro programmi e sempre l'indifferenza è succeduta alla fiducia, la corruzione allo spirito civico, gli Stati si sono disgregati per lo sviluppo dei concetti sui quali si erano fondati. Le razze più vigorose e più intelligenti, si sono logorate in questo travaglio: la storia è piena del racconto delle loro lotte. Qualche volta un susseguirsi di trionfi creava illusioni sulla forza dello Stato, facendo credere all'eccellenza di una costituzione, ad una saggezza di governo che non esistevano. Ma con l'avvento della pace i vizi del sistema riapparivano ed i popoli si riposavano, con la guerra civile, dalle fatiche della guerra esterna. L'umanità è passata così di rivoluzione in rivoluzione: le nazioni più celebrate, quelle che sono durate più a lungo, vi sono riuscite solo in questo modo. Fra tutti i governi conosciuti e sperimentati, fino ad oggi, non ce n'è uno che, se fosse stato condannato a sussistere per sua virtù, avrebbe vissuto la vita di un uomo. E' strano, ma i capi di Stato ed i loro ministri sono, fra tutti gli uomini, quelli che credono meno alla durata del sistema che rappresentano; finché non verrà un sistema scientifico, i governi si reggeranno sulla fede delle masse. I Greci ed i Romani, che ci hanno tramandato le loro istituzioni, insieme ai loro esempi, giunti al momento più interessante della loro evoluzione, precipitano nella crisi; e la società moderna sembra arrivata a sua volta all'ora dell'angoscia. Non fidatevi della voce di quegli agitatori che gridano: Libertà, Uguaglianza, Nazionalità; non sanno niente, sono dei morti che hanno la pretesa di resuscitare dei morti. Il pubblico li segue per un istante, come fa con i buffoni ed i ciarlatani; ma poi passa oltre, con la mente vuota e la coscienza desolata.

Segno certo che la nostra dissoluzione è prossima e che una nuova era si sta aprendo, la confusione del linguaggio e delle idee è arrivata al punto che il primo venuto può dichiararsi a suo piacimento repubblicano, monarchico, democratico, borghese, conservatore, partigiano dell'uguaglianza sociale, liberale e tutto questo contemporaneamente, senza timore che nessuno gli faccia capire la menzogna e l'errore. I principi ed i baroni del primo Impero avevano dato prova di sanculottismo. La borghesia del 1814, rimpinguata di beni della nazione, in virtù della sola cosa che avesse compreso delle istituzioni dell'89, era liberale ed anche rivoluzionaria; il 1830 la rifece conservatrice; il 1848 la rese reazionaria, cattolica e più che mai monarchica. Attualmente sono i repubblicani di febbraio che servono la monarchia di Vittorio Emanuele, mentre i socialisti di giugno si dichiarano unitari. Gli antichi seguaci di Ledru-Rollin aderiscono all'impero come alla vera espressione rivoluzionaria ed alla forma più paterna di governo; altri, è vero, li trattano da venduti, ma si scagliano con furore contro il federalismo. E' un imbroglio eretto a sistema di ordine organizzato, l'apostasia permanente, il tradimento universale.

Si tratta di sapere se la società può arrivare a qualche cosa di regolare di giusto e di stabile, che soddisfi la ragione e la coscienza, oppure se siamo condannati per l'eternità a questa ruota di Issione. Il problema è insolubile?.... Che il lettore pazienti ancora un pò; e se più tardi non lo faccio uscire dall'imbroglio, avrà il diritto di dire che la logica è falsa, il progresso un'illusione, e la libertà un'utopia. Degnatevi ancora di ragionare con me per qualche minuto, benché per la verità in una simile questione ragionare significhi esporsi all'autoinganno ed a perdere il proprio tempo e la ragione.

1. Si noterà anzitutto che i due principi, l'Autorità e la Libertà, da cui vengono tutte le difficoltà, si mostrano nella storia in successione logica e cronologica. L'Autorità, come la famiglia, come il padre, genitore, compare per prima : essa ha l'iniziativa, è l'affermazione. La Libertà raziocinante viene dopo: è la critica, la protesta, la libera determinazione. Questo criterio di successione risulta dalla definizione stessa delle idee e dalla natura delle cose e tutta la storia ne rende testimonianza. E questo senza alcuna possibile inversione, senza alcun intervento arbitrario.

2. Un'altra osservazione non meno importante è che il regime paterno e monarchico si allontana tanto più dal suo ideale quanto più la famiglia, la tribù, o città diventa più numerosa e che lo Stato cresce in popolazione ed in territorio: in modo che più l'autorità si estende, più diventa intollerabile. Da qui le concessioni che essa è costretta a fare alla libertà. Inversamente il regime di libertà si avvicina tanto più al suo ideale e moltiplica le sue possibilità di successo, quanto più lo Stato cresce in popolazione ed in estensione, quanto più i rapporti si moltiplicano e la scienza progredisce. Dapprima tutti reclameranno una costituzione; più tardi questo sarà per la decentralizzazione. Attendete ancora, e vedrete sorgere l'idea di federazione. In modo che si potrà dire della libertà e dell'autorità ciò che Giovanni Battista diceva di se stesso e di Gesù: Illam oportet crescere, hanc autem minui.

Questo doppio moto, l'uno di recessione l'altro di progresso, che si risolve in un unico fenomeno, risulta ugualmente dalla definizione dei princìpi, dalla loro collocazione relativa e dai loro ruoli; anche qui nessun equivoco è possibile, né vi è il più piccolo spazio per l'arbitrario. Il fatto è di una evidenza oggettiva e di una certezza matematica; è ciò che noi chiameremo una legge.

3. La conseguenza di detta legge, che si potrebbe definire necessaria, è essa pure necessaria: avviene che, poiché il principio di autorità è comparso per primo e servendo esso di materia o come dato di elaborazione alla Libertà, alla ragione e al diritto, esso venga a poco a poco subordinato al principio giuridico, razionalista e liberale; il Capo di Stato, dapprima inviolabile, irresponsabile, assoluto, come il padre nella famiglia, diventa giudicabile dalla ragione, primo soggetto di legge, e finalmente semplice agente, strumento o servitore della Libertà stessa.

Questa terza proposizione è certa come le prime due, esente da tutti gli equivoci e contraddizioni, ed ampiamente dimostrata dalla storia. Nella lotta eterna dei due principi, la Rivoluzione francese, come la Riforma, appare come un'era emblematica. Essa segna il momento in cui nell'ordine politico la Libertà ha preso ufficialmente il sopravvento sull'Autorità, cosi come la Riforma aveva segnato il momento in cui, nell'ordine religioso, il libero esame era prevalso sulla fede. Dopo Lutero, la fede è diventata dovunque oggetto di ragione; l'ortodossia così come l'eresia, ha preteso di condurre l'uomo alla fede per mezzo della ragione; il precetto di S.Paolo Rationabile sit obsequium vestrum, sia ragionevole la vostra obbedienza, è stato largamente commentato e messo in pratica; Roma s'è messa a discutere come Ginevra; la religione è protesa a farsi scienza; la sottomissione alla Chiesa si è complicata di così tanti condizionamenti e riserve che, fatti salvi gli articoli di fede, non c'è più differenza fra il cristiano ed il non credente. Non sono più della stessa opinione, ecco tutto: del resto, pensiero, ragione, coscienza, in entrambi si comportano allo stesso modo. Similmente dopo la Rivoluzione francese, il rispetto dell'autorità è diminuito; la deferenza agli ordini del principe s'è fatta limitata; si sono pretese dal sovrano reciprocità e garanzie; la mentalità politica è cambiata; i monarchici più ferventi come i baroni di Giovanni senza Terra, hanno voluto aver delle carte ed i Berrier, i de Falloux, i de Montalbert, ecc., potevano dirsi liberali quanto i nostri democratici. Chateaubriand, il cantore della Restaurazione, si vantava di essere filosofo e repubblicano; ed è stato per un puro atto del suo libero arbitrio che si è costituito come difensore dell'altare e del trono. Si sa anche ciò che avvenne al cattolicesimo violento di Lamennais.

Così, mentre l'autorità è in pericolo e diventa di giorno in giorno più precaria, il senso del diritto si fa più certo e la libertà, tenuta sempre in sospetto, diventa sempre più reale e più forte. L'assolutismo, pur resistendo al suo meglio, se ne va; sembra che la Repubblica, sempre combattuta, esecrata, tradita, bandita, si avvicini ogni giorno. Quali conseguenze dobbiamo trarre da questo fatto capitale per la costituzione dei governi?
 
 





CAPITOLO VII

SVILUPPO DELL' IDEA DI FEDERAZIONE


 
















- Dato che nella teoria e nella pratica, l'Autorità e la Libertà si succedono come una sorta di polarizzazione;

- la prima diminuisce impercettibilmente e si ritira, mentre la seconda cresce e si afferma;

- risulta da questo duplice procedere una sorta di subordinazione, in virtù della quale l'Autorità si rimette via via alle regole della Libertà;

- dato che in altri termini il regime liberale, o contrattuale, prevale di giorno in giorno sul regime autoritario, è all'idea di contratto che noi dobbiamo legarci come all'idea dominante della politica.

Cosa si intende, anzitutto, per contratto?

Il contratto, dice l'art. 1101 del Codice civile, è una convenzione per cui una o più persone si obbligano verso una o più, a fare o a non fare qualcosa.

Art.1102.- Esso è sinallagmatico o bilaterale quando i contraenti si obbligano reciprocamente gli uni verso gli altri.

Art. 1103.- E' unilaterale quando una o più persone sono obbligate verso una o molte altre senza che da parte di queste ultime ci sia alcun obbligo.

Art 1104.- E' commutativo quando ognuna delle parti si impegna a dare o a fare una cosa che è considerata come l'equivalente a lui dovuto o di ciò che si fa per essa. - Quando l'equivalente consiste nella possibilità di guadagno o di perdita per ognuna delle parti in conseguenza di un avvenimento incerto, il contratto è aleatorio.

Art. 1105.- Il contratto di beneficenza è quello in cui una parte procura all'altra un vantaggio puramente gratuito.

Art. 1106.- Il contratto a titolo oneroso è quello che obbliga ciascuna delle parti a dare o a fare qualcosa.

Art. 1371.- Si chiamano quasi contratto i fatti volontari dell'uomo da cui risulta un impegno qualsiasi verso un terzo, e qualche volta un impegno reciproco delle parti.

A queste distinzioni e definizioni del Codice, relative alle forme ed alle condizioni dei contratti, ne aggiungerò un'ultima, che riguarda il loro oggetto.

Secondo la natura delle cose di cui si tratta, dello scopo che ci si propone, i contratti sono domestici, civili, commerciali o politici.

E' di quest'ultima specie di contratto, il contratto politico, di cui ci occuperemo ora.

La nozione di contratto non è completamente estranea al regime monarchico, come non lo è alla paternità ed alla famiglia. Ma, dopo ciò che abbiamo detto sui princìpi di autorità e di libertà e sul loro ruolo nella formazione dei governi, si comprende che questi princìpi non intervengono allo stesso modo nella formazione del contratto politico; di conseguenza l'obbligazione che unisce il monarca ai suoi sudditi, obbligo spontaneo, non scritto, risultante dallo spirito familiare e dalla qualità delle persone, è una obbligazione unilaterale, poiché in virtù del principio di obbedienza il suddito è più obbligato verso il principe di quanto questo non lo sia verso il suddito. La teoria del diritto divino dice espressamente che il monarca è responsabile solamente verso Dio. Può anche accadere che il contratto del principe col suddito degeneri in un contratto di pura beneficenza, allorché, per l'inettitudine e l'idolatria dei cittadini, il principe è sollecitato ad impossessarsi dell'autorità ed a farsi carico dei suoi sudditi, incapaci di governarsi e di difendersi, come un pastore del suo gregge. Peggio ancora là dove è ammesso il principio di ereditarietà. Un cospiratore come il duca di Orléans, più tardi Luigi XII, un parricida come Luigi XI, un'adultera come Maria Stuarda, conservano, malgrado i loro crimini, il loro eventuale diritto alla corona. Poiché la nascita li rende inviolabili, si può dire che esiste fra di loro ed i fedeli sudditi del principe al quale essi dovranno succedere, un quasi-contratto. In due parole, per lo stesso fatto che l'autorità è preponderante nel sistema monarchico, il contratto non è paritario.

Il contratto politico invece, acquista la sua dignità ed il suo senso, solo a condizione: 1° di essere sinallagmatico e commutativo; 2° di essere contenuto, quanto al suo oggetto, entro certi limiti: due condizioni che si suppongono esistere sotto il regime democratico, ma che anche in esso, sono spesso solo pura finzione. Si può allora dire che in una democrazia rappresentativa e centralizzatrice, in una monarchia costituzionale e censitaria e a maggior ragione in una repubblica comunista., come concepita da Platone, il contratto politico che lega il cittadino allo Stato sia uguale e reciproco? Si può forse dire che questo contratto, che sottrae ai cittadini la metà o i due terzi della loro sovranità, ed il quarto del loro prodotto, sia contenuto entro giusti limiti? Sarebbe più esatto dire ciò che l'esperienza conferma troppo spesso e cioè che il contratto, in quasi tutti i sistemi, è esorbitante, oneroso, poiché esso è per una parte più o meno considerevole di cittadini senza contropartita; è aleatorio, poiché il vantaggio promesso, già insufficiente, non è neppure assicurato.

Affinché il contratto politico, rispetti la condizione sinallagmatica e commutativa suggerita dall'idea di democrazia (perché in parole povere sia vantaggioso ed utile per tutti), bisogna che il cittadino, entrando nell'associazione, 1° abbia tanto da ricevere dallo Stato, quanto ad esso sacrifica; 2° che conservi tutta la propria libertà, sovranità e iniziativa, meno ciò che è la parte relativa all'oggetto speciale per il quale il contratto è stipulato e per la quale si chiede la garanzia allo Stato. Così regolato ed inteso, il contratto politico è ciò che io chiamo una federazione.

FEDERAZIONE: dal latino foedus, genitivo foederis, cioè patto, contratto, trattato, convenzione, alleanza ecc., è una convenzione per la quale uno o più capi di famiglia, uno o più comuni, uno o più gruppi di comuni o Stati, si obbligano reciprocamente e su un piano di eguaglianza gli uni verso gli altri, per uno o più oggetti particolari, la cui responsabilità grava da quel momento specialmente ed esclusivamente sui delegati della federazione (a).

Torniamo su questa definizione.

Ciò che costituisce l'essenza ed il carattere del contratto federale, su cui desideravo richiamare l'attenzione del lettore, è che in questo sistema i contraenti, i capi di famiglia, comuni, cantoni, province o Stati, non solo si obbligano bilateralmente e commutativamente gli uni verso gli altri, ma si riservano individualmente, nel dar vita al patto, più diritti, libertà e proprietà, di quanta ne cedono.

Non è così, per esempio, nella società universale dei beni e dei profitti, autorizzata dal Codice civile, altrimenti detta comunità, immagine in miniatura di tutti gli Stati assoluti. Colui che si impegna con una associazione di questo genere, soprattutto se perpetua, si trova ad essere oppresso da legami, sottomesso ad oneri maggiori dell'iniziativa che conserva. Ma è questo ciò che rende raro questo contratto, e che ha reso in tutti i tempi insopportabile la vita austera. Ogni obbligo, sia reciproco sia commutativo, che, esigendo dagli associati la totalità dei loro sforzi, non lasci niente alla loro indipendenza e li voti tutti interamente all'associazione, è un impegno eccessivo, che ripugna ugualmente al cittadino ed all'individuo.

Secondo questi princìpi, poiché il contratto di federazione ha per oggetto, in via di massima, di garantire agli Stati confederati la loro sovranità, il loro territorio, la libertà dei loro cittadini; di regolare le loro diversità, di provvedere per mezzo di misure a carattere generale a tutto quanto interessi la sicurezza e la prosperità comune; questo contratto, dico io, malgrado la vastità degli interessi coinvolti, è essenzialmente limitato. L'Autorità incaricata delle sue esecuzioni non può mai prevalere sulle parti costituenti; voglio dire che le attribuzioni federali non possono mai essere superiori in numero ed in realtà a quelle delle autorità comunali o provinciali, nello stesso modo in cui queste non possono eccedere i diritti e le prerogative dell'uomo e del cittadino. Se così non fosse, il comune sarebbe una comunità; la federazione tornerebbe ad essere una centralizzazione monarchica; l'autorità federale, da semplice mandataria e subordinata quale deve essere, sarebbe considerata come preponderante; invece di essere limitata ad un servizio speciale, tenderebbe ad abbracciare ogni attività ed ogni iniziativa; gli Stati confederati sarebbero convertiti in prefetture, intendenze, succursali o regie. Il corpo politico, così trasformato, potrebbe chiamarsi repubblica, democrazia o tutto ciò che vi piacerà : non sarebbe più uno Stato costituito nella pienezza delle sue autonomie, non sarebbe più una federazione. La stessa cosa si verificherebbe, a maggior ragione, se, per un falso calcolo di economia o per deferenza o per tutt'altra causa, i comuni, i cantoni o gli Stati confederati attribuissero ad uno di loro l'amministrazione ed il governo degli altri. La repubblica da federativa diventerebbe unitaria; sarebbe sulla via del dispotismo (b).

Riassumendo, il sistema federativo è l'opposto della gerarchia o centralizzazione amministrativa e governativa, in virtù della quale si distinguono ex aequo: le democrazie imperiali, le monarchie costituzionali e le repubbliche unitarie. La sua legge fondamentale e caratterizzante è questa: nella federazione le attribuzioni dell'autorità centrale si precisano e si riconoscono, diminuiscono di numero, di immediatezza e - oso anche dire - d'intensità man mano che la confederazione si sviluppa per l'adesione dei nuovi Stati. Nei governi centralizzati, al contrario, le attribuzioni del potere supremo si moltiplicano, si ampliano, si fanno più immediate, assorbono nella sfera di competenza del principe gli affari delle province, dei comuni, delle corporazioni, dei singoli, in proporzione alla superficie territoriale ed al numero degli abitanti. Di qui deriva l'oppressione sotto la quale sparisce ogni libertà, non solamente comunale e provinciale, ma anche individuale e nazionale.

Una conseguenza di questo fatto, con la quale terminerò il capitolo, è che, essendo il sistema unitario l'inverso del sistema federativo, è impossibile una confederazione fra grandi monarchie ed ancor più fra democrazie imperialiste. Stati come la Francia, l'Austria, l'Inghilterra, la Russia, la Prussia, possono stipulare fra di loro trattati di alleanza o di commercio; ma ripugna che si federino, anzitutto perché il principio su cui si basano è contrario a ciò, e quindi li metterebbe in opposizione con il patto federale; inoltre, di conseguenza, dovrebbero rinunciare a qualcosa della loro sovranità e riconoscere sopra di sé, almeno per certi casi, un arbitro. La loro natura è di comandare, non di transigere o di obbedire. I principi che, nel 1813, sostenuti dall'insurrezione delle masse, combattevano per la libertà dell'Europa contro Napoleone e più tardi formarono la Santa Alleanza non erano dei confederati: l'assolutismo del loro potere non consentiva loro di assumerne il titolo.

Erano come nel 92, dei coalizzati; e la storia non darà loro altro nome. La stessa cosa non si può dire della Confederazione germanica, attualmente impegnata in un programma di riforme ed in cui l'affermarsi della libertà e della nazionalità minaccia di far sparire un giorno le dinastie che le sono d'ostacolo (c).

Note:

(a) Nella teoria di J.J. Rousseau, che è quella di Robespierre e dei Giacobini, il Contratto sociale è una finzione di legista, immaginata per rendere conto, senza ricorrere al diritto divino, all'autorità paterna o alla necessità sociale, della formazione dello Stato e dei rapporti fra il governo e gli individui. Questa teoria, mutuata dai Calvinisti, costituiva nel 1764 un progresso, poiché aveva per scopo di ricondurre ad una legge razionale ciò che fino allora era stato considerato come un appannaggio della legge di natura e della religione. Nel sistema federativo il contratto sociale è più che una finzione; è un patto positivo, effettivo, che è stato realmente proposto, discusso, votato, adottato, e che si modifica regolarmente secondo la volontà dei contraenti. Fra il contratto federativo e quello di Rousseau e del 93, c'è tutta la distanza che passa fra la realtà e l'ipotesi.

(b) La Confederazione elvetica si compone di venticinque Stati sovrani (diciannove cantoni e sei semi cantoni) per una popolazione di due milioni quattrocentomila abitanti. Essa è dunque retta da venticinque costituzioni, analoghe alle nostre carte o costituzioni del 1791, 1793, 1795, 1799, 1814,1830, 1848, 1852, più una costituzione federale, di cui naturalmente noi non abbiamo, in Francia, l'equivalente. Lo spirito di questa costituzione, conforme ai principi sopra esposti, risulta dagli articoli seguenti

"Art.2 - La confederazione ha per scopo: di sostenere l'indipendenza della Patria contro lo straniero, di mantenere la tranquillità e l'ordine interno, di proteggere la libertà ed i diritti dei confederati, di promuovere la loro comune prosperità.

Art. 3 - I cantoni sono sovrani fin dove la loro sovranità non è limitata dalla costituzione federale, e, come tali, esercitano tutti i diritti che non sono devoluti all'autorità federale.

Art. 5 - La Confederazione garantisce ai cantoni il loro territorio, la loro sovranità entro i limiti stabiliti dall'articolo 3, le loro costituzioni, la libertà ed i diritti del popolo, i diritti costituzionali dei cittadini, così come i diritti e le attribuzioni che il popolo ha conferito alle autorità."

Così una confederazione non è propriamente uno Stato: è un insieme di Stati sovrani ed indipendenti legati da un patto di mutua garanzia. Una costituzione federale non è ciò che si intende in Francia per carta o costituzione e che è il compendio del diritto pubblico del Paese; è il patto che contiene le condizioni della lega, cioè i diritti ed i doveri reciproci degli Stati. Ciò che si definisce Autorità federale, infine, non è un vero governo; è un'agenzia creata dagli Stati, per esplicare in comune certi servizi, a cui ogni Stato rinuncia e che diventano così attribuzioni federali.

In Svizzera, l'Autorità federale si compone di un'Assemblea deliberante, eletta dal popolo dei ventidue cantoni , e di un Consiglio esecutivo composto da sette membri nominati dall'Assemblea. I membri dell'Assemblea e del Consiglio federale sono nominati per tre anni: poiché la costituzione federale può essere revisionata in ogni momento, le loro attribuzioni sono, come le persone, revocabili. Cosicché il potere federale è, in tutto il significato del termine, un mandatario messo nelle mani dei suoi committenti, ed il cui potere varia secondo la loro volontà.

(c) Il diritto pubblico federativo solleva parecchie questioni difficili. Per esempio, uno Stato che ammette la schiavitù può fare parte di una confederazione? Sembra di no, come non lo può uno Stato assolutista: la schiavitù di una parte della nazione è la negazione stessa del principio federativo. Da questo punto di vista, gli Stati uniti del Sud avrebbero tanto più ragione a chiedere la separazione in quanto non rientra nell'intenzione di quelli del Nord di accordare, almeno per qualche tempo, ai Negri emancipati il godimento dei diritti politici. Tuttavia noi sappiamo che Washington, Madison e gli altri fondatori dell' Unione non sono stati di questo parere ed hanno ammesso al patto federale gli Stati schiavisti. E' anche vero che noi vediamo attualmente questo patto contro natura in crisi e gli Stati del Sud, per conservare il loro sfruttamento, tendere ad una costituzione unitaria, mentre quelli del Nord, per mantenere l'unione, decretano la deportazione degli schiavi.

La costituzione federale Svizzera, riformata nel 1848, ha risolto la questione nel senso dell'eguaglianza; il suo articolo 4 dice: " Tutti gli svizzeri sono uguali innanzi alla legge. Nella Svizzera non vi ha sudditanza di sorta, né privilegio di luogo, di nascita, di famiglia o di persona"; dalla promulgazione di quest'articolo, che ha purgato la Svizzera di ogni elemento aristocratico, si data la vera costituzione federale elvetica. In caso di contrasto di interessi, la maggioranza confederata può opporre alla minoranza separatista l'indissolubilità del patto? Il no è stato sostenuto nel 1846 dal Sunderbund, contro la maggioranza elvetica; ed oggi lo sostengono gli Stati del Sud dell'Unione americana contro i federalisti del Nord. Quanto a me, ritengo che rientri nel pieno diritto chiedere la separazione, se si tratta di una questione di sovranità cantonale non prevista nel patto federale. Così non è dimostrato che la maggioranza abbia ricavato il suo diritto contro il Sunderbund dal patto: la prova è che nel 1848 la costituzione federale è stata riformata, proprio in vista dei litigi a cui aveva portato la formazione del Sunderbund. Ma può verificarsi, per delle considerazioni di comodo ed incomodo, che le pretese della minoranza siano incompatibili con i bisogni della maggioranza, che inoltre la scissione comprometta la libertà degli Stati; in questo caso la questione si risolve col diritto di guerra, ciò significa che la parte più considerevole, quella a cui la rovina comporterebbe il più grande danno, deve prevalere sulla più debole. E' ciò che ha luogo in Svizzera e che potrebbe ugualmente praticarsi negli Stati Uniti, se, negli Stati Uniti come in Svizzera, non si trattasse che di un' interpretazione o di una applicazione migliore dei principi del patto, come sarebbe per esempio elevare progressivamente la condizione dei Negri a livello di quella dei Bianchi. Disgraziatamente, il messaggio di M. Lincoln non lascia alcun dubbio a questo proposito. Il Nord, come il Sud, non intende parlare di una vera emancipazione e ciò rende la difficoltà insolubile, anche con la guerra, e minaccia di annientare la confederazione.

Nella monarchia, tutta la giustizia emana dal re; in una confederazione essa emana, per ogni Stato, esclusivamente dai suoi cittadini. L'istituzione di un'alta corte federale sarebbe dunque, in via di principio, una deroga al patto. Sarebbe come una Corte di cassazione, poiché, essendo ogni Stato sovrano e legislatore, le legislazioni non sono uniformi. Tuttavia, siccome esistono degli interessi federali e degli affari federali; siccome possono essere commessi dei delitti e dei crimini contro la confederazione, ci sono, per questi casi particolari, dei tribunali federali ed una giustizia federale.



 
 

CAPITOLO VIII

COSTITUZIONE PROGRESSIVA


 



La storia e la logica, la teoria e la pratica, ci hanno condotti, attraverso i travagli della libertà e del potere, all'idea di un contratto politico.

Applicando subito questa idea e cercando di rendercene conto, abbiamo riconosciuto che il contratto sociale per eccellenza è il contratto di federazione, che abbiamo definito in questi termini: Un contratto sinallagmatico e commutativo, stipulato per uno o più oggetti determinati, ma la cui condizione essenziale è che i contraenti si riservino sempre una parte di sovranità e di azione superiore a quella a cui rinunciano.

Proprio il contrario di quello che avviene negli antichi sistemi, monarchici, democratici e costituzionali, in cui per la forza degli eventi e sotto la spinta dei princìpi, i singoli ed i gruppi sono obbligati a rimettere nella mani di un'autorità imposta o eletta, tutta la loro sovranità, ottenendo meno diritti e conservando meno garanzie e possibilità di iniziativa, di quanto non incomba loro per oneri e doveri.

Questa definizione del contratto di federazione è un passo immenso, che ci darà la soluzione tanto cercata.

Il problema politico, abbiamo detto nel capitolo primo, ricondotto alla sua espressione più semplice, consiste nel trovare l'equilibrio fra i due elementi contrari, l'autorità e la libertà. Ogni falso equilibrio si traduce immediatamente per lo Stato in disordine e rovina, per i cittadini in oppressione e miseria. In altri termini, le anomalie e le perturbazioni dell'ordine sociale sono generate dall'antagonismo dei suoi princìpi; spariranno quando i principi saranno coordinati in modo tale da non potersi più nuocere a vicenda.

Equilibrare queste due forze, vuol dire sottometterle ad una legge che, tenendole a bada l'una per mezzo dell'altra, le metta d'accordo. Chi ci fornirà questo nuovo elemento, superiore all'Autorità ed alla Libertà e che, in virtù del loro mutuo consenso, diventi la dominante del sistema? - Il contratto, il cui contenuto fa legge, e si impone ugualmente alle due forze rivali (a).

Ma, in un organismo concreto e vivo, quale è la società, il diritto non può ridursi ad una nozione puramente astratta, aspirazione indefinita della coscienza, che significherebbe rigettarci nelle finzioni e nei miti. Per fondare la società, non è sufficiente formulare semplicemente un'idea ma un atto giuridico, formare un vero contratto. Gli uomini dell'89 lo avevano intuito, quando si accinsero a dare alla Francia una costituzione, cosi come tutti i governanti che li hanno seguiti. Purtroppo, se le intenzioni erano buone, le menti non furono illuminate a sufficienza; fino a questo momento è mancato il notaio per redigere il contratto. Di esso sappiamo quale deve essere lo spirito: cerchiamo ora di fare la bozza del suo contenuto.

Tutti gli articoli di una costituzione possono essere ricondotti ad un articolo unico, quello che concerne il ruolo e la competenza di quel gran funzionario che è lo Stato. Le nostre assemblee si sono occupate a gara della distinzione e della separazione dei poteri, cioè della possibilità di azione dello Stato; in quanto alla competenza dello Stato stesso, alla sua estensione, al suo contenuto, non si vede che alcuno se ne sia dato molto pensiero. Si è pensato alla spartizione, come diceva ingenuamente un ministro nel 1848; in quanto alla cosa da dividere, è sembrato generalmente che più ce ne fosse stata, più la festa sarebbe stata bella. Eppure la definizione del ruolo dello Stato è una questione di vita o di morte per la libertà collettiva ed individuale.

Solo il contratto di federazione, la cui essenza è quella di riservare sempre di più ai cittadini che allo Stato, alle autorità municipali e provinciali più che all'autorità centrale, poteva metterci sulla via della verità.

In una società libera, il ruolo dello Stato o del governo è per eccellenza un ruolo di legislazione, di istituzione, di creazione, di inaugurazione, di installazione; - cioè è il meno possibile un ruolo di esecuzione. A questo riguardo il nome di potere esecutivo, con cui si indica uno degli aspetti del potere sovrano, ha notevolmente contribuito a confondere le idee. Lo stato non è un imprenditore di servizi pubblici, che equivarrebbe ad assimilarlo agli industriali che prendono in appalto a forfait i lavori pubblici. Lo Stato, sia che legiferi, sia che agisca o sorvegli, è il promotore ed il direttore supremo dell'azione. Se talvolta interviene nell'esecuzione, lo fa a titolo di prima manifestazione, per dare l'impulso e fornire l'esempio. Operata la creazione, fatta l'installazione o l'inaugurazione, lo Stato si ritira, lasciando alle autorità locali ed ai cittadini l'esecuzione della nuova iniziativa.

E' lo Stato che fissa i pesi e le misure, che dà i modelli, il valore e la suddivisione delle monete. Forniti gli originali, terminata la prima emissione, la fabbricazione dei pezzi d'oro, d'argento e di rame cessa di essere una funzione pubblica, un compito dello Stato, una attribuzione ministeriale; è una qualsiasi attività, che niente, all'occorrenza, impedirebbe di lasciare completamente libera, come la fabbricazione di bilance, bascule, barili e bottiglie. Il miglior mercato è qui la sola legge.

Che cosa si esige in Francia, perché la moneta d'oro e d'argento sia ritenuta di buona qualità? Un decimo di lega e nove decimi di metallo fino. Io voglio che ci sia un ispettore per seguire la fabbricazione: ma il ruolo dello Stato non dovrebbe andare oltre.

Ciò che dico per le monete, lo ripeto per una quantità di servizi, abusivamente lasciati nelle mani del governo: strade, canali, tabacchi, poste, telegrafi, ferrovie, ecc. Io comprendo, ammetto, reclamo, in caso di bisogno, l'intervento dello Stato in tutte queste grandi creazioni di pubblica utilità; ma non vedo affatto la necessità di lasciarle nelle sue mani, una volta che siano state consegnate alla comunità. Una simile concentrazione, secondo me, costituisce un vero eccesso di attribuzioni. Ho chiesto, nel 1848, l'intervento dello Stato per l'impianto di Banche nazionali, istituzioni di credito, di previdenza, di assicurazione, come per le ferrovie; mai pensavo che lo Stato, compiuta la sua opera di iniziatore, potesse restare per sempre banchiere, assicuratore, trasportatore, ecc. Certo non credo alla possibilità di provvedere all'istruzione del popolo senza un grande impegno dell'autorità centrale, ma non per questo sono meno sostenitore della libertà di insegnamento, come di ogni altra libertà (b). Voglio che la scuola sia radicalmente separata dallo Stato, come la Chiesa. Che ci siano una Corte dei conti, come un ufficio di statistica, istituiti per raccogliere, verificare e diffondere tutte le informazioni, tutte le transazioni, tutte le operazioni finanziarie, su tutto il territorio della Repubblica, sarebbe l'ora. Ma perché tutte le spese ed entrate dovrebbero passare per le mani di un tesoriere, di un esattore o pagatore unico, ministro di Stato, quando lo Stato, per la natura della sua funzione, dovrebbe interessarsi di pochi o nessun servizio ed avere poca o nessuna spesa (c)?.... E' veramente necessario che i tribunali dipendano da un'autorità centrale? Amministrare la giustizia fu in ogni tempo il più alto attributo del principe, lo so bene; ma questo attributo è un residuo del diritto divino; non potrebbe essere rivendicato da un re costituzionale né a maggior ragione dal capo di un impero basato sul suffragio universale. Dal momento, dunque, che l'idea del diritto, ridiventando umana, come tale torna ad essere preponderante nel sistema politico, l'indipendenza della magistratura ne sarà la conseguenza necessaria. Ripugna che la giustizia sia considerata come un attributo dell'autorità centrale o federale; essa non può essere altro che una delega fatta dai cittadini all'autorità municipale, tutt'al più a quella provinciale. La giustizia è un attributo dell'uomo, che nessuna ragione di Stato può sottrargli. - Neppure il servizio militare deve far ecezione a questa regola: le milizie, i magazzini, le fortificazioni, non devono passare nella mani delle autorità federali che nel caso di guerra; altrimenti i soldati e gli armamenti restano alle dipendenze delle autorità locali (d).

In una società regolarmente organizzata, tutto deve essere in crescita continua: scienza, industria, lavoro, ricchezza, salute pubblica; la libertà e la moralità devono procedere di pari passo. La vita ed il suo divenire non possono arrestarsi un istante. Organo principale di questo processo, lo Stato è sempre in azione, poiché ha senza sosta nuovi bisogni da soddisfare, nuove questioni da risolvere. Se la sua funzione di principale promotore e di supremo direttore è incessante, le sue opere in compenso non si possono ripetere. Esso è la più alta espressione del progresso. Ora, che cosa accade quando, come si verifica quasi sempre e dovunque, lo Stato indugia sui servizi che lui stesso ha creato e cede alla tentazione di accaparrarseli? Da promotore si fa esecutore. Non è più lo spirito della collettività, che la feconda, la dirige e l'arricchisce senza imporle alcun onere: è una grande società anonima, con seicentomila impiegati e con seicentomila soldati, organizzata per fare di tutto e che invece di venire in aiuto della nazione, invece di servire i cittadini ed i comuni, li espropria e li opprime. Presto la corruzione e la malversazione, l'apatia entrano nel sistema, sempre occupato a sostenersi, ad accrescere le sue prerogative, a moltiplicare i suoi servizi e ad ingrossare il suo bilancio; il potere perde di vista il suo vero ruolo, cade nell'autocrazia e nell'immobilismo; il corpo sociale soffre e la nazione, contrariamente alla sua legge storica, comincia a decadere.

Abbiamo fatto notare, al Cap. VI, che nell'evoluzione degli Stati l'Autorità e la Libertà sono in successione logica e cronologica; mentre la prima è in continua diminuzione, la seconda in ascesa; il governo espressione dell'autorità, mediante un lento processo, viene posto in posizione subalterna dai suoi rappresentanti o organi della libertà; vale a dire che il potere centrale cade sotto il controllo dei deputati dei dipartimenti o province, l'autorità provinciale rispetto a quello dei delegati dei comuni e l'autorità municipale rispetto agli abitanti. La libertà così aspira a rendersi preponderante, l'autorità a mettersi al servizio della libertà ed il principio contrattuale a sostituirsi dovunque, negli affari pubblici, al principio autoritario.

Se tutto questo è vero, non vi può essere dubbio sulla conseguenza: cioè, secondo la natura delle cose ed il gioco dei due princìpi, l'Autorità deve ritirarsi, la Libertà avanzare rispetto ad essa, ma in modo che le due si susseguano senza mai scontrarsi; la costituzione della società è essenzialmente progressiva, cioè sempre più liberale, e ciò non può verificarsi se non in un sistema in cui la gerarchia di governo, invece di essere posta sul suo vertice, sia stabilita solidamente sulla sua base, vale a dire in un sistema federale.

In questo consiste tutta la scienza costituzionale; la riassumo in tre proposte:

1° formare dei gruppi di media dimensione, rispettivamente sovrani ed unirli con patto di federazione;

2° organizzare in ogni Stato federato il governo secondo il principio di separazione degli organi; - voglio dire: separare nel potere tutto ciò che può essere separato; definire tutto ciò che potrà essere definito; distribuire fra organi o funzionari diversi tutto ciò che sarà stato separato e definito; non lasciare nulla di indiviso; dotare la pubblica amministrazione di tutte le condizioni di pubblicizzazione e di controllo;

3° Invece di assorbire gli Stati federati o le autorità provinciali e municipali in un'unica autorità centrale, ridurre le attribuzioni di questa ad un semplice ruolo di iniziativa generale, di mutua garanzia e sorveglianza, in cui i decreti non siano eseguiti che con il visto dei governi federati e per mezzo di funzionari ai loro ordini, così come nella monarchia costituzionale, dove ogni decreto emanato dal re, per essere eseguito, deve essere controfirmato da un ministro.

Sicuramente la separazione dei poteri, come fu praticata sotto la Carta del 1830, è una bella istituzione e di alta portata, ma è puerile averla limitata ai soli membri di un gabinetto. Il governo di un Paese, non deve essere diviso solo fra sette o otto eletti usciti da una maggioranza parlamentare e criticati da una minoranza di opposizione, ma anche fra le province ed i comuni; senza di ciò la vita politica, trascura la periferia per il centro, ed il marasma invade la nazione, divenuta idrocefala.

Il sistema federale è applicabile a tutte le nazioni ed in tutte le epoche, poiché l'umanità è progressiva in ogni sua generazione ed in tutte le sue razze, e la politica di federazione, che è la politica del progresso per eccellenza, consiste nel governare ogni popolazione, al momento opportuno, secondo un regime di autorità e di centralizzazione decrescenti, corrispondente alla sua mentalità ed ai suoi costumi.
 
 

Note:

(a) Vi sono tre modi di concepire la legge, a seconda del punto di vista in cui si pone l'essere morale e la qualità che assume, come credente, come filosofo o come cittadino.

La legge è il comandamento intimato all'uomo in nome di Dio da un'autorità competente: è la definizione della teologia e del diritto divino.

La legge è l'espressione del rapporto delle cose; è la definizione del filosofo, data da Montesquieu.

La legge è lo statuto arbitrale della volontà umana ( Della giustizia nella Rivoluzione e nella Chiesa, vol. 8°); è la teoria del contratto e della federazione.

Essendo una la verità, benché di aspetto variabile, queste tre definizioni rientrano l'una nell'altra, e devono essere guardate in fondo come identiche. Ma i sistemi sociali che generano non sono gli stessi; per la prima, l'uomo si dichiara suddito della legge e del suo autore o rappresentante; per la seconda, si riconosce come parte integrante di un vasto organismo; per la terza, fa sua la legge e si libera da ogni autorità, fatalità e dominazione. La prima formula è propria dell'uomo religioso; la seconda del panteista, la terza del repubblicano. Soltanto quest'ultima è compatibile con la libertà.

(b) Secondo la costituzione federale svizzera del 1848, la Confederazione ha il diritto di creare un' Università svizzera. Questa idea fu energicamente combattuta come un attentato alla sovranità dei cantoni e a ragione, secondo me. Ignoro se si sia dato corso al progetto.

(c) In Svizzera esiste un bilancio federale, amministrato dal Consiglio federale, ma che concerne solo le questioni della confederazione e non ha nulla in comune con il bilancio dei cantoni e delle città.

(d) Costituzione federale svizzera, art. 13: - " La Confederazione non ha il diritto di mantenere eserciti permanenti". Ai nostri repubblicani unitari do a meditare questo articolo
 
 




CAPITOLO IX

RITARDO DELLE FEDERAZIONI:

CAUSE DEL LORO RINVIO


 




L'idea di federazione, sembra così antica nella storia quanto quella della Monarchia e della Democrazia, antica come l'idea stessa di autorità e di libertà. Come potrebbe essere altrimenti? Tutto ciò che fa emergere successivamente nella società la legge del progresso ha le sue radici nella natura stessa. La civiltà cammina condizionata dai suoi princìpi, preceduta e seguita dal corteo delle sue idee, che le fanno costantemente la ronda. Fondata sul contratto, espressione solenne della libertà, la federazione non poteva mancare all'appello. Più di dodici secoli prima di Gesù Cristo, essa appare nelle tribù ebraiche, separate le une dalle altre nelle loro vallate, ma unite, come le ismaelite, da una specie di patto fondato sulla consanguineità. Quasi contemporaneamente essa si manifesta nell'Anfizonia greca, incapace, è vero, a soffocare le discordie ed a prevenire la conquista o l'assorbimento nel principio unitario, il che è la stessa cosa ma è testimonianza vivente del futuro diritto delle genti e della libertà universale. Non abbiamo dimenticato le leghe gloriose dei popoli slavi e germanici, perpetuate fino ai nostri giorni nelle costituzioni federali della Svizzera, della Germania, e perfino nell'impero d'Austria, formate da tante nazioni eterogenee, ma nonostante tutto inseparabili. E' questo contratto federale che, costituendosi poco a poco come governo regolare, dovrà mettere fine dovunque alle contraddizioni dell'empirismo, eliminarne l'arbitrario e fondare su un equilibrio indistruttibile la giustizia e la pace.

Per lunghi secoli, l'idea di federazione sembra offuscata e tenuta di riserva: la causa di questo ritardo è da spiegarsi con l'incapacità originaria delle nazioni e con la necessità di formarle per mezzo di una rigida disciplina. Tale, dunque, è il ruolo che, per mezzo di una sorta di superiore determinazione, sembra sia stato assegnato al sistema unitario.

Era necessario allora domare, dare stabilità alle moltitudini erranti, indisciplinate e rozze; raggruppare le città isolate ed ostili: fondare poco a poco, d'autorità, un diritto comune, imporre, sotto forma di decreti categorici, le leggi generali dell'umanità. Non si potrebbe attribuire altro significato a queste grandi creazioni politiche, dell'antichità, alle quali fecero seguito a mano a mano gli imperi dei Greci, dei Romani e dei Franchi, la Chiesa cristiana, la rivolta di Lutero e, finalmente, la rivoluzione francese.

La federazione non avrebbe potuto adempiere a questa missione educatrice, anzitutto perché essa è la Libertà; poi perché esclude l'idea di costrizione e riposa sulla nozione di contratto sinallagmatico, commutativo e limitato. Il suo scopo inoltre è quello di garantire la sovranità e l'autonomia ai popoli che essa unisce, gli stessi che inizialmente si trattava di tenere sotto il giogo, nell'attesa che fossero capaci di governarsi da sé per mezzo della ragione. In una parola, poichè la civiltà è per sua natura progressiva, un governo federale che si fosse instaurato fin dagli inizi avrebbe implicato una contraddizione.

Un'altra ragione di esclusione provvisoria per il principio federativo è nella debole capacità d'espansione degli Stati raggruppati sotto costituzioni federali.

Limiti naturali degli Stati federali. Abbiamo detto al Cap.II, che la monarchia, per se stessa ed in virtù del suo principio, non conosce limiti al suo sviluppo e che la stessa cosa è per la democrazia. Questa facoltà di espansione è passata dai governi semplici, o a priori, ai governi misti o di fatto, democrazie e aristocrazie, imperi democratici e monarchie costituzionali; tutti, sotto questo aspetto, hanno fedelmente obbedito al loro ideale. Da lì sono sorte tutte le fantasie messianiche e tutti i tentativi di monarchia o di repubblica universale.

In questi sistemi la tendenza all'inglobamento non ha mai fine; in essi si può dire che l'idea di frontiera naturale è una finzione, o per meglio dire un inganno politico; i fiumi, le montagne ed i mari sono considerati non più come dei limiti territoriali, ma come degli ostacoli su cui la libertà del sovrano e della nazione può trionfare. E' la logica del principio che vuole così: la facoltà di possedere, di accumulare, di comandare e di sfruttare è infinita, per confini non ha che l'universo. L'esempio più famoso di questo accaparramento di territori e popolazioni senza che si tenessero in considerazione i fiumi, le montagne, le foreste, i mari ed i deserti, è stata quella dell'Impero Romano, che aveva il suo centro e la sua capitale in una penisola, in seno ad un vasto mare, e le sue province tutt'intorno non abbastanza lontane da non essere raggiungibili dagli eserciti e dagli esattori delle imposte.

Ogni Stato è per sua natura annessionista. Niente arresta la sua marcia di invasione, se non lo scontro con un altro Stato, invasore come lui e capace di difendersi. I predicatori più accesi del nazionalismo non si curano, all'occasione, di contraddirsi, se mossi dall'interesse, per la sicurezza del loro paese: chi, nella democrazia francese, avrebbe osato protestare contro l'annessione della Savoia o di Nizza? Non è, allo stesso modo, raro vedere le annessioni favorite dagli stessi annessi, barattare la loro indipendenza e la loro autonomia.

Ciò non avviene nel sistema federativo. Molto idonea a difendersi se è attaccata (gli Svizzeri lo hanno fatto vedere più di una volta), una confederazione si dimostra molto debole quando si tratta di conquistare. Eccettuato il caso, molto raro, in cui uno Stato vicino chieda di entrare nel patto, si può dire che, per la sua stessa sopravvivenza, essa si preclude qualsiasi possibilità di ampliamento, in virtù del principio che, limitando l'oggetto del patto di federazione alla difesa comune ed a qualche obbiettivo di comune utilità, GARANTISCE ad ogni Stato il suo territorio, la sua sovranità, la sua costituzione, la libertà dei suoi cittadini ed in più gli riserva una quantità di autorità, di iniziativa e di potenza maggiore di quanta ne abbandoni. La confederazione, dunque, si limita da sé tanto più rigorosamente quanto più le comunità ammesse nell'alleanza sono distanti l'una dall'altra; in tal modo si arriva presto ad un punto in cui il patto si trova senza scopo. Supponiamo che uno degli Stati confederati formuli il progetto di una conquista particolare, che desideri annettersi una città vicina, una provincia confinante col suo territorio; che voglia immischiarsi degli affari di un altro Stato. Non soltanto non potrà contare sull'appoggio della confederazione, che gli risponderà che il patto è stato fatto esclusivamente allo scopo di reciproca difesa e non per l'espansione di un singolo; ma si vedrà anche ostacolato nella sua impresa dalla solidarietà federale, che non consente che tutti si espongano alla guerra per l'ambizione di uno solo. In tal modo una confederazione è garanzia allo stesso tempo per i propri membri e per i suoi vicini non confederati.

Così, al contrario di quanto accade negli altri governi, l'idea di una confederazione universale è contraddittoria. In questo si manifesta una volta di più la superiorità morale del sistema federativo sul sistema unitario, esposto a tutti gli inconvenienti ed a tutti i vizi dell'indefinito, dell'illimitato, dell'assoluto, dell'ideale. L'Europa sarebbe ancora troppo grande per una confederazione unica: non potrebbe che formare una confederazione di confederazioni. E' stato dopo questo concetto, che indicavo nella mia ultima pubblicazione come primo passo da fare nella riforma del diritto pubblico europeo, il ristabilimento delle confederazioni italiana, greca, batava, scandinava e danubiana, come preludio alla decentralizzazione dei grandi Stati, ed in seguito al disarmo generale. Allora ogni nazionalità tornerebbe alla libertà; si realizzerebbe l'idea di un equilibrio europeo auspicato da tutti i pubblicisti ed uomini di Stato, ma impossibile da realizzare con le grandi potenze rette da costituzioni unitarie (a).

Così, condannata ad una esistenza pacifica e modesta, avendo sulla scena politica il ruolo più trascurato, non sorprende che l'idea di Federazione sia rimasta fino ai nostri giorni come offuscata davanti allo splendore dei grandi Stati. Ancora oggi pregiudizi ed abusi di ogni genere pullulano ed infieriscono negli stati federativi con la stessa intensità che nelle monarchie feudali o unitarie, pregiudizio di nobiltà, privilegio di borghesia, autorità della Chiesa, con la conseguente oppressione del popolo e servitù dello spirito; la Libertà resta come imprigionata in una camicia di forza e la civiltà impantanata in un invincibile statu quo. L'idea federalista vive inosservata, incompresa, impenetrabile, ora per una sacra tradizione come in Germania, dove la Confederazione, sinonimo d'Impero, era una coalizione di prìncipi assoluti, gli uni laici, gli altri ecclesiastici, sotto la sanzione della Chiesa di Roma; oppure per la forza delle cose, come in Svizzera, dove la confederazione era composta da alcune vallate separate le une dalle altre e protette contro lo straniero da catene montuose invalicabili, la cui conquista non sarebbe stata possibile a meno che non si ripetesse l'impresa di Annibale. Come vegetazione politica inaridita nella crescita, dove il pensiero del filosofo non aveva niente da cogliere né l'uomo di Stato un principio a cui ispirarsi, dalla quale le masse non avevano niente da sperare e lontana dall'offrire il minimo aiuto alla Rivoluzione, da questa s'aspettava il cambiamento e la vita.

E' del resto un fatto acquisito dalla storia che la Rivoluzione francese ha influito su tutte le costituzioni federali esistenti, le ha emendate, ispirate col suo soffio, ha fornito loro ciò che hanno di migliore, in una parola, le ha messe in condizione di evolversi, senza aver ricevuto niente in cambio fino ad oggi.

Gli Americani erano ormai stati sconfitti in venti scontri, e la loro causa sembrava ormai persa, quando l'arrivo dei Francesi fece cambiare la situazione, ed obbligò il generale inglese Cornwallis a capitolare, il 19 ottobre 1781. Fu in seguito a questo evento che l'Inghilterra acconsentì a riconoscere l'indipendenza delle colonie, che poterono allora occuparsi della loro costituzione. Ebbene! Quali erano allora le idee, in materia politica, degli Americani? Quali furono i princìpi del loro governo? Un vero guazzabuglio di privilegi; un monumento di intolleranza, di esclusione e di arbitrio, in cui brillava, come un astro sinistro, lo spirito di aristocrazia , di regolamentazione, di setta e di casta; cosa che suscitò la riprovazione dei pubblicisti francesi ed attirò da parte loro sugli americani le osservazioni più umilianti. Quel poco di vero liberalismo che penetrò in America in quel periodo fu, si può ben dire, opera della Rivoluzione francese, che sembrava preludere, in quella terra lontana, al rinnovamento del vecchio mondo. La libertà in America è stata fino ad oggi piuttosto un effetto dell'individualismo anglo-sassone, lanciato in immense solitudini, che quello delle sue istituzioni e dei suoi costumi. La guerra attuale lo dimostra anche troppo (b).

E' ancora la Rivoluzione che ha sradicato la Svizzera dai suoi vecchi pregiudizi d'aristocrazia e di borghesia e rielaborato la sua confederazione. Nel 1801, la costituzione della Repubblica elvetica fu rimaneggiata una prima volta; l'anno seguente, la mediazione del Primo Console mise fine ad ogni discordia. Avrebbe messo fine alla sua indipendenza, se la riunione della Svizzera all'Impero fosse stata nelle mire di Napoleone. Ma disse loro: Io non voglio saperne di voi. Dal 1814 al 1848, la Svizzera non ha cessato di essere travagliata dai suoi elementi reazionari, tanto l'idea federativa era stata confusa con l'idea di aristocrazia e di privilegio. Solo nel 1848, nella costituzione del 12 settembre, furono finalmente e chiaramente posti i veri princìpi del sistema federativo. Ma ancora questi princìpi furono così poco compresi, che si manifestò presto una tendenza unitaria, che ebbe i suoi rappresentanti anche in seno all'assemblea federale.

In quanto alla Confederazione germanica, tutti sanno che la vecchia struttura fu abolita con la mediazione di Napoleone, che non fu però altrettanto felice nel piano di restaurazione. In questo momento il sistema della confederazione germanica è di nuovo allo studio nel pensiero dei suoi popoli; possa finalmente la Germania uscire infine libera e forte da questo fermento, come da una crisi salutare!

Nel 1789 l'esperimento del federalismo non era dunque ancora stato fatto; l'idea non era per nulla acquisita. Il legislatore rivoluzionario non aveva alcuna conclusione da trarre. Bisognava che quelle confederazioni, tali e quali, che palpitavano in qualche angolo dell'antico e del nuovo mondo, animate dallo spirito del nuovo, imparassero anzitutto a funzionare ed a definirsi, che il loro principio fecondato, sviluppandosi, mostrasse la ricchezza del suo organismo; bisognava allo stesso tempo che, sotto il nuovo regime d'uguaglianza, si facesse un ultimo esperimento del sistema unitario. Solo a queste condizioni la Filosofia poteva avere elementi di giudizio, la Rivoluzione trarre le sue conclusioni, e, generalizzando l'idea, la Repubblica dei popoli uscire alla fine dal suo misticismo nella forma concreta di una federazione di federazioni.

I fatti sembrano oggi dare ali alle idee; e noi possiamo forse, senza presunzione né orgoglio, da un lato sradicare le masse dai loro idoli funesti, dall'altro svelare agli uomini politici il segreto delle loro delusioni.

Note:

(a) Si è molto parlato, fra i democratici di Francia, di una confederazione europea, in altri termini degli Stati Uniti d'Europa. Con questa designazione non sembra si sia mai intesa cosa diversa che un'alleanza di tutti gli Stati, grandi e piccoli, attualmente esistenti in Europa, sotto la presidenza permanente di un congresso. E' sottinteso che ogni Stato conserverebbe la forma di governo che gli converrebbe di più. Ora, disponendo ogni Stato nel Congresso di un numero di voti proporzionali alla sua popolazione ed al suo territorio, i piccoli Stati si troverebbero presto, in questa pretesa confederazione, infeudati ai grandi; inoltre, se fosse possibile che questa nuova santa alleanza potesse essere animata da un principio di evoluzione collettiva, la si vedrebbe prontamente degenerare, dopo un conflitto interno, in una potenza unica, o grande monarchia europea. Una simile federazione non sarebbe dunque che un inganno o non avrebbe alcun senso.

(b) I principi della Costituzione americana, secondo l'opinione degli uomini perspicaci, annunciano una decadenza prematura. Turgot, amico zelante della causa degli americani, si lamentava:

" 1.- Di ciò che gli usi degli Inglesi erano imitati senza fine di utilità;

" 2.- Che il clero, essendo escluso dal diritto di eleggibilità, era divenuto un corpo estraneo nello Stato, sebbene non potesse in questo caso costituire una dannosa eccezione,

" 3.- Che la Pennsylvania esigeva un giuramento religioso dai membri del Corpo legislativo;

" 4.- Che il Jersey esigeva la fede nella divinità di Gesù Cristo;

" 5.- Che il puritanesimo della Nuova Inghilterra era intollerante e che i quaccheri della Pennsylvania consideravano la professione delle armi come illegale.

" 6.- Che nelle colonie meridionali c'era una grande ineguaglianza di fortune, e che i Negri, sebbene liberi, formavano con i Bianchi due corpi distinti nello stesso Stato;

" 7.- Che lo stato della società nel Connecticut era una condizione a metà fra le nazioni selvagge e civilizzate, e che nel Massachusetts e New Jersey il più piccolo intrigo escludeva i candidati dal numero dei rappresentanti;

" 8.- Che parecchi inconvenienti risultavano dall'emancipazione dei negri,

" 9.- Che nessun titolo di nobiltà doveva essere conferito;

" 10.- Che il diritto di primogenitura doveva essere abolito e la libertà di commercio stabilita;

" 11.- Che l'estensione della giurisdizione doveva essere calcolata a seconda della distanza dal luogo di residenza;

" 12.- Che non si era stabilita una distinzione sufficiente fra i proprietari terrieri e quelli che non lo erano;

" 13.- Che il diritto di regolare il commercio era attribuito alla costituzione di tutti gli Stati, ed ugualmente il diritto di divieto;

" 14.- Che non c'era alcun principio adottato per l'imposta, e che conseguentemente ogni Stato aveva il diritto di creare le tasse a fantasia;

" 15.- Che l'America poteva fare a meno del legame con l'Europa, e che un popolo saggio non doveva farsi sfuggire dalle mani i suoi mezzi di difesa.

"Il celebre Mirabeau trovò nella società di Cincinnato, composta da ufficiali dell'armata della Rivoluzione, il principio delle distinzioni ereditarie. Altre obbiezioni furono fatte da Price, Mably ed altri scrittori stranieri. I legislatori americani hanno saputo approfittarne, modificando qualche accessorio, ma conservando tutti i materiali dell'edificio repubblicano che, invece di degradarsi come si era profetizzato, è migliorato col tempo e promette una lunga durata". ( Descrizione degli Stati Uniti, di Warden, tradotto dall'inglese. Parigi 1820; vol.5, pag. 255).

Allo stesso modo il passaggio seguente dello stesso scrittore non è meno rivelatore: "Jefferson e quelli che agirono in concerto con lui erano persuasi che i tentativi fatti per il benessere del genere umano, senza riguardo alle opinioni ed ai pregiudizi, ottenessero raramente un risultato felice, e che i miglioramenti più tangibili non dovessero essere introdotti con la forza nella società. Non si propose dunque alcuna altra nuova misura, senza che l'opinione pubblica fosse abbastanza matura per accoglierla".

Questa politica di Jefferson e dei suoi amici è degna sicuramente di tutti i nostri elogi. E' la gloria dell'uomo e del cittadino, che deve fare sua la verità e la giustizia, prima di sottomettersi alle loro leggi. - "Noi siamo tutti re", diceva il cittadino di Atene. E la Bibbia non ci ha detto che noi eravamo degli Dei? Come re e come dei, noi non dobbiamo obbedienza che a noi stessi. Ciò non di meno secondo la pubblica opinione di Jefferson, sotto la sua presidenza (1801 al 1805), il popolo americano era forse il meno liberale che ci fosse al mondo, e che, senza questa libertà negativa che dà la rarefazione della popolazione su un territorio di una fecondità inaudita, meglio sarebbe valso vivere sotto il dispotismo di Luigi XV o di Napoleone che nella repubblica degli Stati Uniti.



 
 



CAPITOLO X

IDEALISMO POLITICO:

EFFICACIA DELLA GARANZIA FEDERALE


 




Un'osservazione da fare, in generale, sulle scienze morali e politiche, è che la difficoltà dei loro problemi deriva soprattutto dal modo figurato in cui li ha rappresentati la ragione di coloro che per primi ne hanno concepiti gli elementi. Nell'immaginazione popolare la politica, come la morale, è una mitologia. In essa tutto diviene finzione, simbolo, mistero, idolo. Ed è questa idealizzazione che, adottata fiduciosamente dai filosofi come espressione della realtà, in seguito crea loro tanti imbarazzi.

Il popolo, nell'incertezza del suo pensiero, si osserva come una gigantesca e misteriosa esistenza e tutto, nel suo linguaggio sembra fatto per confermargli la convinzione della sua indivisibile unità. Si indica come il Popolo, la Nazione, cioè la Moltitudine, la Massa; è il vero Sovrano, il Legislatore, la Potenza, il Dominio, la Patria, lo Stato; ha le sue Assemblee, i suoi Scrutini, le sue Assise, le sue Manifestazioni, i suoi Pronunciamenti, i suoi Plebisciti, la sua Legislazione diretta, talvolta i suoi Giudici e le sue Esecuzioni, i suoi Oracoli, la sua Voce tuonante, la grande voce di Dio. Tanto più si sente numeroso, irresistibile, immenso, tanto più ha orrore delle divisioni, delle scissioni, delle minoranze. Il suo ideale, il suo sogno più affascinante, è l'unità, l'identità, l'uniformità, la concentrazione; maledice, come un attentato alla sua Maestà, tutto ciò che può dividere la sua volontà, smembrare la sua massa, creare in lui diversità, pluralità, divergenza.

Ogni mitologia presuppone degli idoli ed al Popolo non mancano mai. Come Israele nel deserto, esso si improvvisa degli dei, quando non si ha cura di dargliene; ha le sue incarnazioni, i suoi Messia, i suoi Profeti. E' un capo guerriero elevato sugli scudi; è il re glorioso, conquistatore e magnifico, somigliante al sole, o ancora un tribuno rivoluzionario: Clodoveo, Carlomagno, Luigi XIV, La Fayette, Mirabeau, Danton, Marat, Robespierre, Napoleon, Vittorio Emanuele, Garibaldi. Quanti, pur di salire su un piedistallo, non aspettano che un cambiamento d'opinione o un colpo d'ala della fortuna! Il popolo è entusiasta e geloso della maggior parte di questi idoli, vuoti di idee come privi di coscienza quanto lui stesso; non tollera che siano messi in discussione, né che li si contraddica; soprattutto non nega loro il potere. Non toccate i suoi unti, o sarete trattati da lui come sacrilego.

Pieno dei suoi miti e considerandosi come una collettività essenzialmente indivisa, come saprebbe il popolo concepire improvvisamente il rapporto fra il cittadino e la società? In che modo, sotto la sua ispirazione, gli uomini di Stato che lo rappresentano gli darebbero la vera formula di governo? Laddove regna, nella sua ingenuità, il suffragio universale, si può tranquillamente affermare che tutto si svolgerà nel senso dell'indivisione. Poiché il popolo è la collettività che racchiude in sé tutta l'autorità e tutto il diritto, il suffragio universale, per essere espressione sincera del suo significato, dovrà per quanto possibile essere lui stesso indiviso, cioè le elezioni dovranno essere fatte per scrutinio di lista: tant'è che vi sono stati nel 1848 degli unitari che chiedevano una sola lista per ottantasei dipartimenti. Da questo scrutinio indiviso nasce dunque un'assemblea indivisa, che delibererà e legifererà come un solo uomo. In caso di disparità di pareri, è la maggioranza a rappresentare, senza sentirsi limitata, l'unità nazionale. Da questa maggioranza uscirà a sua volta un governo indiviso che, derivando i suoi poteri dalla nazione indivisibile, è chiamato a governare e ad amministrare collettivamente ed unitariamente, senza spirito di localismo né forme di campanilismo. E' così che il sistema di centralizzazione, di imperialismo, di comunismo, di assolutismo - tutti questi termini sono sinonimi - scaturisce dall'idealismo popolare; è così che nel patto sociale, concepito alla maniera di Rousseau e dei giacobini, il cittadino si dimette dalla sua sovranità ed il comune, e sopra al comune il dipartimento e la provincia, assorbiti nell'autorità centrale, non sono altro che agenzie sotto la direzione immediata del ministero.

Le conseguenze non tardano a farsi sentire: il cittadino ed il comune sono privati di tutta la loro dignità, le interferenze dello Stato si moltiplicano e gli oneri del contribuente crescono in proporzione. Non è più il governo che è fatto per il popolo, è il popolo che è fatto per il governo. Il Potere invade tutto, si occupa di tutto, si arroga tutto, in perpetuo, per l'eternità, per sempre: Guerra e Marina, Amministrazione, Giustizia, Polizia, Istruzione pubblica, Opere e restauri pubblici; Banche, Borse, Credito, Assicurazioni, Ospedali, Risparmio, Beneficenza; Foreste, Canali, Fiumi; Culti, Finanze, Dogane, Commercio, Agricoltura, Industria, Trasporti. Su tutto grava un'imposta formidabile, che toglie alla nazione un quarto del suo prodotto lordo. Il cittadino non deve più occuparsi che di svolgere nel suo piccolo angolo il suo piccolo compito, ricevendo il suo piccolo salario, mantenendo la sua piccola famiglia e rimettendosi per tutto il resto alla Provvidenza del governo.

Davanti a questa disposizione degli animi, nel mezzo a forze ostili alla rivoluzione, quale poteva essere il pensiero dei fondatori dell'89, amici sinceri della libertà? Non osando distruggere l'unità dello Stato, dovevano preoccuparsi soprattutto di due cose: 1° - di contenere il Potere, sempre pronto ad usurpare; 2° - di contenere il popolo, sempre pronto a farsi trascinare dai suoi tribuni ed a sostituire le tradizioni della legalità con quelle dell'onnipotenza.

Fino ad oggi infatti, gli autori delle costituzioni, Sieyés Mirabeu, il Senato del 1814, la Camera del 1830, l'Assemblea del 1848, hanno creduto non senza ragione, che il punto cruciale del sistema politico, fosse quello di contenere il potere centrale, lasciandogli tuttavia la più grande libertà di azione e la più grande forza.

Per ottenere questo scopo, che cosa si fece? Anzitutto si divise, come è stato detto, il Potere per categorie di ministeri; poi si distribuì l'autorità legislativa fra la monarchia e le Camere, alla cui maggioranza si subordinava ancora la scelta che il principe doveva fare dei ministri. Infine si votava l'imposta, per un anno, da parte delle Camere, che coglievano questa occasione per revisionare tutti gli atti del governo.

Ma mentre si organizzava il sistema parlamentare delle Camere contro il potere dei ministri e si bilanciava la prerogativa reale, concedendo iniziativa ai suoi rappresentanti, e l'autorità della corona con la sovranità della nazione; mentre si opponevano parole a parole, finzioni a finzioni, si attribuiva al governo senza riserva alcuna, senza altro contrappeso che una vana facoltà di critica, la prerogativa di una immensa amministrazione; si mettevano nelle sue mani tutte le forze del paese; si sopprimevano, per maggior sicurezza, le libertà locali; si annientava con uno zelo frenetico lo spirito campanilistico; si creava infine una potenza formidabile, schiacciante, alla quale poi ci si compiaceva di fare una guerra di furbizie, come se la realtà potesse essere sensibile alle personalità. Dove si arrivava con ciò? L'opposizione finiva per avere ragione delle persone: i ministeri cadevano gli uni dopo gli altri; si rovesciava una dinastia, poi una seconda; si sostituiva un impero alla repubblica, ed il dispotismo accentratore, anonimo, non cessava di ingrandirsi, la libertà di diminuire. Tale è stato il nostro progresso dopo la vittoria dei Giacobini sui Girondini: il risultato inevitabile di un sistema artificioso, dove si metteva da un lato la sovranità metafisica ed il diritto alla critica, dall'altro tutte le realtà della nazione e tutte le potenzialità di un grande popolo.

Nel sistema federativo simili pericoli non esisterebbero. L'autorità centrale, promotrice piuttosto che esecutrice, non dispone che di una parte assai limitata dell'amministrazione pubblica, quella che concerne i soli servizi federali; essa è posta sotto il controllo degli Stati, padroni assoluti di se stessi, che godono, per tutto ciò che li concerne rispettivamente, della più completa autorità legislativa, esecutiva e giudiziaria. Il Potere centrale è tanto meglio subordinato, in quanto è affidato ad una Assemblea formata dai delegati degli Stati, membri essi stessi, soventemente, dei loro rispettivi governi e che, per questa ragione, esercitano sugli Atti dell'Assemblea federale una sorveglianza tanto più curata e severa.

Per contenere le masse, i pubblicisti incontrano notevole imbarazzo; i metodi da loro impiegati sono del tutto illusori ed il risultato è altrettanto infelice.

Il popolo è uno dei poteri dello Stato, le cui esplosioni sono le più terribili. Questo potere ha bisogno di un contrappeso; la stessa democrazia è obbligata a convenirne, poiché è l'assenza di questo contro potere che, liberando il popolo dalle eccitazioni più pericolose, esponendo lo Stato alle più formidabili insurrezioni, ha per due volte fatto cadere la repubblica in Francia.

Si è creduto di trovare il contrappeso all'azione delle masse, in due istituzioni; l'una fortemente onerosa per il Paese e piena di pericoli; l'altra non meno dannosa e soprattutto sgradita alla coscienza pubblica; esse sono: 1° l'esercito permanente, 2° la restrizione del diritto di suffragio. Dal 1848 il suffragio universale è divenuto legge dello Stato; ma il pericolo dell'agitazione popolare, che si è ingrandito in proporzione, ha reso necessario potenziare l'esercito e dare più vigore all'azione militare. Così, per garantirsi dall'insurrezione popolare si è obbligati, nel sistema dei fondatori dell'89, ad aumentare la forza del Potere al momento stesso in cui dall'altra parte si prendono delle precauzioni contro di esso. Sicché il giorno in cui il Potere ed il popolo si tenderanno la mano, tutta questa impalcatura crollerà. Strano sistema, in cui il popolo non può esercitare la sovranità senza correre il pericolo di far cadere il governo, né il governo usare la sua prerogativa senza marciare verso l'assolutismo!

Il sistema federativo invece taglia corto all'effervescenza della masse, a tutte le ambizioni ed alle eccitazioni della demagogia; è la fine del regime della piazza pubblica, dei trionfi, dei tribuni, come dell'assorbimento delle capitali. A che serve che Parigi faccia, nella cinta delle sue mura, le rivoluzioni, se Lione, Marsiglia, Tolosa, Bordeaux, Nantes, Rouen, Lilla, Strasburgo, Digione ecc., se i dipartimenti padroni di se stessi non la seguono? Parigi stessa ne farà le spese..... La federazione diventa così la salvezza del popolo: poiché, dividendolo, essa lo salva e lo preserva dalla tirannia dei suoi capi e dalla sua propria follia.

La costituzione del 1848, togliendo da una parte al Presidente della repubblica il comando dell'esercito, dall'altra dichiarandosi essa stessa riformabile e progressiva, aveva tentato di scongiurare questo doppio pericolo dell'usurpazione del potere e dell'insurrezione popolare. Ma la costituzione del 48 non diceva in cosa consistesse il progresso, a quali condizioni potesse realizzarsi. Nel sistema che essa aveva fondato, la distinzione delle classi, borghesia e popolo, sussisteva sempre: lo si era visto al momento della discussione sul diritto al lavoro e della legge del 31 maggio, restrittiva del suffragio universale. Il pregiudizio unitario era vivo come non mai; Parigi dava il tono, l'idea, la volontà ai dipartimenti, era facile capire che, in caso di conflitto fra il Presidente e l'Assemblea, il popolo avrebbe seguito il suo eletto piuttosto che i suoi rappresentanti. L'avvenimento ha confermato queste previsioni. La giornata del due Dicembre ha dimostrato quanto valgono le garanzie puramente legali, contro un Potere che ha il favore popolare unito alla potenza dell'amministrazione, ed ha anche una sua parte di diritto. Ma se, per esempio, contemporaneamente alla costituzione repubblicana del 1848, fosse stata prevista e messa in vigore l'organizzazione municipale e dipartimentale; se le province avessero preso a vivere di vita propria; se esse avessero avuto la loro fetta di potere esecutivo, se la moltitudine inerte del 2 dicembre avesse avuto nello Stato qualcosa di più del semplice scrutinio dei voti, certamente il colpo di Stato sarebbe stato impossibile. Poiché il campo di battaglia si trovava limitato fra Eliseo e palazzo Borbone, l'alzata di scudi del potere esecutivo si sarebbe trascinata dietro di sé tutt'al più la guarnigione di Parigi, ed il personale dei ministeri (a).

Non voglio terminare questo paragrafo, senza aver citato le parole di uno scrittore di cui il pubblico ha potuto apprezzare qualche volta, nel Corriere della domenica, il senso di moderazione e la profondità, M. Gustavo Chaudey, avvocato della Corte di Parigi. Esse serviranno a far comprendere che la federazione non è per niente una vana utopia, ma un sistema attualmente in pratica e la cui vivida idea si sviluppa quotidianamente:

L'ideale di una confederazione sarebbe il patto di alleanza di cui si potesse dire che apporta alle sovranità particolari degli Stati federati solo delle restrizioni che diventeranno, nelle mani dell'autorità federale, delle estensioni di garanzia per la libertà dei cittadini, ed in una accresciuta protezione della loro attività individuale e collettiva.

Con ciò, già si capisce l'enorme differenza che esiste tra un'autorità federale e un governo unitario, cioè un governo che rappresenta un'unica sovranità.

La definizione di M. Chaudey è la più perfetta e ciò che egli chiama ideale, non è altro che la formula imposta dalla logica più rigorosa. Nella federazione, la centralizzazione è limitata a certi oggetti speciali sottratti alla sovranità cantonale e che si presume debbano poi ritornarvici, per cui essa è parziale; nel governo unitario, al contrario, la centralizzazione si estende a tutto e non restituisce mai niente, è UNIVERSALE. La conseguenza è facile da prevedere:

La centralizzazione, prosegue M. Chaudey, nel governo unitario, è una forza immensa a disposizione del potere, il cui impiego, in un senso o nell'altro, dipende unicamente dalle diverse volontà personali che lo esprimono. Cambiate le condizioni di questo potere e cambierete le condizioni della centralizzazione. Liberale oggi, con un governo liberale, diverrà domani un formidabile strumento di usurpazione in mano ad un potere usurpatore; e dopo l'usurpazione, uno strumento formidabile di dispotismo; senza contare che, per questa stessa ragione, essa è una tentazione perpetua per il potere, una minaccia continua per la libertà dei cittadini. Sotto l'urto di una simile forza, non vi è più alcun diritto individuale e collettivo che può essere sicuro del domani. In queste condizioni, la centralizzazione potrebbe chiamarsi il disarmo di una nazione a vantaggio del proprio governo e la libertà è condannata ad una lotta incessante contro la forza.

E' il contrario di ciò che ha luogo con la centralizzazione federale. Essa, invece di fornire al potere la forza del TUTTO contro la parte, arma la parte con la forza del tutto, contro gli abusi del suo stesso potere. Un cantone svizzero la cui libertà fosse minacciata dal suo governo, al posto della sua sola forza, può opporgli la forza di ventidue cantoni: questo non compensa forse i cantoni della rinuncia al diritto di ribellarsi, fatta con la nuova Costituzione del 1848 ?

La legge del progresso, essenziale per le Costituzioni federali, impossibile da applicare con una Costituzione unitaria, non è meno ben conosciuta dallo scrittore che io cito:

La Costituzione federale del 1848 riconosce alle Costituzioni cantonali il diritto di revisionarsi e di modificarsi; ma pone una doppia condizione: i cambiamenti devono essere fatti secondo le regole stabilite dalle Costituzioni dei rispettivi cantoni, ed in più devono esprimere dei progressi e non dei regressi. Essa vuole che un popolo modifichi la sua Costituzione per avanzare, non per arretrare....Essa dice ai popoli svizzeri: se non è per aumentare le vostre libertà che volete cambiare le vostre istituzioni, significa che siete appena degni di ciò che avete; rispettatele. Ma se invece è per aumentare le vostre libertà, ciò significa che siete degni di andare avanti, allora procedete sotto la protezione di tutta la Svizzera.

L'idea di garantire ed assicurare una Costituzione politica, pressappoco come si assicura una casa contro l'incendio o un campo contro la grandine, è in effetti l'idea capitale e certamente la più originale del sistema. I nostri legislatori del 91, 93, 95, 99, 1814, 1830 e 1848, hanno saputo invocare, in favore delle loro costituzioni, soltanto il patriottismo dei cittadini e la devozione delle guardie nazionali; la Costituzione del 93 è arrivata fino alla chiamata alle armi ed al diritto di insurrezione. L'esperienza ha dimostrato quanto simili garanzie siano illusorie. La Costituzione del 1852, simile a quella del Consolato e del primo impero, non è garantita da niente; e non sarò io che gli farò delle critiche. Quale garanzia potrebbe invocare al di fuori del contratto federativo? .... Tutto il mistero consiste tuttavia nel dividere la nazione in province indipendenti sovrane, o che per lo meno, amministrandosi da sé, dispongano di una forza, di una iniziativa e di una autorità sufficiente; e tali da garantirsi reciprocamente (b).

Un'eccellente applicazione di questi principi si trova nella costituzione dell'esercito svizzero:

La crescita della capacità difensiva si trova dovunque, dice M Chaudey, il pericolo d'oppressione da nessuna parte. Passando sotto la bandiera federale, i contingenti cantonali non dimenticano la terra dei padri; anzi è perché la patria gli ordina di servire la confederazione che essi obbediscono. Come potrebbero i cantoni temere che i loro soldati divengano gli strumenti di una cospirazione unitaria contro di essi ? Non è certamente lo stesso per gli altri Stati dell'Europa, dove il soldato è preso dal popolo per esserne allontanato e divenire corpo ed anima strumento di governo (c).

Lo stesso spirito domina nella costituzione americana, alla quale si può rimproverare tuttavia di aver moltiplicato oltre misura le attribuzioni dell'autorità federale. I poteri attribuiti al presidente americano sono estesi quasi quanto quelli accordati a Luigi Napoleone dalla Costituzione del 1848; questo eccesso di attribuzioni non è stato estraneo al progetto di assorbimento unitario che si è manifestato negli Stati del Sud, e che oggi coinvolge a loro volta anche quelli del Nord.

L'idea di federazione è certamente la più alta a cui si sia elevato fino ai nostri giorni il pensiero politico. Essa sorpassa di gran lunga le costituzioni francesi promulgate da settanta anni ispirate dalla Rivoluzione e la cui breve durata fa poco onore al nostro Paese. Essa risolve tutte le difficoltà che solleva l'accordo della Libertà con l'Autorità. Con essa non abbiamo più da temere di impantanarci nelle antinomie dei governi di fatto; di vedere la plebe emanciparsi proclamando una dittatura perpetua, la borghesia manifestare il suo liberalismo potenziando la centralizzazione ad oltranza, lo spirito pubblico corrompersi in questo abuso di permissività che si accoppia con il dispotismo, il potere tornare senza tregua nelle mani degli intriganti, come li chiamava Robespierre, e la Rivoluzione, per usare l'espressione di Danton, restare sempre in mano ai più scellerati. L'eterna ragione è infine giustificata, lo scetticismo vinto. Non si accuserà più delle disgrazie umane la debolezza della natura, l'ironia della Provvidenza o la contraddizione dello Spirito; l'opposizione dei princìpi sarà infine considerata come la condizione dell'equilibrio universale.

Note:

(a) Alcuni si sono immaginati che, senza il voto del 24 novembre 1851, che dette ragione alla Presidenza contro la destra ed assicurò il successo del colpo di Stato, la repubblica sarebbe stata salvata. Si è molto parlato, in questa occasione, contro i membri della Montagna che si erano pronunciati contro la destra. Ma è evidente, in base alla legge delle contraddizioni politiche ( vedere i cap. VI e VII ) e dopo i fatti, che se la Presidenza fosse stata sconfitta, dato che si era astenuto il popolo, il principio borghese sarebbe prevalso, la repubblica unitaria si sarebbe trasformata senza la minima difficoltà in monarchia costituzionale ed il Paese sarebbe tornato, non allo Statu quo del 1848, ma ad un regime forse più rigoroso di quello del 2 dicembre, poiché ad una forza almeno uguale nel governo avrebbe unito, per la preponderanza decisiva della classe media e la restrizione già effettuata a metà del diritto di suffragio, la decadenza meritata delle masse.

(b) Costituzione federale svizzera del 1848, articolo 6: " la garanzia della confederazione è accordata alle costituzioni cantonali, a condizione: a) che esse non contengano disposizioni contrarie a quelle della costituzione federale; b) che esse assicurino l'esercizio dei diritti politici nelle forme repubblicane, rappresentative o democratiche; c) che esse siano state accettate dal popolo e che possano essere revisionate, quando lo richieda la maggioranza assoluta dei cittadini ".

(c) Le Républicain Neuchatelois, 19 e 31 agosto, 1° settembre 1852.
 
 



CAPITOLO XI

SANZIONE ECONOMICA

FEDERAZIONE AGRICOLO- INDUSTRIALE


 



Tuttavia non è ancora stato detto tutto. Per irreprensibile che sia nella sua logica, qualunque siano le garanzie che essa offre nell' applicazione, la costituzione federale sopravviverà solo se non incontrerà nell'economia pubblica le cause incessanti di dissoluzione. In altri termini, il diritto politico deve avere il sostegno del diritto economico. Se la produzione e la distribuzione della ricchezza sono lasciate al caso; se l'ordine federale non serve che a proteggere l'anarchia capitalista e mercantile; se, per effetto di questa falsa anarchia, la Società si trova divisa in due classi, l'una di proprietari- capitalisti- imprenditori, l'altra di proprietari salariati; l'una di ricchi, l'altra di poveri, l'edificio politico sarà sempre instabile. La classe operaia, più numerosa e più povera, finirà per vedervi solo un inganno; i lavoratori si coalizzeranno contro i borghesi, che da parte loro si coalizzeranno contro gli operai; e si vedrà la confederazione degenerare, se il popolo è più forte, in una democrazia unitaria, se trionfa la borghesia, in monarchia costituzionale.

E' in previsione di questa eventualità di una guerra civile che si sono costituiti, come abbiamo detto nel capitolo precedente, i governi forti, oggetto di ammirazione dei pubblicisti; agli occhi dei quali le confederazioni sembrano delle bicocche incapaci di sostenere il Potere contro l'aggressione delle masse, cioè gli abusi del governo contro i diritti della nazione. Ancora una volta infatti, per non ingannarci, ogni potere è stabilito, ogni piazzaforte costruita, tutto l'esercito organizzato per combattere contro i pericoli interni come contro quelli esterni. Se la missione dello Stato è quella di rendersi padrone assoluto della società, ed il destino del popolo di servire da strumento per le sue imprese, bisogna riconoscere che il sistema federativo non può essere messo a confronto col sistema unitario. Nel primo, né il potere centrale per la sua dipendenza da quelli periferici, né la moltitudine, che è divisa, possono molto contro la libertà pubblica. Gli Svizzeri, dopo le loro vittorie su Carlo il Temerario, furono per lungo tempo la prima potenza militare in Europa. Ma, poiché essi formavano una confederazione, capace di difendersi contro lo straniero, come essa ha dimostrato, ma inadatti alla conquista ed ai colpi di Stato, sono rimasti una repubblica pacifica, il più inoffensivo ed il meno intraprendente degli Stati. La Confederazione germanica ha avuto anch'essa, sotto il nome di impero, i suoi secoli di gloria, ma poiché la potenza imperiale mancava di stabilità e di un centro, la confederazione è stata smembrata e la nazionalità compromessa. A sua volta la Confederazione dei Paesi Bassi è svanita a contatto con le potenze centralizzate: è inutile menzionare la Confederazione italiana. Sì, certo, se la civiltà, se l'economia delle società dovesse mantenere lo statu quo antico, vedrei meglio per i popoli l'unità imperiale che la federazione.

Ma tutto annuncia che i tempi sono cambiati e che, dopo la rivoluzione delle idee, deve arrivare, come conseguenza legittima, la rivoluzione degli interessi. Il ventesimo secolo aprirà l'era delle federazioni (a), oppure l'umanità ricomincerà un purgatorio di mille anni. Il vero problema da risolvere, in realtà, non è il problema politico, è il problema economico. E' per trovare una soluzione ad esso che i miei amici ed io proponemmo nel 1848 di proseguire l'opera rivoluzionaria di febbraio. La democrazia era al potere; il governo provvisorio non aveva che da agire per ottenere il successo. Una volta fatta la rivoluzione nella sfera del lavoro e della ricchezza, non ci doveva essere nessun motivo di preoccupazione per quella da operare in seguito nel governo. La centralizzazione, che ebbe a dissolversi più tardi, sarebbe stata in quel momento di grande aiuto. Nessuno d'altra parte a quell'epoca, eccetto chi scrive e che dal 1890 si era dichiarato anarchico, si sognava di attaccare l'unità e di chiedere la federazione.

Il pregiudizio democratico ha deciso diversamente. I politici della vecchia scuola sostennero e sostengono ancora oggi, che la strada giusta da seguire, in fatto di rivoluzione sociale, è quella di cominciare dal governo, salvo in seguito di occuparsi, con comodo, del lavoro e della proprietà. Il rifiuto della democrazia, dopo aver soppiantato la borghesia e cacciato il principe, ha determinato quello che è accaduto. L'impero è venuto ad imporre il silenzio a quelli che parlavano senza idee; la rivoluzione economica si è fatta in senso inverso alle aspirazioni del 1848 e la libertà è stata compromessa.

Non è il caso che io presenti, a proposito della federazione, un quadro della scienza economica ed illustri dettagliatamente tutto ciò che ci sarebbe da fare secondo questo ordine di idee. Dico semplicemente che il governo federale, dopo aver riformato l'ordine politico, deve affrontare per complemento necessario una serie di riforme che agiscano nell'ordine economico; ecco in due parole in cosa consistono queste riforme.

Come dal punto di vista politico due o più Stati indipendenti possono confederarsi per garantire la reciproca integrità territoriale o per la protezione delle loro libertà, così dal punto di vista economico possono confederarsi per la protezione reciproca del commercio e dell'industria, con ciò che si chiama unione doganale; ci si può confederare per la costruzione ed il mantenimento delle vie di comunicazione, strade, canali, ferrovie, per l'organizzazione del credito e dell'assicurazione, ecc.. Lo scopo di queste federazioni particolari è quello di sottrarre i cittadini degli Stati contraenti allo sfruttamento capitalista e bancocratico sia interno che esterno; esse formano nel loro insieme un'opposizione al feudalesimo finanziario oggi dominante, ciò che io chiamerò federazione agricolo-industriale.

Non entrerò al riguardo in alcuna trattazione. Il pubblico, che più o meno da quindici anni ha seguito i miei lavori, sa ciò che voglio dire. Il feudalesimo finanziario ed industriale ha per scopo di consacrare, attraverso il monopolio dei servizi pubblici, il privilegio dell'istruzione, la parcellizzazione del lavoro, l'interesse dei capitali, l'ineguaglianze delle imposte; la debolezza politica delle masse, la servitù economica o salariato: in una parola, l'ineguaglianza delle condizioni e delle ricchezze. La federazione agricolo-industriale, al contrario, tende ad avvicinare sempre più l'uguaglianza, organizzando a costi più bassi ed in altre mani, che non siano quelle dello Stato, tutti i servizi pubblici; con la liberalizzazione del credito e dell'assicurazione, con la perequazione dell'imposta, con la garanzia del lavoro e dell'istruzione, per mezzo di una combinazione del lavoro che permetta ad ogni lavoratore di divenire, da semplice operaio, industriale o artigiano e, da salariato, proprietario.

Una simile rivoluzione non potrebbe evidentemente essere opera né di una monarchia borghese, né di una democrazia unitaria; essa è compito di una federazione. Non rientra nel contratto unilaterale o di beneficenza, né nelle istituzioni di carità; è propria del contratto sinallagmatico e commutativo (b).

Considerata in se stessa, l'idea di una federazione industriale, che serva di complemento e di ratifica alla federazione politica, riceve la conferma più evidente dai principi dell'economia. E' l'applicazione sulla più alta scala dei principi di mutualità, di divisione del lavoro e di solidarietà economica, che la volontà del popolo trasformerebbe in legge dello Stato.

Che il lavoro resti libero; che il potere, più mortale per il lavoro che il comunismo stesso, si astenga dal toccarlo: finalmente. Ma le industrie sono sorelle, sono legate le une alle altre; l'una non può soffrire senza che l'altra ne risenta. Che si federino dunque, non per assorbirsi e fondersi, ma per garantirsi reciproche condizioni di prosperità a loro comuni e di cui nessuno può arrogarsi il monopolio. Formando un tale patto, esse non potranno più attentare alla loro libertà; gli daranno solo più certezza e più forza. Sarà per esse come è per i poteri dello Stato e per gli organi di un animale, in cui la potenza e l'armonia sono il risultato della separazione.

Così, fatto ammirevole, la zoologia, l'economia politica e la politica si trovano qui d'accordo per dimostrarci: la prima, che l'animale più perfetto, con gli organi più efficienti e di conseguenza il più attivo, il più intelligente, il meglio organizzato per dominare, è quello le cui facoltà ed i cui organi sono meglio specializzati, ben rapportati e coordinati; la seconda, che la società più produttiva, più ricca, la meglio assicurata contro l'ipertrofia ed il pauperismo, è quella in cui il lavoro è meglio diviso, la concorrenza più aperta, lo scambio più leale, la circolazione più regolare, il salario più giusto, la proprietà più legale, tutte le industrie garantite reciprocamente; la terza, infine, che il governo più libero e morale è quello in cui i poteri sono meglio divisi, l'amministrazione la meglio ripartita, l'indipendenza dei gruppi la più rispettata, le autorità provinciali, cantonali, municipali, le meglio servite dall'autorità centrale, è questo, in una parola, il governo federativo.

Riassumendo, come il principio monarchico o di autorità ha per primo corollario l'assimilazione o l'incorporazione dei gruppi che si annette, in altri termini la centralizzazione amministrativa, che si potrebbe anche definire comunanza delle funzioni politiche; per secondo corollario, l'indivisione del potere, altrimenti detto assolutismo; per terzo corollario, il feudalesimo terriero ed industriale; così il principio federativo, liberale per eccellenza, ha per primo corollario l'indipendenza amministrativa dei gruppi aggregati; per secondo corollario la separazione dei poteri in ogni Stato sovrano; per terzo corollario, la federazione agricolo-industriale.

In una repubblica costituita su tali fondamenti, si può dire che la libertà sia elevata alla terza potenza, l'autorità ridotta alla sua radice cubica. La prima, in effetti, cresce con lo Stato, in altri termini si moltiplica con le federazioni; la seconda, subordinata di grado in grado, si ritrova intera solo nella famiglia, dove è temperata dal duplice amore matrimoniale e paterno.

Senza dubbio la conoscenza di queste grandi leggi non poteva acquisirsi che attraverso una lunga e dolorosa esperienza; può anche essere che, prima di pervenire alla libertà, la nostra specie avesse bisogno di passare per le forche della servitù. Ad ogni età il suo ideale, ad ogni epoca le sue istituzioni.

Adesso i tempi sono maturi. L'Europa intera chiede la pace ed il disarmo. E come se fosse riservata a noi la gloria di una così grande realizzazione, è verso la Francia che si rivolgono le speranze; è dalla nostra nazione che si attende il segnale della felicità universale.

I principi ed i re, a prenderli in senso tradizionale, sono anticaglie: già li abbiamo costituzionalizzati; si avvicina il giorno in cui non ci saranno che presidenti federali.

Allora tutto sarà finito per le aristocrazie, per le democrazie, e per tutte le crazie, che sono la cancrena della nazione, spauracchi della libertà. Questa democrazia che si crede liberale e che non sa che gettare l'anatema contro il federalismo ed il socialismo, come nel 1793 fecero i loro padri , ha almeno idea di cosa sia la libertà?.... Ma a tutto deve esserci un limite. Ecco che noi cominciamo a parlare di patto federale; suppongo di non sopravvalutare l'ebetismo della presente generazione, con l'assegnare il restauro della giustizia al cataclisma che la spazzerà via.

Quanto a me, cui una certa stampa ha cominciato a soffocare la parola, ora con un silenzio calcolato, ora con il travisamento o l'ingiuria, posso gettare questa sfida ai miei avversari:

Tutte le mie idee economiche, elaborate per venticinque anni, possono riassumersi in tre parole: Federazione agricolo- industriale.

Tutti le mie concezioni politiche si riducono ad una formula analoga: Federazione politica o Decentralizzazione.

E come non faccio delle mie idee uno strumento di partito, né un motivo di ambizione personale, tutte le mie speranze presenti o e future sono espresse con questo terzo termine corollario degli altri due: Federazione progressiva.

Sfido chiunque a fare una professione di fede più netta, di portata più vasta, e nello stesso tempo di maggior moderazione. Vado più lontano, sfido tutti gli amici della libertà e del diritto a metterla in discussione.

Note:

(a) Ho scritto in qualche luogo ( Della Giustizia nella Rivoluzione e nella Chiesa pag. 46 4° vol., ed. belga, nota) che l'anno 1814 aveva aperto l'era delle costituzioni in Europa. La mania di contraddire ha fatto fischiare questa proposizione da gente che, mischiando a casaccio, nelle sue quotidiane divagazioni, storia e politica, affari ed intrighi, ignora perfino la cronologia del sua secolo. Ma non è questo che in questo momento mi interessa. L'era delle costituzioni, molto reale e perfettamente chiamata, ha il suo analogo nell'era attica, segnata da Augusto, dopo la vittoria da lui riportata su Antonio ad Actium, e che coincide con l'anno 30 prima di Gesù Cristo. Queste due ere, l'era attica e l'era delle costituzioni, hanno in comune che indicavano un rinnovamento generale, in politica, economia politica, diritto pubblico, libertà ed il senso civico generale: Entrambe inauguravano un periodo di pace, tutte e due testimoniavano della coscienza che avevano i contemporanei della rivoluzione generale che si operava, e della volontà dei capi delle nazioni di concorrervi. Tuttavia l'era attica, disonorata per l'orgia imperiale, è caduta nell'oblio; essa è stata completamente cancellata dall'era cristiana, che servì a segnare, in un modo altrettanto grandioso, morale e popolare, lo stesso rinnovamento. Non sarà diversamente per l'era detta costituzionale: essa sparirà a sua volta davanti all'era federativa e sociale, la cui idea profonda e popolare deve abrogare l'idea borghese e moderatrice del 1814.

(b) Un semplice calcolo lo metterà in evidenza. L'istruzione media da impartire ai due sessi, in uno Stato libero, non può abbracciare un periodo inferiore ai dieci, dodici anni, il che comprende pressappoco un quinto della popolazione totale, in Francia, sette milioni e mezzo di individui, ragazzi e ragazze, su una popolazione di trentotto milioni. Nei paesi in cui i matrimoni producono più bambini, come in America, questa proporzione è ancora più considerevole. Sono dunque sette milioni e mezzo di individui dei due sessi ai quali si tratta di dare, in misura accettabile, ma che non avrebbe comunque nulla di aristocratico, l'istruzione letteraria, scientifica, morale e professionale. Ora, qual'è in Francia il numero di individui che frequentano le scuole secondarie e superiori ? Centoventisettemilaquattrocentosettanta

quattro, secondo la statistica del Guillard. Tutti gli altri sette milioni trecentosettantacinquemilacentoventicinque, sono condannati a non superare mai la scuola primaria. Ma è necessario che tutti frequentino: i comitati di reclutamento registrano ogni anno un numero crescente di analfabeti. Che cosa farebbero, mi chiedo, i nostri governanti, se dovessero risolvere questo problema di dare un'istruzione media a settemilionitrecentosettantacinquemilacentoventicinque individui, oltre ai centoventisettemilaquattrocentosettantaquattro che già occupano le scuole? Che cosa possono fare, qui, il patto unilaterale ed il contratto di beneficenza di un Impero paternalistico e le fondazioni caritatevoli della Chiesa, ed i consigli di previdenza di Malthus, e le speranze del libero scambio? Tutti gli stessi comitati di salute pubblica, con il loro vigore rivoluzionario non riuscirebbero. Simile compito può essere assolto solo per mezzo di una combinazione fra apprendistato e l'istruzione scolastica, che faccia di ogni allievo un produttore: ciò che presuppone una federazione universale. Non conosco problema più scottante di questo, per la vecchia politica.

FINE