Testo tratto da L'attitude fédéraliste, conferenza
pronunciata nel 1947 a Montreux in occasione del Congresso dell'Union
Européenne des Fédéralistes.
Gli organizzatori di tale congresso hanno voluto che esso si aprisse
con uno studio dei fondamenti spirituali del federalismo. Il pericolo che
presenta un simile soggetto è che esso rischia di condurre verso
generalizzazioni teoriche; ma non vi è niente di più contrario
all'essenza stessa del federalismo che lo spirito teorico e le generalizzazioni.
E questa affermazione riassume molto bene il concetto principale che è
al centro della mia esposizione di stasera.
Ho sempre provato ripugnanza di fronte all'ipotesi di separare i valori
spirituali dalla loro incarnazione nelle realtà umane. Tenterò
dunque di definire lo spirito federalista in modo indiretto, per implicazione,
e mi terrò legato il più possibile alle sue manifestazioni
concrete, quali possiamo osservarle e controllarle molto da vicino in un'esperienza
ben conosciuta: quella della Confederazione elvetica.
Libertà e partecipazione
Tuttavia non posso evitare di porre, a premessa, alcune definizioni.
Penso che sia vano parlare di problemi politici se non ci si è prima
soffermati su qualche idea dell'uomo; e questo perché ogni politica
implica una certa idea dell'essere umano e contribuisce a promuovere una
qualche idea di umanità (che lo si voglia o no, che piaccia o no).
Qual è dunque la definizione dell'uomo su cui possiamo trovarci
d'accordo o, per meglio dire, sulla quale siamo tacitamente d'accordo,
dal momento che in effetti siamo qui riuniti per parlare di federalismo?
Non saremmo qui se pensassimo che il tipo d'uomo più desiderabile
è l'individuo isolato, liberato da ogni responsabilità
di fronte alla comunità. Poiché, in questo caso, ognuno sarebbe
rimasto a casa propria. Ma ugualmente non saremmo qui se pensassimo, con
Hitler, che l'uomo non è che un soldato politico, totalmente
assorbito dal servizio della comunità. Poiché allora saremmo
dall'altra parte della cortina di ferro, quanto meno spiritualmente. Se
siamo qui è perché sappiamo che l'uomo è un essere
doppiamente responsabile: di fronte alla sua personale ed esclusiva vocazione,
da una parte, e di fronte alla comunità all'interno della quale
essa si esercita, dall'altra. Agli individualisti noi ricordiamo che l'uomo
non può realizzarsi integralmente senza trovarsi al contempo calato
all'interno dell'insieme sociale. E ai collettivisti ricordiamo che le
conquiste sociali non sono nulla se non portano a rendere ogni individuo
più libero nell'esercizio della sua personale vocazione.
L'uomo è al tempo stesso libero e impegnato, autonomo e solidale.
Egli vive nella tensione tra questi due poli: il particolare e il generale;
tra queste due responsabilità: la propria vocazione e la città;
tra questi due amori: quello che deve a se stesso e quello che deve al
prossimo - indissolubili.
Quest'uomo che vive nella tensione, nel dibattito creatore e nel dialogo
permanente, è la
persona.
Ecco dunque definiti tre tipi umani, che favoriscono tre tipi differenti
di regimi politici, e sono da essi favoriti.
All'uomo considerato come individuo puro, libero ma non impegnato, corrisponde
un regime democratico che tende verso l'anarchia e che porta al disordine,
il quale prepara la strada alla tirannia. All'uomo considerato come soldato
politico, totalmente impegnato ma non libero, corrisponde il regime totalitario.
Infine all'uomo considerato come persona, al contempo libera e impegnata,
vivente nella tensione tra l'autonomia e la responsabilità, corrisponde
il regime federale.
Aggiungerò ancora un'osservazione, per completare questo schema
troppo rapido ma che mi pare indispensabile. Non bisogna pensare che la
persona sia un termine medio o un giusto mezzo tra l'individuo senza responsabilità
e il soldato politico senza libertà; poiché la persona è
l'uomo reale, e le altre due non sono che deviazioni morbose, dimissioni
dalla completa umanità. La persona non è a metà strada
tra la peste ed il colera, ma incarna la santità civica. Un uomo
che beve acqua e che si lava non è a metà strada tra chi
muore di sete e chi annega.
Il federalismo, quindi, non nascerà mai da un abile dosaggio
d'anarchia e di dittatura, di ottuso particolarismo e di centralizzazione
oppressiva. Ognuno sa che l'individualismo estremista prepara il collettivismo:
questi due estremi sono sullo stesso piano, si condizionano e si alimentano.
È con la polvere dei cittadini irresponsabili che i dittatori fanno
il loro cemento. E durante l'ultima guerra abbiamo potuto vedere che le
resistenze che incontrano i dittatori sono al contrario espressione dell'azione
di cittadini responsabili, cioè di persone federate.
Avendo schizzato così a grandi tratti la concezione dell'uomo
su cui i nostri lavori devono fondarsi e che hanno per scopo ultimo di
promuovere, possiamo ora passare ad una descrizione più concreta
dell'attitudine e dei metodi federalisti.
L'idea federalista e la
Svizzera
Come tutte le grandi idee, l'idea federalista è molto semplice,
ma non al punto da essere definita in poche parole, in una formula. Essa
è di tipo organico più che razionale, e dialettico più
che semplicemente logico. Sfugge alle categorie geometriche del razionalismo
volgare, ma corrisponde molto bene alle forme di pensiero introdotte dalla
scienza relativista. A mio parere il movimento intimo del pensiero federalista
potrebbe essere paragonato ad un ritmo, ad una respirazione, all'alternanza
perpetua di sistole e diastole. Il pensiero federalista non progetta davanti
a sé un'utopia europea che si tratterebbe semplicemente di raggiungere,
o dei piani statici che bisognerebbe realizzare in quattro o cinque anni
(aggredendo in modo spietato le realtà vive che ostacolano il piano).
Essa cerca al contrario il segreto di un equilibrio delicato (e costantemente
in costruzione) tra i gruppi: i quali vanno composti nel loro pieno rispetto,
e non affatto sottomessi gli uni agli altri, o distrutti uno dopo l'altro.
Non si saprebbe troppo insistere su questo doppio movimento che caratterizza
il pensiero federalista, su questa interazione, questa dialettica e questa
bipolarità che è il battito stesso del cuore di ogni regime
federalista. Dimenticarlo sarebbe condannarsi a ricadere continuamente
in un malinteso fondamentale, che l'esempio della nostra vita politica
svizzera illustra molto chiaramente.
In effetti le parole Federazione e Federalismo sono comprese in due
modi molto diversi dagli svizzeri tedeschi e dagli svizzeri francesi. In
tedesco, Confederazione si dice Bund, che significa unione ed evoca
prima di tutto l'idea di centralizzazione. Nella Svizzera romanza, al contrario,
coloro che si proclamano federalisti sono in realtà i difensori
gelosi dell'autonomia dei cantoni contro la centralizzazione. Per gli uni,
federare vuol dire semplicemente: unirsi. Per gli altri, essere federalisti
vuol dire semplicemente: restare liberi a casa propria. Gli uni e gli altri
hanno torto, perché la loro è solo una mezza verità.
L'autentico federalismo non consiste né nella sola unione dei cantoni,
né nella loro sola autonomia. Esso consiste nell'equilibrio continuamente
tutelato dell'autonomia delle regioni e della loro unione, nella composizione
costante di queste due forze di senso contrario, affinché si sostengano
reciprocamente. Quest'ultimo punto è perfettamente espresso dal
motto della Svizzera, paradossale o "dialettico" nella sua forma: "Uno
per tutti, tutti per uno". In effetti, "uno per tutti" indica
lo slancio delle persone e delle regioni verso l'unione, mentre il "tutti
per uno" simboleggia l'aiuto che l'unione deve portare ad ogni regione
e ad ogni persona.
È molto probabile che, sul piano europeo, si vadano a delineare
due tendenze simili a quelle che ho segnalato a proposito della Svizzera.
Avremo federalisti che non penseranno che a fare l'unione e a rinforzarla,
e avremo federalisti preoccupati soprattutto di salvaguardare i diritti
di ogni nazione contro le empietà del potere centrale. E dovremo
costantemente ricordare ai due partiti che il vero federalismo non è
né l'una né l'altra delle due tendenze, ma che risiede al
contrario nella loro coesistenza accettata, nel loro dialogo, nella loro
tensione feconda.
Quando si leggono gli antichi storici svizzeri, precedenti il 1848,
si è stupiti di constatare che essi non impiegano mai il termine
federalismo, che l'ignorano e che si riferiscono solo raramente, e in molto
vago, all'idea federalista in sé. Questo avviene forse perché
questa idea, come vengo dal sottolineare, è al tempo stesso semplice
da ascoltare e delicata da formulare. È incontestabile, in effetti,
che l'idea federalista non ha smesso d'ispirare e guidare il cammino dei
migliori uomini di Stato svizzeri, durante i secoli. Ma non è meno
vero che questa idea è rimasta non formulata, e anche accuratamente
non formulata, fino a che la crisi di una guerra civile, nel 1847, non
l'ha obbligata a prendere forma e forza di legge. E solo nel ventesimo
secolo i nostri pensatori e sociologi si sono messi a commentare e filosofare
a tale riguardo. Fino al 1848 le cose andavano da sé, come la vita
stessa; era la vita del civismo e della pratica politica degli svizzeri.
È la sfida rappresentata dallo spirito totalitario che li obbliga
a fare oggi la teoria di questa pratica e a trasformarla in una specie
di programma o di manifesto vivente.
Grazie alla forza delle cose, l'unione pacifica di due religioni, di
quattro lingue, di ventidue repubbliche e di non so quante "razze" in uno
Stato che li rispetti, questa unione prende il carattere di un anti-razzismo
dichiarato e, al tempo stesso, di un anti-nazionalismo.
L'istinto aggredito diventa coscienza; il costume attaccato diviene
programma; la pratica, messa in discussione da una propaganda aggressiva,
si vede costretta a sviluppare una teoria a propria difesa.
Viviamo questo momento della storia in cui il federalismo svizzero,
se vuole durare, deve diventare a sua volta missionario.
Tale è la sua crisi: o negarsi o trionfare, ma sul piano dell'Europa
intera.
Il grande pericolo dell'ora presente, per la Svizzera, io lo vedo nel
fatto che essa deve riformularsi. Deve dire ciò non c'era
bisogno di definire e che anche per questo funzionava al meglio. Essa si
espone al rischio massimo: quello di staccarsi dalle proprie basi concrete,
perdendo così in forza originaria ciò che essa potrebbe guadagnare
in coscienza dei fini.
La stessa cosa vale per il federalismo europeo. Un sentimento comune
si formava, a poco a poco, dalla guerra 1914-18. La Società delle
Nazioni fu uno di questi sintomi, per quanto fosse ancora debole. L'idea
di una rete di patti bilaterali ne fu un altro. Nei due casi il sentimento
federalista fu prontamente deviato a profitto di politiche di egemonia.
Tuttavia questo sentimento non smetteva di crescere e di rafforzarsi nella
maggior parte dei popoli. La guerra da cui ora usciamo è venuta
a risvegliarlo. Bruscamente la questione che si pone è di federare
questa Europa in cui la pace è ristabilita. Ma poiché essa
si pone bruscamente, rischia di essere malposta. Intendo dire che essa
rischia di non suscitare altro che piani razionali e sistemi.
Sei principi direttivi
È per evitare più che possibile questa trappola che mi
ora di dedicherò a delineare, uno dopo l'altro, alcuni dei principi
direttivi che in modo del tutto empirico hanno formato la nostra Federazione.
E li sceglierò tra quelli che mi paiono applicabili, immediatamente,
nello stato presente dell'Europa.
PRIMO PRINCIPIO - La federazione non può nascere che dalla
rinuncia ad ogni idea d'egemonia organizzatrice, esercitata dall'una
delle nazioni che la compongono.
Tutta la storia svizzera illustra questo principio. Ogni volta che uno
dei cantoni (come Zurigo) o anche un gruppo di cantoni cittadini (più
ricchi o più popolati degli altri) hanno creduto d'imporre il loro
primato, gli altri si sono costituiti in lega contro di loro, li hanno
obbligati a rientrare nei ranghi e in questo modo l'unione federale ha
marcato un progresso. In occasione dell'ultima grave crisi, la guerra civile
del 1847 che ha opposto cattolici e protestanti, i vincitori non hanno
ottenuto altro che di rendere ai vinti la loro piena uguaglianza di diritto.
E da questo atto di rinuncia all'egemonia conquistata è risultata
la costituzione del 1848, vera base dello Stato federale moderno. È
per questo motivo la Svizzera non guarderà mai senza un certo timore
tali "Grandi" arrogarsi l'iniziativa di una federazione continentale o
mondiale. Lo scacco di Napoleone, e poi quello di Hitler, nei loro tentativi
per fare l'unità dell'Europa sono avvertimenti utili. Ci confermano
nella convinzione che non si può raggiungere l'obiettivo, che è
l'unione, grazie a mezzi imperialisti. Questi non possono condurre che
ad un'unificazione forzata, caricatura dell'unione autentica.
SECONDO PRINCIPIO - Il federalismo non può nascere che
dalla rinuncia ad ogni spirito di sistema. Ciò che ho appena
detto a proposito dell'imperialismo o dell'egemonia di una nazione vale
ugualmente per l'imperialismo di un'ideologia. Si potrebbe definire l'attitudine
federalista come un costante ed istitntivo rifiuto di ricorrere a soluzione
sistematiche, a piani semplici costruiti attorno a linee, chiare e soddisfacenti
per la logica, ma anche al tempo stesso infedeli al reale, che vessano
le minoranze e distruggono le diversità che sono la condizione di
ogni vita organica. Ricordiamo sempre che federare non è
mettere
in ordine secondo un piano geometrico, a partire da un centro o da
un'asse; federare è solo semplicemente mettere insieme, comporre
in un modo o nell'altro queste realtà concrete ed eteroclite che
sono le nazioni, le regioni economiche, le tradizioni politiche, ed è
metterle d'accordo secondo i loro caratteri particolari, e che vanno rispettati
e articolati in un tutto.
TERZO PRINCIPIO -
Il federalismo non conosce problemi di minoranze.
Si obietterà che il totalitarismo, anch'esso, sopprime tale problema:
ma lo fa soppprimendo le minoranze che le posavano.
C'è un totalitarismo (almeno in germe) in ogni sistema quantitativo:
c'è un federalismo ovunque c'è la qualità che premia.
Per esempio: il totalitarismo vede un'ingiustizia o un errore nel fatto
che una minoranza abbia gli stessi diritti di una maggioranza. È
che ai suoi occhi la minoranza non rappresenta che una cifra, e la più
piccola. Per il federalista va da sé che una minoranza possa contare
per quello che è, cioè in certi casi più di una maggioranza,
perché ai suoi occhi rappresenta una qualità insostituibile.
(Si potrebbe anche dire: una funzione.)
In Svizzera questo rispetto delle qualità non si traduce solo
nel modo d'elezione del Consiglio degli Stati, ma soprattutto - e in un
modo molto più efficace - nei costumi della vita politica e culturale,
dove si vede che la Svizzera romanza e la Svizzera italiana giocano un
ruolo con ha relazione con il numero dei loro abitanti o dei loro chilometri
quadrati.
QUARTO PRINCIPIO - La federazione non per scopo quello di cancellare
le diversità e fondere tutte le nazioni in un solo blocco, ma al
contrario quello di salvaguardare le loro qualità proprie.
La ricchezza della Svizzera, ad esempio, risiede nelle sue diversità
gelosamente difese e mantenute. Al tempo stesso, la ricchezza dell'Europa
e l'essenza stessa della sua cultura sarebbero perdute se si tentasse d'unificare
il continente, così da mescolare tutto e ottenere una sorta di nazione
europea in cui i latini e i tedeschi, gli slavi e gli anglosassoni, i scandinavi
e i greci si vedrebbero sottomessi alle stesse leggi e agli stessi costumi,
che non potranno soddisfare nessuno di questi gruppi e che li distruggerà
tutti. Se l'Europa deve federarsi è perché ciascuno dei suoi
membri possa trarre beneficio dall'aiuto di tutti gli altri e riesca così
a conservare le proprie particolarità e la propria autonomia, che
non sarebbe in condizione di difendere da solo dalla pressione dei grandi
imperi che lo minacciano.
Ciascuna delle nazioni che compongono l'Europa rappresenta in essa una
funzione propria e insostituibile, come quella di un organo dentro un corpo.
Come la vita normale del corpo dipende dalla vitalità di ciascuno
dei propri organi, allo stesso modo la vita di un organo dipende dalla
sua armonia con tutti gli altri.
Se le nazioni dell'Europa arrivassero a concepirsi in questo ruolo di
organi diversi all'interno di uno stesso corpo, esse comprenderebbero che
la loro armonia è una necessità vitale e non una concessione
che si domanda loro o una domanda del loro proprio valore. Esse comprenderebbero
anche che in una federazione esse non avrebbero a confondersi, ma a funzionare
di concerto, ciascuna secondo la propria vocazione. Non sarebbe nemmeno
una questione di tolleranza, virtù puramente negativa e che nasce
il più delle volte dallo scetticismo. Ad ogni nazione sarebbe chiesto
di dare il meglio di sé, alla propria maniera e secondo il proprio
genio. Dopo tutto il polmone non deve "tollerare" il cuore. Tutto ciò
che gli domando è di essere un vero polmone, d'essere un polmone
più che possibile e, in questa misura, di aiutare il cuore ad essere
un buon cuore.
QUINTO PRINCIPIO - Il federalismo poggia sull'amore della complessità,
per contrasto con il semplicismo brutale che caratterizza lo spirito totalitario.
Dico proprio l'amore, e non il rispetto o la tolleranza. L'amore delle
complessità culturali, psicologiche e anche economiche, questa è
la santità del regime federalista. E i suoi peggiori nemici sono
coloro di cui annunciava la venuta già nel 1880 il grande Jacob
Burckhardt, in una lettera profetica, parlandone come dei "terribili semplificatori".
Quando gli stranieri si stupiscono dell'estrema complessità delle
istituzioni svizzere (di questa specie di movimento d'alta orologeria che
compone i nostri ingranaggi comunali, cantonali e federali, così
variamente accordati), bisogna mostrare che tale articolazione è
la condizione stessa delle nostre libertà. È grazie ad essa
che i nostri funzionari sono costantemente richiamati al concreto e che
i nostri legislatori sono obbligati a mantenere un contatto attento con
le realtà umane e naturali del paese. La Svizzera è composta
da una moltitudini di gruppi e organismi politici, amministrativi, culturali,
linguistici, religiosi, che non hanno le stesse frontiere, e che si ripartiscono
secondo differenti divisioni. È chiaro che leggi o istituzioni concepite
in uno spirito unitario, giacobino o totalitario vesserebbero necessariamente
uno o più di questi gruppi, tenderebbero a ridurre la loro varietà
e mutilerebbero così in molte delle loro dimensioni le persone stesse
che in essi si riconoscono.
Certo è più facile elaborare decreti su una tabula
rasa, semplificare le realtà con una tratto di penna, realizzando
progetti in un ufficio e forzando quindi la loro realizzazione: distruggendo
tutto ciò che resiste o semplicemente ciò che emerge. Ma
ciò che si distrugge in questo modo è la vitalità
civica di un popolo. Una politica federalista preoccupata di misurarsi
con la realtà, sempre complessa, esige infinitamente più
cure, maggiore ingegnosità tecnica e una migliore comprensione dei
popoli che governa. Essa esige molto più autentico senso politico.
Infine, se ci si riflette, si percepisce che la politica federalista non
è nient'altro che la politica tout court, la politica per
eccellenza, cioè l'arte di organizzare la città a beneficio
dei cittadini; i metodi totalitari, invece, sono anti-politici per definizione,
dato che semplicemente sopprimono le diversità a causa della loro
incapacità a comporle in un tutt'uno organico e vivente.
SESTO PRINCIPIO - Una federazione si forma da vicino a vicino,
tramite persone e gruppi, e non certo a partire da un centro o tramite
i governi.
Vedo la federazione europea comporsi lentamente, un po' ovunque, e in
tutti i modi. Qui c'è un accordo economico e là c'è
una parentela culturale che si affermano. Qui ci sono due Chiese di confessioni
vicine che si aprono l'una all'altra e là c'è un gruppo di
piccoli paesi che costituiscono un'unione doganiera. E soprattutto vi sono
persone che creano poco a poco reti differenziate di scambi europei. Niente
di tutto questo è inutile. E tutto ciò che appare così
frammentato e spesso così poco efficace forma un po' alla volta
strutture complesse, disegna i lineamenti di un'ossatura e il sistema dei
vasi sanguigni di ciò che diventerà un giorno il corpo degli
Stati Uniti d'Europa. Al di sopra e al di sotto dei governi, l'Europa è
molto più pronta ad organizzarsi di quanto non sembri. Essa è
già molto più unita, in realtà, di quanto non si creda.
È sul piano dell'azione governativa che le opposizioni e le rivalità
esplodono, è solo là che sono irriducibili.
Totalitarismo e federalismo
Nel mondo del ventesimo secolo non ci sono che due campi, due politiche,
due attitudini umane possibili. Non si tratta della destra e della sinistra,
divenute quasi indistinguibili nelle loro manifestazioni. Nemmeno del socialismo
e del capitalismo, dato che l'uno tende a farsi nazionale e l'altro statalista.
Non sono la Tradizione e il Progresso, che pretendono allo stesso modo
di difendere la libertà. E non sono nemmeno la Giustizia e la Libertà,
che è anche impossibile opporre tanto in linea di fatto che in linea
di principio. Oggi, allontanando tutti questi vecchi dibattiti, vi sono
solo il totalitarismo e il federalismo. Una minaccia e una speranza.
Questa antitesi domina il secolo; e ne è il vero dramma. Tutte
le altre impallidiscono di fronte ad essa, sono secondarie o illusorie
o, nel migliore dei casi, ad essa subordinate.
I principi del federalismo, quali li ho ricordati, si oppongono diametralmente
e punto per punto, con una precisione stupefacente, ai dogmi dei totalitari.
Tutti i sistemi totalitari, in effetti, sono fondati sull'egemonia di
un partito o di una nazione, sullo spirito di sistema, sulla distruzione
delle minoranze e delle opposizioni, sull'unificazione forzata delle diversità,
sull'odio verso le complessità viventi, sulla distruzione dei gruppi
e sul disprezzo delle vocazioni, rimpiazzate da una scheda di mobilitazione
professionale, politica e infine militare.
Il totalitarismo è semplice e rigido, come la guerra, come la
morte. Il federalismo è complesso e flessibile, come la pace, come
la vita. E in quanto semplice e rigido, il totalitarismo è una tentazione
permanente per la nostra fatica, per la nostra inquietudine, per i nostri
dubbi e per le nostre vertigini di diserzione spirituale. Lo spirito totalitario
non è pericoloso solo perché trionfa oggi in una decina di
paesi e progredisce più o meno rapidamente in tutti gli altri; ma
soprattutto perché li minaccia tutti, all'interno dei nostri pensieri
e al minimo indebolimento della nostra vitalità, del nostro coraggio
e del senso della nostra vocazione. |